Una confessione: la suoneria dello smartphone dello scrivente è la musica della Marcia di Radetzky, nonostante il patriottismo italiano e pur sapendo che il primo Strauss la compose in onore del maresciallo che domò la rivolta di Milano del 1848.

   Quest’anno ricorre il centenario della fine del venerando impero degli Asburgo Lorena, data simbolo di una finis Austriae diventata finis Europae. Qualcuno forse ricorda l’incipit della Metamorfosi, il grande romanzo di un altro suddito asburgico, il praghese Franz Kafka: «Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.» Immaginiamo che non sia stato dissimile il sentimento provato da tanti sudditi del Re e Imperatore in quel drammatico finale del 1918, che sancì la morte di un’era durata secoli. L’impero con decine di nazionalità e lingue cedeva all’azione congiunta del nazionalismo ottocentesco e della modernità liberale. 

Gli autori che rappresentarono il dolore lancinante per quella perdita furono numerosi, come Stefan Zweig(1) (Il mondo di ieri) e Robert Musil(2), il cui Uomo senza qualità rappresenta una metafora dell’uomo di fine impero, fresco cittadino della nuova Europa. Famoso è l’inizio del grande romanzo-saggio, con la minuta descrizione atmosferica e meteorologica della giornata, isobare e isòtere, barometro e vapore acqueo. Un peana alla scienza vincente, giacché, scriveva Musil, sarebbe parso antiquato dire semplicemente che era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913. 

   L’intellettuale che a nostro avviso meglio rappresenta il sentimento della fine di un’epoca, unito con una lancinante, dolorosa nostalgia che impedisce di vivere è Joseph Roth(3) l’autore del romanzo La marcia di Radetzky. Il giornalista e scrittore visse solo 45 anni, intensissimi, tra il 1894 e il 1939, ma attraversò da protagonista i cruciali anni che vanno dall’assassinio di Sarajevo che dette inizio nel 1914 alla macelleria della prima guerra mondiale – guerra civile europea, come capì Ernst Nolte(4) – sino all’inizio della seconda, ultimo grido d’Europa. Ebreo della Galizia, regione di confine tra l’Ucraina e la Polonia, Roth, come molti giovani israeliti dell’impero, fu affascinato dal socialismo avanzante. Poté svolgere studi regolari a Leopoli, capitale della sua regione natale e nella stessa Vienna. Iniziò la sua carriera bolscevico e terminò monarchico, cattolico, reazionario. 

La sua opera capitale ha una caratteristica forse unica nel panorama della letteratura mondiale: è la sola il cui protagonista non è un uomo, una famiglia, una tempo, una città o una nazione, ma un’istituzione, l’Impero, crollata senza speranza quattordici anni prima della pubblicazione nel 1932. La storia di tre generazioni della famiglia Trotta ricorda più l’affresco italiano del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, le vicissitudini degli Scacerni, proprietari di un mulino sul fiume, che I Buddenbrook di Mann, altro romanzo della crisi, imperniato sulla decadenza di una grande famiglia borghese. Nella Marcia di Roth vive e va in frantumi un’istituzione che attraversò i secoli. 

   Il primo Trotta è un giovane ufficialetto sloveno che salva per caso Francesco Giuseppe, l’imperatore nel corso della battaglia di Solferino del 1859, una della mattanze del secolo nazionalista. Gli viene attribuito un titolo nobiliare e entra nei libri di storia. Consapevole di non avere compiuto alcun eroismo, vorrebbe dire la verità, dedicarle la sua vita, ma tutti, a cominciare dall’imperatore, gli dicono: lascia perdere. Lascia perdere, e Roth sembra rinchiudere in quella frase, ripetuta tante volte nel corso dei secoli, allorché qualcuno cercava di cambiare quella strana costruzione medievale sopravvissuta al tempo, l’Imperiale Regio governo austriaco. La marcia di Radetzky resta uno dei grandi romanzi del XX secolo, l’affresco amaro e melanconico, forse l’elogio funebre di una costruzione politica che tenne uniti popoli e regni mitteleuropei, finita in pezzi nell’inferno delle trincee del 1914-1918. La sua triste decomposizione avrebbe generato un infinito numero di guerre e calamità, l’ultima le guerre civili dei Balcani di fine XX secolo, le cui convulsioni ancora agitano l’Europa sud orientale.

 Joseph Roth visse un destino personale simile. Un conoscente con cui parlavamo della sua figura lo confuse con un altro Roth, ebreo anch’egli, americano, vivente, il Philip del Lamento di Portnoy. Stupiti all’inizio, anzi francamente indispettiti, abbiamo poi concluso che tra i due corre un filo sottile rappresentato più che dalla comune matrice israelita, dall’essere i due poli opposti di una crisi. L’austriaco nemico dei tempi nuovi, nostalgico del passato, dell’ordine antico, l’americano immerso nelle ubbie psicanalitiche, nei tormenti e nelle volgarità della modernità compiuta che contempla il proprio ombelico. Il romanzo americano è il monologo di un uomo fallito, erotomane, nevrotico, morbosamente attaccato alle tradizioni ebraiche ed insieme loro nemico e spregiatore, rivolto allo psicoterapeuta, sacerdote laico di una malsana antireligiose. Meglio il Roth “nostro”, almeno per chi voglia mantenere una visione del mondo alternativa alla decomposizione presente. 

