“Libertà va cercando, ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta”. In questi versi danteschi (Purgatorio, canto I, vv.71-72), incomprensibili alla “mentalità” post moderna, sono contenute, in nuce, le “risposte” che cerchiamo
liberta’ va cercando, ch’e’ si’ cara…
La nostra è, o forse era, una civiltà fondata sul libero arbitrio e la libertà di espressione e movimento: nessuna sottomissione, primato dell’autonomia personale, nel senso antico e letterale di

governo di sé. Anche questa caratteristica – che pareva scolpita nel marmo – si è afflosciata, è implosa dinanzi ai timori di una malattia sconosciuta, globale come il tempo corrente, difficile da inquadrare, sfuggente. Uno scrittore e intellettuale francese, Eric Zemmour(1), politicamente scorrettissimo, tra i più invisi al “pensiero unico”, in una recente intervista al Figaro, uno dei più influenti quotidiani d’Oltralpe, si è posto con sgomento la domanda fatidica: come hanno potuto gli europei e gli occidentali lasciarsi espropriare senza fiatare delle “libertà individuali” per il Coronavirus, in modo così vasto, plateale e senza reazioni?
La questione – che ha bisogno di una risposta assai articolata – ci sembra mal posta, se non addirittura fuorviante. Ovvero, nella domanda è già contenuta una parte di risposta. Abbiamo rinunciato alle libertà “individuali” in quanto già da tempo ci eravamo liberati da quelle comunitarie e collettive, e poi di quelle dello spirito, intrappolate nell’istinto, nella pulsione di una carne senza più uno scheletro a sostenerla. La libertà non si perde mai tutta insieme: la rana occidentale era già bollita,(ndr1 senza più la forza per ribellarsi a chi l’aveva messa in pentola. È stato sufficiente, per l’ultima spallata, scrostare l’ultimo strato di vernice della finzione democratica. Intendiamoci: la salute è davvero un’emergenza e gli antichi sapevano già che “primum vivere, deinde philosophari”, ma la docilità con cui la stragrande maggioranza ha accettato di sospendere le libertà che A.C. (Avanti Coronavirus) considerava più sacre, attesta che il regno dei diritti e dei capricci abdica in un attimo dinanzi alla necessità della preservazione biologica. La tutela della salute non può però fornire al Potere – si tratti dello Stato o delle oligarchie tecnocratiche e finanziarie sovrastanti – un alibi permanente per lo stato d’eccezione.
Sotto l’ombrello onnicomprensivo della democrazia e del liberalismo abbiamo conferito la sovranità sulle nostre vite al potere politico, a quello finanziario e tecnologico, a sedicenti élites di esperti.

Vige e si acutizza una censura preventiva sulla maggior parte delle questioni davvero importanti della vita personale, pubblica e comunitaria. Da tempo, si tratti del problema migratorio, dei rapporti tra i sessi, della questione della giustizia sociale o dei temi etici, un’ideologia falsamente “aperta” calata dall’alto detta ciò che è permesso e ciò che è proibito, ciò che si può dire e ciò che è opportuno tacere, tanto che abbiamo interiorizzato il principio della disciplina di parola ed espressione senza opporre la minima resistenza. L’occasione della tragedia è propizia per modificare, rovesciare attitudini, condotte e divieti, restituendo all’uomo la sua libertà che, come insegnava una comunista non leninista, Rosa Luxemburg(2), è sempre libertà di pensare diversamente. Il presente è riuscito a rendere pleonastico l’avverbio “diversamente”: è il mero atto di pensare a essere sospetto, sconsigliato, deviante. È il fallimento definitivo della narrazione liberale, liberista, libertaria e della stessa forma democratica.

