Corpi per metà umani e per metà animali corpi umani trasformati in bestie, in piante o in astri, corpi di demoni e di diavoli, corpi bizzarri di esseri fantastici e prodigiosi: i mostri non sono un invenzione recente della moderna narrativa dell’orrore, ma affondano le loro radici nientemeno che nella classicità.

   Ognuno, con i libri, si diletta a modo suo. C’è chi prova piacere a inseguire sulla pagina romantiche storie d’amore, fra tramonti rosacei e buoni sentimenti, e chi invece si diverte a trafficare con mostri, fantasmi e vampiri. Questioni di gusti, e di temperamenti. A qualcuno il libro piace soltanto quando è caldo, consolatorio, rassicurante. Qualcun altro, invece, lo prende in mano soltanto se ha la garanzia che risulti raggelante e spaventoso. Mostrum in latino significa portento, prodigio, miracolo: a indicare, appunto, che i mostri meravigliano e inquietano.

Qui sta il problema. Com’è possibile che proviamo piacere nel farci spaventare? Da dove nasce l’attrazione ambigua per l’orrore? Il vecchio principio della catarsi aristotelica, secondo cui ci libereremmo dalla paura e dalla compassione attraverso quegli stessi sentimenti inscritti in un opera d’arte, con certi libri non funziona più. E non funziona più perché, dopo aver letto una vecchia storia di fantasmi, così come un libro di Poe o di Lovecraft, di Barker o di King, noi non ci sentiamo affatto pacificati, né possiamo crogiolarci nelle dolcezze di un superiore equilibrio emotivo. Lungi dal rassegnarci, certi libri (questi ) ci traumatizzano. Ci precipitano nello squilibrio del disagio, nello shock. E noi, perversamente, forse godiamo proprio di questo: dell’intensificazione offerta alla nostra esperienza emotiva, del brivido dell’ignoto, della brusca rottura del grigiore rassicurante della routine quotidiana.

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Riportano alla luce alcuni “fantasmi

psichici che l’inconscio collettivo rifiuta di accettare.

Turbano e, nello stesso tempo, incantano.

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   La paura – diceva un esperto come Howard Phillips Lovecraft – è «l’emozione più vecchia e più forte del genere umano». E aggiungeva: «In genere, noi ricordiamo l’esperienza del dolore e la minaccia della morte molto più vividamente del piacere». Per questo, forse, andiamo a cercare (o ri-cercare?) queste sensazioni nei libri. Per questo, di tanto in tanto, amiamo immergerci nel buio e nelle tenebre, frequentare i castelli diroccati in Transilvania o le avite dimore spettrali del New England, travestirci da turisti di Acheronte o passeggiare fra le gelide lapidi di romanzeschi cimiteri abbandonati.

I mostri letterari, ovviamente, non vanno confusi con i freaks (film del 1932 diretto da Tod Browning. Ambientato nel mondo del circo ed interpretato da veri “fenomeni da baraccone), o con quella categoria di sventurati che i teratologi francesi chiamano mutilés: ciechi, sordi, muti, gobbi, storpi, giganti, nani. Questi ultimi sono “capricci della natura” : deformazioni aberranti ma comprensibili, sono l’anomalia che riconferma la nostra normalità.

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Il piacere che proviamo, leggendo queste opere,

è molto simile a quello dell’acrobata che cammina lungo la corda tesa sul vuoto.

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   Ma con una differenza: se la vertigine è eccessiva, l’acrobata non può tornare indietro, mentre il lettore può sempre chiudere il libro, accomodarsi in poltrona e tornare a contemplare il sorriso rassicurante dai suoi familiari. Anche se, come sostiene Freud nel citatissimo saggio Il perturbante, tutto ciò che ci turba e ci sconvolge perché strano, insospettato o ostile, in realtà non è che l’altra faccia di ciò che troviamo consueto e familiare . non c’è via di scampo: il lettore di romanzi dell’orrore sa che non può fidarsi del tutto neanche dello spazio domestico. Perché il “ritorno del rimosso” è sempre in agguato. E perché persino l’angelico volto di un bimbo può nascondere incubi e allucinazioni micidiali. Dietro Eros, insomma, ci può sempre essere Thanatos, dietro la Bella la Bestia, dietro la porta la minaccia.

