”Il linguaggio è l’esperienza delle cose. Sotto questo rispetto il linguaggio è collettivo

LINGUAGGIO, ARTE E FILOSOFIA
ALLA VOLTA DEL SACRO
Il linguaggio è l’esperienza delle cose. La parola è il suono che utilizziamo per nominare l’emozione che la situazione che abitiamo suscita in noi. La sua codifica in origine è questa, in un incedere sempre più complesso e articolato. Se in principio l’orso e l’amico in uno certo stato d’animo eccitavano l’uomo allo stesso modo, esprimendo, per esempio, rabbia o coraggio, la parola – o il verso, parola primeva – era la medesima. Conoscendo, esperendo, l’uomo delle origini si rese conto dell’imperfezione della sua nominazione: è vero che l’orso e l’amico esprimono un sentimento analogo, ma adoperare lo stesso termine per entrambi equivaleva un poco a tradire le due esperienze; allora il linguaggio si articola, distingue le casistiche e ne specifica con più precisione le peculiarità. Così la parola che pure noi contemporanei utilizziamo ha quel preciso significato, che non noi, come singoli, conferiamo, ma che adottiamo dalla cultura, dove il senso vige in maniera abbastanza uniforme; e la maneggiamo, in forma sempre lievemente originale, nella singolarità della nostra vita. Allora il termine esprime non solo l’emozione che suscita qualcosa di esperito nella nostra riflessione, bensì anche tutto ciò che quell’esperienza, in linee generali, ha provocato nei nostri avi. La lingua è la sua storia, e l’etimologia racconta l’emozione che origina la parola. Infatti, quando scopriamo l’etimologia di un termine familiare, spesso accade di percepire assai più pregnante e pertinente il suo senso originario rispetto all’uso sbadato che ne facciamo abitualmente. Conoscendone la storia, l’emozione “fondante”, viviamo la parola in maniera più efficace.
Sotto questo rispetto il linguaggio è collettivo. Ma accennavamo al fatto che il suo valore è anche individuale. Lo è perché la parola inevitabilmente si innesta sull’unicità di una vita. E, perciò, se anche fossimo gli uni accanto agli altri nella medesima esperienza, e la descrivessimo con identica proposizione, lo stato d’animo e il significato che ciascuno attribuirebbe ai segni del linguaggio – e cioè all’emozione provata – sarebbero un poco differenti.
Se la nominazione è sempre imperfetta (e quindi richiede continua riarticolazione, come nel linguaggio collettivo) e sempre approssimativa rispetto a esperienze solo analoghe (e quindi l’identità è sempre inesatta, come nel linguaggio ritenuto sotto l’aspetto individuale), significa che il linguaggio è un’astrazione rispetto all’esperienza interamente considerata. Denota che la realtà delle percezioni, dei sentimenti, delle emozioni eccede con costanza le parole che adoperiamo per conoscerla. Quante volte accade di parlare senza riuscire a manifestare appieno la gioia provata? Quanto di frequente tradiamo le ricche sfumature del nostro essere con la povertà asciutta e scarna del verbo?
Eppure, l’emozione vuole esprimersi. Non l’esprimiamo solo protendendoci verso l’oggetto amato e facendolo nostro. Questo è un aspetto; decisivo, ma non l’unico. L’altra ambizione è la conquista del nome. Se sappiamo parlare dell’emozione possiamo rievocarla, in noi e in altri. Certo, è sempre un’approssimazione quella che otteniamo, però è un atto impreciso che ci orienta nel mondo. Sappiamo da che gesto sgorga un sentimento e cosa ci possiamo aspettare se l’onoriamo. Più conosciamo il linguaggio e ne adoperiamo al meglio le sfumature più riusciamo in questo compito.
Colui che in sommo grado riesce nell’impresa è poeta. Non che gli altri non lo siano affatto, giacché ognuno, con maggiore o minore maestria, si mette alla prova, anche senza averne consapevolezza.
L’arte è l’insieme di discipline capaci di esprimere al meglio le variazioni emozionali che sfuggono al linguaggio comune. L’artista riesce cioè, anche se solamente in parte, a eludere lo scarto creato dall’approssimazione della parola. Possiede l’abilità di raccogliere alcune virtualità tradite dall’imperfezione del verbo comune, per poi immetterle in differenti forme di linguaggio assai più efficaci. Così, quando il poeta parla d’amore è senz’altro più puntuale, nel rendere conto di una così difficile emozione, rispetto alla misera dichiarazione tentata da noi verso la persona amata. Allora ci affidiamo a lui, che sotto questo aspetto ha occhi migliori per afferrare la concretezza dell’esperienza.

- «E il poeta fin che non muoia l’inno,
- vive, immortale
- poiché l’inno […]
- è la nostra forza e beltà, la vita,
- l’anima, tutto!
- E chi voglia me rivedere, tocchi
- queste corde, canti un mio canto: in quella,
- tutta rose rimireranno gli occhi
- Saffo la bella.»
(G. Pascoli, Poemi conviviali)
La filosofia, invece, dispone i significati che affiorano dai diversi profili dell’esperienza. Ordinandoli, orienta le passioni e così le nostre vite. Perciò Vico spiega – secondo un ordine che ci sembra logico più che rigorosamente cronologico:
Se non ci fosse filosofia e non si ragionasse su quella «lingua mentale uguale a tutte le nazioni» (ivi) – che consiste appunto nei valori, nei significati – non potremmo che godere dei valori e dei significati sporadicamente, confusamente e contraddittoriamente. Alcuni valori non apparirebbero proprio, perché frutto di una trama complessa sorta dalle riflessioni anteriori. Lungi dall’essere attività oziosa e, soprattutto, lungi dall’essere un’opzione – ciascuno, come nel caso del poeta, è filosofo in grado diverso –, la filosofia illumina i percorsi dell’uomo, analogamente all’arte, che invece invera quanto il linguaggio comune sa a malapena sfiorare.
In ultimo, la religione – l’afflato religioso considerato oltre le singole credenze – rappresenta il sacro, che sconfina immancabilmente dalla griglia concettuale e linguistica in cui vorremmo custodirlo. Se la vita, col suo mistero, trascende le singole vite e i modesti tentativi di coglierne i più intimi segreti, allora Dio è «l’orizzonte che cinge le cime della realtà conquistata» (Nicolás Gómez Dávila, Escolios I).

Fonte: GazzettaFilosofica del 7 gennaio 2021