Nell’aderire con entusiasmo alla liturgia “progressista”, ircocervo liberale e post marxista, abbiamo lasciato che prevalesse l’uomo a una dimensione. Non ci riferiamo all’espressione coniata da Herbert Marcuse(3). L’essere umano europeo e occidentale postmoderno non è che un individuo, un atomo solitario, una monade che nuota in un magma continuamente mutante. Ha perduto la dimensione trascendente, battuta dai materialismi fratelli liberali e collettivisti, ma anche il senso di appartenenza a una cultura, a un’identità, persino a legittimi interessi collettivi o di gruppo. Carne deperibile, tubo digerente, è regredito al puro istinto: respiro, dunque sono. Basta con l’ingombrante concetto di persona, che attiene alla dimensione del Sé, del giudizio, del rispetto e persino dell’onore, Al deraciné amputato, solo tronco – via le radici, i rami e le fronde – non più “situato” in principi, luoghi, tradizioni, comunità, resta una tenda a ossigeno per rivedere il sole dell’indomani. Fine del Super Io etico e della dimensione comunitaria. Resiste, alla comparsa inaspettata del Perturbante, il virus Covid- 19, un Es trincerato dietro la mascherina, ultima difesa contro Thànatos, la morte.
Privatosi allegramente dei punti di riferimento, l’“Homo consumens” passato dalla dimensione “solida” a quella liquida sino a lanciarsi senza paracadute in un gaio nichilismo, lasciato a se stesso, alla nuda vita (zòe)(4), non può che esprimere terrore dinanzi alla prospettiva di perdere la sopravvivenza organica, l’ultima proprietà che gli resta. Nulla di più opportuno, quindi, di un allarme sanitario – vero, ma enfatizzato – per farlo precipitare in un’angoscia da cui esce solo se rassicurato rispetto all’istinto di conservazione soggettiva. Così, ha facilmente accettato di “non vivere per non morire”,(T.P.I.) mettendosi disciplinatamente agli ordini del Potere. Sindrome di Stoccolma, in parte, poiché la vittima solidarizza e bacia la mano del carnefice, ma vi è di più, ed è l’assenza di qualunque orizzonte trascendente (il silenzio delle religioni sgomenta) e insieme di qualsiasi profondità o tensione comunitaria, ancora presente in narrazioni letterarie di contagi come quella della Peste di Camus.(L.C.)
Conto solo “io”, il numero di anni o di ore che potrò ancora trascorrere in questo mondo. Quali libertà possono importare a un’umanità ridotta a sopravvivenza darwiniana, respiro e tubo digerente, disabituata a fare i conti con la morte? Luogo orribile per l’assenza di “io”, esorcizzato attraverso la corsa sfrenata senza traguardo, il presente dilatato, la tabula rasa del passato e l’indifferenza per il futuro, la morte rimossa, scomparsa dai radar contemporanei, è strettamente collegata all’eliminazione della religione. Ora, all’improvviso, si torna al reale: il male esiste, la morte è in agguato, non resta che affidarsi alla Scienza, a chi può allontanare l’incubo, gettarsi nelle braccia del Potere.
Essenziale è comprendere perché siamo a questo punto, chi o che cosa ci ha portato in questa misera condizione e, se possibile, uscirne. “Libertà va cercando, ch’è sì cara/come sa chi per lei vita

rifiuta.” In questi versi danteschi (Purgatorio, canto I, vv.71-72), tanto incomprensibili alla mentalità post moderna e a ogni materialismo, sono contenute, in nuce, le risposte che cerchiamo, e anche le domande di cui sono figlie. Virgilio, la ragione umana, si rivolge a Catone Uticense, l’uomo politico romano che scelse il suicidio piuttosto che rinunciare alla libertà che Cesare aveva tolto alla fazione sconfitta. Libertà è la parola che fa comprendere perché Catone si trova nel Purgatorio: morto per difendere la propria dignità, si trova nel luogo simbolo della libertà dal peccato cui anelano le anime. Pur essendo pagano, Catone è salvato per i suoi meriti morali, quindi la sua scelta estrema di libertà diventa esempio per tutte le anime. La lezione da trarne, al di là delle questioni di fede, è che l’uomo occidentale contemporaneo non ama la libertà, o meglio le libertà, ma solo la nuda vita, la “sua” nuda vita individuale. È ancora un uomo, dunque, nel senso nobile del termine?
Probabilmente, il peccato originale delle grandi ideologie moderne, narrazioni intorno al Nulla, è quello di aver rifiutato il peccato originale, ossia la condizione imperfetta, caduca dell’uomo, per abbracciare il più imperdonabile di peccati, la hybris(5), l’assenza del limite. Nel libro biblico di Isaia si dice (51,17) “Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, (…) la coppa della vertigine hai bevuto, l’hai vuotata.” Abbiamo delegittimato le agenzie di senso e le istituzioni che ordinavano la trasmissione della vita, e oggi un potere gelido, impersonale, statistico, arriva a sottrarci il diritto elementare alla mobilità, all’incontro con l’altro, a vietare i riti che accompagnano la morte.