 La narrativa di paura intesa come genere codificato e in qualche modo istituzionalizzato nasce, com’è noto, verso la fine del XVIII secolo in Inghilterra con il gothic romance. Nasce come reazione alla civiltà industriale, come valvola di scarico rispetto alla dittatura della razionalità imposta dalla civiltà delle macchine, come rifiuto del razionalismo puritano fondato sull’etica del lavoro e sulla repressione sessuofobica. Gli incubi e le apparizioni spettrali di Horance Walpole (“Il Castello di Otranto” (1764) precursore di tutti i romanzi gotici) e di Ann Radcliffe (“I misteri di Udolpho” (1794). Considerato l’archetipo del romanzo gotico, fu pubblicato nell’anno dell’ascesa e della caduta di Robespierre), rivalutano l’informe e l’imprevisto contro la standardizzata prevedibilità delle norme quotidiane e riaffezionano il lettore al brivido del buio e al gusto della trasgressione. Tra stravaganze, e bizzarrie, quasi sempre accompagnato dalla malcelata diffidenza dei letterati “colti”, il gotico si afferma quindi, in breve, come uno dei generi letterari più in sintonia con la modernità.

Oreste de Buono, in un lontano saggio sul «Politecnico», lo definiva la «letteratura del sottosuolo» dei nostri tempi. Nonostante le sue frequenti sgangheratezze e le sue indubbie ingenuità, proprio la narrativa di paura riesce infatti, più di tanti testi blasonati, a mantenere un costante rapporto con le inquietudini, le incertezze e gli spaesamenti della società.

Prendiamo ad esempio i due più grossi miti prodotti dall’horror ottocentesco: Frankenstein e Dracula, il mostro e il vampiro. Il primo nasce all’inizio del secolo, la fatidica sera del 16 giugno 1816, quando un’animata conversazione sui temi del mistero e del soprannaturale in una villa sul lago di Ginevra sfocia in una sorta di scommessa a stenderne dei testi esemplari.

Il secondo, se pur anticipato da John William Polidori (“Il vampiro” (1819), il primo racconto della letteratura moderna su questa creatura leggendaria. E Joseph Sheridan Le Fanu (1814 – 1873) uno scrittore irlandese, ricordato soprattutto per le sue storie di fantasmi e di paranormale; trova la sua compiuta espressione nel romanzo di Bram Stoker del 1897. Posti rispettivamente all’inizio e alla fine del secolo, i due archetipi della mostruosità ottocentesca incarnano non paure metafisiche e ancestrali, quanto piuttosto – significativamente – inquietudini e timori epocali, storicamente determinati. Frankenstein – il corpo costruito con le membra e i pezzi di altri corpi, ribelle al suo creatore – è l’espressione fantastica della paura borghese nei confronti della nascente civiltà industriale di massa,

[stextbox id=’black’ mode=’undefined’ color=’e80c0c’ bcolor=’000000′]mentre Dracula – il vivo-non vivo, l’immortale che succhia il sangue altrui – può essere letto come proiezione fantasmatica del timore – ancora una volta tipico dei ceti borghesi – di un ritorno vampiresco dell’aristocrazia.[/stextbox]

   Oggi, certo, i vecchi fantasmi del gotico o i polverosi mostriciattoli emersi dai cimiteri romantici più che paura fanno tenerezza. E i ragazzini li trattano addirittura come oggetti di dileggio o di parodia. Altri mostri e altri orrori servono al nostro presente: quelli che circolano nelle pagine di Richard Matheson o di Clive Barker, di Dean R. Koontz o di Stephen King.

Gli scrittori d’orrore contemporanei non hanno più bisogno di scrivere di lande desolate o di manieri fatiscenti per far paura. Magari trattano ancora di spettri e di vampiri, ma li fanno abitare in un appartamento di Los Angeles, con intorno i McDonald’s, le insegne dei motel, le highways, il traffico. Il mondo, insomma. E tutta la sua sconvolgente minacciosità.

 Per questo continuiamo a leggerli.

