”Cose belle dell’inverno: i mandarini, le castagne e le tasche del cappotto. (Fabrizio Caramagna)
L’INVERNO
Il Carro del Sole, come lo chiama Cattabiani in quel piccolo gioiello che è il suo “Calendario”, ha ormai ripreso il suo percorso ascendente. E lo si può già notare. L’Aurora si rende percepibile prima al nostro sguardo, facilmente, in questi giorni festivi, ancora assonnato.
Non per nulla la festa romana del Sole non veniva posta in esatta corrispondenza con il Solstizio astronomico, bensì qualche giorno dopo. Il 25 dicembre, appunto. Quando il Pontifex Minimus, che sovrintendeva agli eventi calendariali, scrutando l’orizzonte, vedeva che l’Aurora interveniva prima. Il giorno cominciava a divenire sensibilmente più lungo. E veniva dato il, gioioso, annuncio alla Città.
Tuttavia, anche se stamane noto un chiarore all’orizzonte ben più presto che una decina di giorni fa, stiamo, ormai, inoltrandoci nelle profondità dell’inverno.
Tra poco sarà gennaio. Il mese più freddo, lungo e rigido. Il mese del ghiaccio e della neve. Quello che, con febbraio, nel più antico calendario romano neppure compariva. L’anno finiva con dicembre. E ricominciava con marzo. I due mesi del pieno inverno non venivano computati. Perché la vita si fermava. Non si facevano lavori nei campi. Gli armenti restavano chiusi nelle stalle. Troppo freddo per la caccia. Impossibile pescare. Laghi e fiumi ghiacciati. Il mare tempestoso.
Questo Calendario viene, convenzionalmente, chiamato Romuleo. Con riferimento alla fondazione della Città. In realtà è di sicuro, molto, davvero molto più antico di Roma. E molto precedente a quando le genti latine si stabilirono a sud del Tevere. Provenendo da dimore decisamente più settentrionali. Sub-artiche. Prossime facilmente al Baltico. Le Terre degli Iperborei, secondo alcune interpretazione del mito greco. Comunque, terre gelide. Dove, nel profondo inverno, la vita si fermava. Ogni cosa era come rappresa. Il mondo circostante immerso nella neve. Una, sola, grande palla di neve. L’aria densa per il gelo. Ogni esistenza appariva sospesa.
L’inverno appare davvero come la Stagione del nostro scontento. Le parole del Riccardo III la descrivono perfettamente. O, almeno, così sembra.
“Ora l’inverno del nostro scontento/è reso estate gloriosa da questo figlio di York…” (Atto-I, Scena-I). William Shakespeare ha usato questa frase nel suo popolare dramma, Riccardo III, dove Re Riccardo esprime i suoi sentimenti di scontento riguardo al vivere nel mondo che lo odia. Egli inizia il suo soliloquio affermando. Apparentemente sembra protestare contro la repressione della sua famiglia e il suo malcontento; tuttavia, in realtà sta celebrando la ripresa delle fortune della sua famiglia, poiché suo fratello diventa re. (f.d.b.).
E vedo, con gli occhi del ricordo, Lawrence Olivier pronunciare una delle battute più famose, forse la più citata, della storia del teatro drammatico. E al suo si sovrappone il volto, anzi la maschera tormentata di Donald Sutherland, nel film tratto dal romanzo di John Steinbeck L’ inverno del nostro scontento (L.C.)
Volti, maschere inquiete. Rappresentano bene questo inverno, in cui ci stiamo inoltrando. Lo scontento che è come una febbre. Una febbre…fredda, però. Che circola, si propaga… ma resta sottotraccia. Ben di rado trova voce, e cuore, per affiorare. Ed esprimersi.
Lo… scontento è però causato dagli uomini. Dalla situazione in cui viviamo, certo. Ma anche in cui abbiamo accettato di farci costringere. Supini. Sofferenti. In molti casi, però, conniventi e complici. Al contempo vittime e carnefici.
L’inverno, ancorché rigido e duro, non ha colpe. Anzi… È gravido di attese. Di speranze. Gli antichi, nelle loro dimore subartiche, lo trascorrevano, probabilmente, accanto al fuoco, narrando, i vecchi ai giovani, storie di caccia e di battaglie di cui la nostra storia scolastica non riporta memoria. Storie di eroi. E storie di Spiriti. Nasceva il mito. E con lui la fiaba.
Stavano lì, in attesa. Sapevano che nel profondo della Terra, fra cristalli e cenere delle foglie cadute durante l’autunno, i semi della nuova vita riposavano. Protetti e sicuri. Maturando una prossima rinascita.
Fantasie, certo… Non sappiamo, né mai potremo davvero sapere come fosse, allora, la dura sopravvivenza in quei mesi, bloccati dal gelo…
Eppure vi è un’immagine che ritorna, nelle vecchie cartoline dipinte di Natale. In taluni film stagionali. Nei racconti e nei sogni…
Pensate a certi quadretti natalizi, un po’ sdolcinati a dire il vero. Gnomi ed altre creature fantastiche dipinti a colori pastello. Coi loro buffi berretti. Le lunghe barbe. Le guance rosse. E riuniti intorno a un fuoco, nella misteriosa Dimora polare di Santa Claus. Felici e allegri. Al caldo. E in attesa. Il loro compito, costruire i Doni, ormai assolto. Non resta che far trascorrere l’inverno, e rimettersi al lavoro. Un’immagine che ci giunge, con molte trasformazioni, da remote, arcaiche, lontananze.
Immagine dell’inverno, certo. Ma di un inverno che è attesa. Non frustrazione e scontento.
Libri Citati
- L’ inverno del nostro scontento
- di John Steinbeck (Autore) Luciano Bianciardi (Traduttore)
- Bompiani, 2011
Descrizione
«Un giorno avrei dovuto chiedermi: “Perché sto male?” Gli uomini si abituano a tutto, ma ci vuol tempo.» Ambientato a Long Island, «L’inverno del nostro scontento» è l’ultimo romanzo di Steinbeck e fu pubblicato l’anno prima del conseguimento del premio Nobel (1962). Protagonista è Ethan Hawley, discendente di una antica famiglia di balenieri, ridottosi a fare il commesso in un negozio che un tempo era di sua proprietà. Uomo onesto e responsabile, Hawley si sente in colpa verso la famiglia e, per ottenere tutto quello che la nuova società del benessere può consentire, ordisce una serie di imbrogli e tradimenti che gli fruttano la ricchezza, ma lo portano a una desolante crisi di coscienza e a un passo dal togliersi la vita.