Per chiudere una pagina di storia, diceva l’intellettuale slavo Predrag Matvejevic(6), bisogna prima averla letta. Non si può riannodare il filo della libertà, che è l’ambizione di questo scritto, senza

prima averlo dipanato. Le due grandi ideologie materialiste, il liberalismo e il socialismo, hanno un nucleo forte comune: l’internazionalismo/cosmopolitismo, l’ostilità ad ogni appartenenza comunitaria, l’indifferenza alle tradizioni, il disprezzo per il passato, il mito del progresso lineare, oltre all’ostilità per ogni forma di spiritualità e senso teleologico della vita. Il tragitto è stato lungo, ma stanno raccogliendo i frutti velenosi del lavoro di tre secoli. L’erosione è opera di numerose ondate, la più potente delle quali è stata la modernità liberale, il cui primo coerente banditore fu John Locke(7), tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Locke intendeva costruire una società individualista fondata su libertà e proprietà. In realtà, la dimensione materiale, economica, utilitarista era già dominante nel teorico della “gloriosa rivoluzione” inglese di fine XVII secolo, il cui esito fu l’inizio dello strapotere delle istituzioni finanziarie.

La celebrata “tolleranza”, oggetto della sua Lettera era già un compiuto panegirico delle libertà mercantili. Non è senza logica che Locke raccomandasse tolleranza generalizzata con la notevole eccezione della fede e della Chiesa cattolica. Il padre nobile del liberalismo classico aveva già declinato le generalità della nuova ideologia, in cui ogni elevato discorso sulla libertà ruotava inevitabilmente intorno all’unico nucleo fondante: il libero commercio, la proprietà, la giustificazione e glorificazione del nascente capitalismo, parola che significa la fondazione della società sulla potenza del denaro e della ricchezza. Thomas Jefferson(8), nell’America della dichiarazione d’indipendenza, orientò questa intenzione liberale verso l’emancipazione assoluta dell’individuo. “Life, liberty and the Pursuit of Happiness”, vita, libertà e ricerca della felicità, è scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776.
Con questa ingiunzione morale, e l’allusione scoperta che la felicità ha uno stretto rapporto con la ricchezza e il possesso di beni materiali, il Padre fondatore degli Stati Uniti fece entrare

direttamente la teoria liberale nella prassi politica, corrompendola nel tragitto. Il perseguimento della felicità, eco maldestro dell’eudemonismo, aprì nuove prospettive libertarie al mondo anglosassone. Respingendo il vecchio mondo, la repubblica commerciale – prodotto di una particolare cultura – si pretendeva universale, diventando il terreno di prova del liberalismo prima d’esportarlo per tutto il pianeta. Il XX secolo vide il grande scontro della modernità tardiva e il liberalismo poté dominare incontrastato le menti, una volta sconfitti il Fascismo e il Socialismo,(L.C.) acquisendo nel passaggio la pulsione libertaria, contaminandosi con la psicanalisi e nutrendosi di autentico odio per la nozione di autorità, complice la lucida follia dei francofortesi.
Il liberalismo-libertario mira all’emancipazione assoluta dell’individuo. Dapprima la società fu distinta dallo Stato, poi lo Stato fu separato in poteri, quindi posto al servizio degli individui. Infine, l’acrobazia: il potere diventa tecnopotere e biopotere per dominare masse amorfe di soldatini-consumatori. Questa dinamica, a posteriori, appare come un cumulo di ombre, di decostruzioni e di sradicamenti. Divenuti gli unici soggetti legittimi, l’umanità e l’individuo ormai rifiutano ogni ostacolo e adottano senza batter ciglio la norma contrattuale del mercato, ovvero dello scambio, come misura di tutte le cose. “Liquida”, la società segue l’incessante fluttuazione dei desideri, determinata dall’ unico autentico obiettivo liberale: il mondo-mercato.