   Il tema della perdita della Patria che si trasforma in male di vivere non fu qualcosa di immediato per il giovane galiziano volontario di guerra, brillante giornalista con qualche tendenza a mitizzare la sua biografia, diffondendo la storia di una prigionia mai documentata. Affascinato dalla rivoluzione sovietica, in cui vedeva la promessa di un’umanità nuova, il suo primo romanzo, La tela del ragno, fu una critica distruttiva del nascente nazionalismo tedesco. Divenne inviato di successo del Frankfuerter Zeitung, progenitore della Frankfuerter Allgemeine Zeitung, la FAZ icona liberal. Il suo viaggio professionale nell’Unione Sovietica del 1926 cambiò completamente le sue prospettive politiche ed esistenziali: «entrai in Russia da bolscevico convinto, ne esco da monarchico», disse a Walter Benjamin. 

In Russia si era scontrato con il socialismo reale, fatto di città ingrigite con gente sciatta e malvestita, senza poesia, senza passato, dominate dalla fretta, dove uomini e donne vivevano con la fronte corrugata. Un mondo senza vita privata, con l’esistenza obbligatoriamente scissa tra le assemblee e la fabbrica. Una società che aveva scacciato il lusso e la frivolezza, sì, ma dove i vituperati borghesi erano stati sostituiti da una casta dominante che Roth definì i proletari filistei. Nelle pagine del Viaggio in Russia descrive uno Stato che ha imposto per decreto un razionalismo banale di bisogni primari, una vita senza metafisica e una nuova morale sessuale che seppellisce l’erotismo e trasforma la donna “liberata” in un fattore sociale di produzione. Disorientato, Roth si volse dapprima infruttuosamente alle sue radici ebraiche. 

   Scriveva a Stefan Zweig: «Il mio giudaismo non mi è parso niente più che un attributo accidentale, qualcosa come i miei baffi biondi che avrebbero potuto essere neri.» Interessante nel cammino verso la maturità culturale è il romanzo Ebrei erranti del 1927, in cui il percorso degli israeliti dell’Europa orientale verso occidente è visto come un brutale cambiamento di vita imposto da un destino beffardo. Poco tempo dopo, affronterà un tema simile, che diventerà l’elemento ricorrente della sua opera, in Fuga senza fine, dedicato alle peripezie di un soldato austriaco di ritorno dalla prigionia in Siberia, che si trova immerso all’improvviso in una società del tutto trasformata. Il vecchio mondo è morto e Roth si sente profondamente orfano. 

Nel 1932, l’anno della Marcia di Radetzky, si converte al cattolicesimo. Subito dopo la presa di potere di Hitler, Roth, travolto anche dalla tragedia della pazzia della moglie, torna brevemente in Austria e poi definitivamente, in Francia. Tra confuse vicende sentimentali, è minato dall’alcoolismo e corona la sua esperienza letteraria con il romanzo La cripta dei cappuccini, seguito ideale della Marcia di Radetzky e il famosissimo racconto dagli ampi tratti autobiografici La leggenda del santo bevitore, da cui verrà tratto un film di Ermanno Olmi nel 1988. Morì nel 1939 per una polmonite mal curata; al suo funerale, stravagante parata di cattolici, ebrei, monarchici legittimisti, letterati, parteciparono anche gli eredi Asburgo. 

Fine prima parte (continua)


NOTE

(1) Stefan Zweig (1881-1942) è stato uno scrittore, drammaturgo, giornalista, biografo e poeta austriaco naturalizzato britannico. Tra gli anni venti e trenta del XX secolo è stato mediatore fra le culture, animato da sentimenti pacifisti e umanisti. Politicamente era internazionalista, cosmopolita ed europeista. Oppositore fermo dei totalitarismi, lasciò l’Europa dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo, rifugiandosi infine in Brasile dove si suicidò nel 1942. 

(2) Robert Musil, (1880-1942), è stato uno scrittore e drammaturgo austriaco. La sua opera principale è il romanzo (incompiuto) Der Mann ohne Eigenschaften (L’uomo senza qualità, una delle pietre miliari della letteratura di tutti tempi, di cui il primo volume pubblicato nel 1930, prima parte del secondo volume edita nel 1933, e ultima parte, rimasta incompiuta, dopo la morte dell’autore). 

(3) Joseph Roth Roth (1894-1939) è stato uno scrittore e giornalista austriaco. Grande cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse. Lui stesso era nato alla periferia dell’impero, nella odierna Ucraina.

(4) Ernst Nolte (Witten, 11 gennaio 1923 – Berlino, 18 agosto 2016) è stato uno storico, filosofo e accademico tedesco, che fu professore emerito di storia contemporanea alla Libera Università di Berlino e noto come importante studioso dei rapporti e dei legami causali tra comunismo sovietico e nazionalsocialismo. È ritenuto un esponente di primo piano del revisionismo storiografico e le sue tesi diedero origine ad accesi dibattiti come la cosiddette “controversia degli storici”.

Immagine: Il bacio,  (1859) –  Francesco Hayez. Pinacoteca di Brera, Milano

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