 

10 TITOLI DEL TERRORE.

   

   Il castello di Otranto, (1764) di Horace Walpole, (1717-1797).

Uno spettro si aggira nel castello medievale e provoca intrighi, amori, uccisioni, morti fatali. Trucchi, apparizioni e bizzarrie si sprecano, con qualche eco di De Sade e Piranesi. Ma poi tutto si scioglie nell’inevitabile happy end.

   Il monaco, (1796) di Matthew Gregory Lewis, (1775-1818).

Il monaco Ambrosio, spinto da una seducente fanciulla che gli si presenta sotto le mentite spoglie di un novizio, sperimenta e degusta tutte le varietà del vizio e del peccato: lascivia, lussuria,libidine, stupro, incesto, omicidio. Un’altra anima dannata commercia con il demonio, attratta dal fascino del Male.

   Melmoth l’errante, (1820) di Charles R. Maturin, (1782-1824).

Melmoth è condannato a vagare senza posa nei luoghi più degradati della società (manicomi, carceri, sotterranei, quartieri malfamati) alla vana ricerca di un essere più disperato di lui, disposto a cedere l’anima al diavolo in sua vece. La figura del reietto si carica di connotazioni cupe e ferocemente terrificanti.

  Il vampiro, (1819) di John W. Polidori, (1795-1821.

Modellato su un frammento incompiuto di lord Byron (di cui Polidori era il giovane e rancoroso medico personale), il primo vampiro della letteratura gotica è un bel tenebroso cui basta uno sguardo per incantare le sue vittime. Vampirizzazione e sessualità in un abbraccio mortale.

 

   Racconti, (1831-1844), di Edgar Allan Poe, (1809-1849).

Un thesaurus imprescindibile, un capolavoro insuperato. Si possono leggere e rileggere decine di volte e risultano sempre terrificanti. Titoli come “Il pozzo e il pendolo”, “Berenice”, “Ligeia”, “Il crollo della casa degli Usher”, “La maschera della morte rossa” o “Il gatto nero” continuano a essere tra le cose più “estreme” che mai siano state scritte o pensate.

   Il dottor Jekyll e il signor Hyde, (1886) di Robert L. Stevenson, (1850-1894).

L’apoteosi del “doppio” nell’Inghilterra vittoriana. L’uomo e la bestia, il borghese e il proletario, il colto e il selvaggio, l’individuo e il suo “altro”. Ma chi è il vero mostro? Il povero signor Hyde o non piuttosto, come ha suggerito qualcuno, la mostruosa normalità che lo circonda?

   Il Golem, (1915) di Gustav Meyrink (1868-1932).

Rivisitazione in chiave visionaria della leggenda medievale praghese del Golem, il gigante d’argilla costruito e animato da un rabbino, che torna periodicamente sulla terra per seminarvi la paura. Splendida la versione cinematografica d’impronta espressionista interpretata da Paul Wegener nel 1920.

   Dracula, (1897) di Bram Stoker (1847-1912).

Nobile decaduto e chiuso nel suo castello diroccato, il conte della Transilvania è il Vampiro per antonomasia. Basta che la sua sinistra figura appaia nella notte per scatenare la paura. Quando però abbandona la sua terra per invadere l’Occidente, viene respinto e annientato. Più che un personaggio letterario, un mito culturale.

   Il terrore, (1917) di Arthur Machen (1863-1947).

Nei pressi di un laboratorio inglese durante la prima guerra mondiale, cominciano a manifestarsi strani comportamenti negli animali. Api infuriate, cani inferociti, volatili minacciosi. Poi tutto si placa. Ma resta la paura: molto simile a quello che circola ne Gli uccelli di Hitchcock.

   L’esorcista (1971) di William Peter Blatty (1928-2017).

Una bimba di dodici anni vomita fiele e oscenità, tira fuori una linguaccia infernale, si solleva in levitazioni sul letto e urla e sbraita come un’ossessa. Satana abita in lei. Quando la medicina ufficiale si dichiara impotente, la madre si rivolge a un gesuita chiedendo che la figlia venga esorcizzata. Un grande successo degli anni Settanta, anche grazie al film omonimo, diretto da William Friedkin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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