Un breve brano del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels (1848) è illuminante: la borghesia, che Marx considerava il motore del capitalismo, “al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli”. Il socialismo, pur nel suo radicale materialismo, aspirava a una forma di liberazione dell’umanità, alla creazione di una comunità umana (gemeinwesen) affrancata dalla povertà e dallo sfruttamento. L’esito fu catastrofico, ma le intenzioni del suo antagonista erano esattamente quelle descritte da Marx. Il capitalismo si è affrancato prima dalla borghesia, poi da se stesso, diventando puro dominio privato. Il liberismo non è che la privatizzazione del mondo a scopo di dominio, non solo economico.
Soprattutto e innanzitutto, il liberismo si è definitivamente sciolto da ogni legame con l’ideologia, in qualche modo “morale”, che lo sorreggeva all’inizio ed alla quale affidava la sua giustificazione, cioè il liberalismo. La fase storica che viviamo, con l’impetuosa accelerazione di questi mesi in conseguenza della pandemia, ne è la dimostrazione. In questa sede non interessa l’origine del Coronavirus, sposare o attaccare teorie di qualsiasi tipo sulla sua insorgenza e diffusione. Importa esaminare l’accelerazione totalitaria e radicalmente antiumana alla quale stiamo assistendo. La contraddizione iniziale del liberalismo classico – teoria della libertà il cui fine era sin dall’origine l’utilitarismo e la prevalenza dell’economia su ogni principio etico, politico o spirituale – non poteva che condurre agli esiti odierni.

Riappropriarsi dell’idea di libertà, strappandola dalle mani sporche del liberismo-liberalismo trionfante dalla pelle di serpente – oggi tocca alla versione tecnocratica e scientocratica – è il compito di un nuovo “pensiero meditante” (Heidegger). Il tornante storico fatto esplodere dal Coronavirus è l’occasione, forse l’ultima, di reagire a un pericolo realmente mortale. Il primo gesto da compiere è completare il percorso avversario con l’ultimo gesto di decostruzione e di demitizzazione: perdere ogni residuo rispetto per il liberalismo, figlio degenere della libertà, che ne usurpa e distorce il significato, sino a far credere di esserne l’inventore. Con il suo lessico mercantile, dobbiamo sottrargli il brevetto, espropriarlo del copyright.
Partiamo da una constatazione elementare: in questi mesi di confinamento siamo stati privati della mobilità. È risorto il feudalesimo dei servi della gleba vincolati al territorio; ma se la mobilità è una libertà, essa non è certo tutta la libertà. C’è una libertà superiore, che implica “poter” essere mobili, ma anche scegliere, al contrario, l’immobilità. Questa libertà superiore è l’autonomia. Dunque, oltre la libertà di circolare, la grande questione che si pone è riconquistare la libertà come autonomia, perduta dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa. Quello che dobbiamo intaccare in questo tempo decisivo è l’idea della globalizzazione liberale, ossia il pensiero unico, obbligato e assurdo per cui la libertà è la competitività di tutti verso tutti, il principio che l’ordine umano sia il risultato della regolazione impersonale dei flussi di capitali, merci e persone. L’obiettivo è nientemeno che recuperare la libertà come autonomia e libera circolazione delle influenze morali, sociali, intellettuali, comunitarie e spirituali. Non vi è altra strada per ritrovare la libertà che fuoriuscire coraggiosamente dalla ragnatela liberale, liberista, libertaria.
Il loro libero mercato, la loro democrazia procedurale eterodiretta, i loro diritti/capricci, sono la copertura impudica, la crosta disseccata di uno spaventoso dominio oligarchico. Un esempio di libertà e autonomia, una bussola positiva per un nuovo inizio, è un passo tratto da La fine dell’epoca moderna(L.C.), del pensatore italo tedesco Romano Guardini, “vive nell’uomo, [creatura] in immediato rapporto con Dio, un soffio dell’alito divino. (…) L’uomo ha una responsabilità di fronte al creato. La potenza umana non deve costruire un proprio mondo autonomo, ma portare a compimento il mondo di Dio facendone un umano mondo di libertà”. (ndr2)
Note
- (1) Éric Zemmour (Montreuil, 31 agosto 1958) è un saggista e giornalista francese. Di origine ebraica algerina, dal 1996 lavora per il quotidiano Le Figaro. È anche un autore critico della femminilizzazione della società, tesi esposta nel libro Le premier sexe, pubblicato in Italia col titolo L’uomo maschio per le Edizioni Piemme. Zemmour, da sempre molto conservatore, nel suo ultimo libro Le Suicide français, si schiera apertamente contro l’immigrazione, il multiculturalismo e la globalizzazione della società francese. Avversa l’egemonia culturale della sinistra, cominciata nel Sessantotto, sostenendo che “l’ideologia antirazzista e multiculturale della globalizzazione sarà per il Ventunesimo secolo quello che il nazionalismo è stato per il Diciannovesimo e il totalitarismo per il Ventesimo: una fede messianica e guerrafondaia nel progresso, che trasforma il conflitto tra nazioni in un conflitto all’interno delle nazioni”.
