Se il buongiorno si vede dal mattino, un buon libro lo si vede dal suo inizio. Siamo appena entrati in una libreria alla ricerca di una nuova lettura, migliaia di titoli affastellati sugli scaffali. Quale scegliere?

Ed ecco che una copertina dai colori sgargianti ha attirato la nostra attenzione, ci avviciniamo, prendiamo il libro, lo apriamo distrattamente. Il palmo della mano accarezza la carta ed ecco il nostro occhio cade sulle prime righe, sperando che bastino a dirci che, sì, quello è esattamente il libro di cui avevamo bisogno. Il titolo rimane comunque sempre un elemento esterno al testo vero e proprio mentre l’incipit ne è parte fondamentale e non appare solo come un segnale di riconoscimento generico di identificazione dell’opera, ma stabilisce subito un meccanismo di complesse attese. Poche parole a racchiudere un mondo o forse a lasciarne fuori infiniti altri possibili. È l’incipit un esplosione semantica che genera e avvia il cosmo romanzesco e ci consente di individuarne i caratteri, di intuire panorami e sviluppi futuri, questo avviene non appena leggiamo le prime dieci o venti righe. È questa la sfida e la missione di ogni incipit nella storia della letteratura. L’inizio è sempre una fase cruciale e delicata, è quel preciso momento in cui si decide di mettersi in discussione, di mescolare le carte in tavola per farsi largo nel mondo.

“Mrs Dalloway”.

«Ho fin troppe idee», scrisse Virginia Woolf a proposito di Mrs Dalloway. È il 1925, l’anno in cui insieme al romanzo pubblica la prima serie dei saggi intitolata The Common Reader. Il volume include un testo fondamentale, Mr Bennet and Mrs Brown, una delle riflessioni più profetiche sulla letteratura inglese dopo l’età edoardiana. Attraverso la figura di Mrs Brown, Woolf segnala infatti una serie di cambiamenti nella costruzione di un personaggio e intravede nel vuoto lasciato dalla guerra uno sconvolgimento di cui rende partecipi i suoi lettori: «Tollerate lo spasmodico, l’oscuro, il frammentario, il fallimento… stiamo tremanti sull’orlo di un’altra grandissima epoca di letteratura inglese».

Mrs Dalloway dunque coincide con un mutamento di pensiero e di scrittura, con un’abbondanza di idee che porterà nel giro di dieci anni alla composizione di una serie di capolavori: To the Lighthouse (1927), Orlando (1928),  A Room of One’s Own (1929), On Being Ill (1930), e che culminerà nel 1931 con The Waves. 

Il romanzo che Virginia Woolf pubblicò nel 1925 inizia con una certezza. La signora Dalloway avrebbe comprato i fiori. E già qui il lettore si pone qualche domanda: chi è la signora Dalloway? Perché deve prendere i fiori? Se il lettore vuole avere una risposta deve per forza continuare la lettura. E via via che la narrazione procede altri interrogativi sorgono inevitabili: chi è Lucy? Perché gli operai di Rumpelmayer avrebbero dovuto tirare giù le porte?

Insomma, la Woolf sa come tenere incollati gli occhi del lettore alle sue parole: lo ricatta psicologicamente.

La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata a comprarli lei. Poiché Lucy aveva già il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi, pensò Clarissa Dalloway, che mattinata! … limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia. Che delizia! Che tuffo! Sempre, infatti, le aveva fatto questo stesso effetto, a quei tempi, allorquando, spalancata la porta finestra, con un lieve cigolio dei cardini, che ancora le pareva di udire, lei si tuffava nell’aria aperta, a Bourton.”

 

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