- (2) Rosa Luxemburg (Zamość, 5 marzo 1871 – Berlino, 15 gennaio 1919), è stata una filosofa, economista, politica e rivoluzionaria polacca naturalizzata tedesca. Fu propugnatrice del socialismo rivoluzionario e tra le principali teoriche del marxismo consiliarista in Germania. Si oppose sia alle posizioni moderate del revisionismo all’interno del Partito Socialdemocratico di Germania e dell’Internazionale (dei quali fu a lungo una esponente di spicco), sia al centralismo democratico propugnato da Lenin e conseguentemente alla prassi rivoluzionaria dei bolscevichi. Fondò, con Karl Liebknecht, la Lega Spartachista e venne uccisa dai Freikorps durante la fallita rivolta contro la Repubblica di Weimar. «Era piccola di statura e aveva una testa sproporzionatamente grande; un tipico volto ebreo con un grosso naso […] aveva una camminata pesante, a volte irregolare, e zoppicava; a prima vista non suscitava un’impressione favorevole, ma bastava passare un po’ di tempo con lei per accorgersi della straordinaria vitalità ed energia di quella donna, della sua intelligenza e vivacità, dell’elevatissimo livello intellettuale in cui si muoveva» (J. Mill, Pionern un boyer, I, p. 167)
- (3) Herbert Marcuse (1898-1979). È stato un filosofo, sociologo, politologo ed accademico tedesco naturalizzato statunitense. «Il mondo non è stato fatto per amore degli esseri umani e non è diventato più umano.» (Herbert Marcuse)
- (4) zòe. Il concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico. Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma “vita” per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana e, nei riguardi dell’uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica, quella spirituale.
- (5) Hybris (ˈhyːbris, in greco antico: ὕβϱις, hýbris) è un topos (tema ricorrente) della tragedia greca e della letteratura greca, presente anche nella Poetica di Aristotele. Significa letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”. Si riferisce in generale a un’azione ingiusta o empia avvenuta nel passato, che produce conseguenze negative su persone ed eventi del presente. È un antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla “catastrofe” della tragedia. Il tema ricorre molto frequentemente nella Divina Commedia di Dante Alighieri in ottica cristiana; qualsiasi peccato può essere ricondotto all’hybris dell’uomo, che tenta di arrivare con la ragione a comprendere i misteri del divino, ponendosi egli stesso come Dio.
- (6) Predrag Matvejević (Mostar, 7 ottobre 1932 – Zagabria, 2 febbraio 2017) è stato uno scrittore e accademico jugoslavo con cittadinanza croata naturalizzato italiano. Docente di letterature alle università di Zagabria, Parigi e Roma, è conosciuto per il saggio del 1987 Breviario mediterraneo, lavoro fondativo della storia culturale della regione del Mediterraneo, che è stato tradotto in oltre venti lingue.
- (7) John Locke (Wrington, 29 agosto 1632 – High Laver, 28 ottobre 1704) è stato un filosofo e medico inglese, considerato il padre del liberalismo classico, dell’empirismo moderno e uno dei più influenti anticipatori dell’illuminismo e del criticismo. «Donde [l’intelletto] ha tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze; da qui esse traggono la loro prima origine.» (Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. I)
- (8) Thomas Jefferson (Shadwell, 13 aprile 1743 – Charlottesville, 4 luglio 1826) è stato un politico, scienziato e architetto statunitense. È stato il 3º presidente degli Stati Uniti d’America ed è inoltre considerato uno dei padri fondatori della nazione. Il suo volto è ritratto sul monte Rushmore accanto a quelli di George Washington, Abraham Lincoln e Theodore Roosevelt. Fu il principale autore della dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 e uno dei fondatori del Partito Democratico-Repubblicano degli Stati Uniti. Fortemente segnato dal pensiero illuminista, fu fautore di uno Stato laico e liberale, sostenendo l’egualitarismo formale e legale di tutti gli esseri umani, anche se non volle pronunciarsi mai contro la schiavitù. Fu inoltre anche un intellettuale di grande spessore: fondatore della Università della Virginia, ebbe un ruolo centrale nello sviluppo e nella costruzione di questa istituzione. Fu infine anche un architetto: suoi sono ad esempio i progetti per il campus dell’Università della Virginia, la sua casa di Monticello, parte del patrimonio dell’UNESCO dal 1987, nonché il Campidoglio di Richmond.
Fonte
Libri Citati
- La peste
- Albert Camus
- Traduttore: Yasmina Mélaouah
- Editore: Bompiani
- Collana: Classici contemporanei Bompiani
- Anno edizione: 2017
- Formato: Tascabile
- In commercio dal: 13 giugno 2017
- Pagine: 336 p., Brossura
- EAN: 9788845283512. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/peste-libro-albert-camus/e/9788845283512″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 12,35[/btn]
Descrizione
Scritto da Albert Camus secondo una dimensione corale e con una scrittura che sfiora e supera la confessione, La peste è un romanzo attuale e vivo, una metafora in cui il presente continua a riconoscersi. Io ne ho abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano. Orano è colpita da un’epidemia inesorabile e tremenda. Isolata, affamata, incapace di fermare la pestilenza, la città diventa il palcoscenico e il vetrino da laboratorio per le passioni di un’umanità al limite tra disgregazione e solidarietà. La fede religiosa, l’edonismo di chi non crede alle astrazioni né è capace di «essere felice da solo», il semplice sentimento del proprio dovere sono i protagonisti della vicenda; l’indifferenza, il panico, lo spirito burocratico e l’egoismo gretto gli alleati del morbo. Scritto da Albert Camus secondo una dimensione corale e con una scrittura che sfiora e supera la confessione, «La peste» è un romanzo attuale e vivo, una metafora in cui il presente continua a riconoscersi. Oggi da leggere e rileggere in una nuova brillante traduzione.
- Chi ha costruito il muro di Berlino?
- Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente
- Giulietto Chiesa
- Editore: Uno Editori
- Anno edizione: 2019
- In commercio dal: 16 settembre 2019
- Pagine: 160 p., Brossura
- EAN: 9788833800516 Acquista. € 13,20
Descrizione
Il Muro costituisce la metafora e la sintesi dell’intera Guerra fredda. È uno dei principali fondamenti della sconfitta definitiva del socialismo reale, di fronte alla straordinaria capacità affabulatrice del capitalismo nella sua fase matura. Ma il Muro segna anche l’inizio della manipolazione di massa, in forme completamente nuove rispetto al passato, e il mutamento radicale delle stesse forme della competizione geopolitica. Oggi, a trent’anni dalla caduta del “Muro”, possiamo già intravvedere il baccanale delle celebrazioni di quella vittoria: tanta più enfasi sarà data all’evento, quanto più serio è oggi il pericolo di una revisione di quella narrazione. In questo libro l’autore rivela aspetti sconosciuti e chiarificatori della nostra storia più recente.
- La fine dell’epoca moderna. Il potere
- Romano Guardini
- Traduttore: M. Paronetto Valier
- Editore: Morcelliana
- Collana: Opere di Romano Guardini
- Anno edizione: 1993
- In commercio dal: 1 maggio 1993
- Pagine: 232 p.
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Descrizione
Libro che ha anticipato l’attuale dibattito sulla post-modernità, “La fine dell’epoca moderna” (1950) è il luogo in cui Guardini dà il meglio di sé come filosofo e teologo. Con radicalità teoretica, ma anche con sensibilità letteraria, Guardini traccia i lineamenti dell’affermarsi dell’idea di modernità. Un’idea che si compie e disintegra con la prima guerra mondiale. Non è la logica stessa della modernità – si chiede Guardini – a metter capo ad un inaspettato ritorno del caos, interno ed esterno? “L’uomo sta nuovamente di fronte al caos… In questo secondo caos si sono riaperti tutti gli abissi delle origini”. Che ne è del kerygma cristiano in quest’epoca che “non ha ancora un nome”? Con disincanto Guardini rigetta ogni nostalgia restauratrice. Certo, all’altezza dei tempi “la solitudine della fede sarà tremenda”; ma non v’è qui un kairós provvidenziale? “La fede diviene più parca, ma anche più pura e più grave”: una fede in cui rivive l’idea cristiana di persona. E gli scuotimenti che caratterizzano la nuova epoca non comportano la necessità di reinterrogare i fondamenti del concetto di Potere? È quanto Guardini fa nel secondo saggio qui raccolto (1951), dispiegando una lucida, e straordinariamente attuale, analisi delle radici teologiche e antropologiche del potere.
(ndr1)

La metafora della rana bollita in Noam Chomsky (1) è un invito a fuggire dalle insidie del potere attuale. Siamo dinanzi ad una metamorfosi del potere che spesso non riconosciamo. Le tecnologie, il flusso ininterrotto di informazioni hanno il potere di determinarci gradualmente, di offrirci una serie innumerevoli di informazioni e dati. Ci si sente rassicurati dal fiume di immagini, dalla trasparenza del potere che perennemente si esibisce senza filtri, senza veli. Si percepisce una condizione di democrazia realizzata, di condivisione a cui nessuno può sottrarsi. Se ci si limita al dato epidermico ci sembra di vivere in uno stato democratico che ha risolto le sue innumerevoli contraddizioni. La verità è che il brodo delle informazioni, dei condizionamenti in cui siamo immersi ci forma e manipola fino a determinare una strutturale trasformazione del nostro essere ed esserci. In modo impercettibile siamo oggetto di una serie interconnessa di condizionamenti che mentre ci avvolgono, ci mutano, fino ad entrare nella nostra vita interiore, ad insinuarsi tra i nostri neuroni, in modo da pensare al nostro posto, pur dandoci l’illusione di essere padroni ed artefici del nostro destino. Le rana, saremmo noi, bollite a fuoco lento, in modo che si possa sostare nel tepore dell’acqua, si possa godere della mitezza del calore e ci si possa abituare alla temperatura che sale in modo quasi impercettibile, alla fine le rane saranno bollite, i suoi neuroni saranno bruciati. Il potere vuole cambiare la nostra natura, mette in atto una rivoluzione antropologica a fuoco lento. Noam Chomsky con la metafora della rana ci invita a fare un salto dalla caverna liquida in cui ci hanno immerso prima che non resti che una rana bollita:
«Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso e sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Questa esperienza mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta. Se guardiamo ciò che accade nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono divenute banali, edulcorate e – oggi – ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute. I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche. Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa. Allora se non siete come la rana, già mezzo bolliti, date il colpo di zampa salutare, prima che sia troppo tardi.»
Per poterci sottrarre alla fine poco dignitosa della rana bollita dobbiamo pensare nuove forme di resistenza che possano neutralizzare la violenza pervasiva dei nuovi poteri e dei suoi innumerevoli dispositivi di controllo.
(1) Avram Noam Chomsky (Filadelfia, 7 dicembre 1928) è un linguista, filosofo, scienziato cognitivista, teorico della comunicazione, accademico, attivista politico e saggista statunitense.
(ndr2) Quando la cultura greca incrocia la cultura giudaico-cristiana lo scenario muta perché la religione biblica, concependo la Natura come creatura di Dio, la pensa come effetto di una volontà: la volontà di Dio che l’ha creata e la volontà dell’uomo a cui la Natura è stata data in consegna per il suo Dominio. Da quel momento il significato della Natura non è più “cosmologico” ma “antropologico”. Essa, cioè, viene subordinata alle intenzioni della progettualità umana che, come vuole il programma della scienza moderna enunciato da Bacone (scientia est potentia), conosce per dominare. Il problema che oggi si pone è la “misura” di questo Dominio, che già Sofocle paventava quando nell’Antigone scriveva: «La natura ha forze tremende, eppure, più dell’uomo, nulla è tremendo».
Immagine. Ercole al bivio, dipinto di Annibale Carracci (1596), raffigurante l’indecisione dell’eroe fra le alternative della virtù e del vizio
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