”L’isola non c’è perché l’hanno nascosta celata dietro menzogne divenute senso comune. Oggi più che mai occorre il coraggio dell’utopia unico realismo rimasto, c’è bisogno di lucida follia che non si arrende al deserto che avanza.
Seconda stella a destra questo è il cammino; e poi dritto, fino al mattino. Poi la strada la trovi da te, porta all’isola che non c’è. Forse questo ti sembrerà strano ma la ragione ti ha un po’ preso la mano ed ora sei quasi convinto che non può esistere un’isola che non c’è. E a pensarci, che pazzia è una favola, è solo fantasia e chi è saggio, chi è maturo lo sa non può esistere nella realtà! Così canta Edoardo Bennato ed anche se, per citare ancora il cantautore napoletano, sono solo canzonette, quella è la strada: oggi più che mai occorre il coraggio dell’utopia, unico realismo rimasto. Bisogna ribaltare la mentalità dominante, attaccare senza posa il tragico modello di società che ci impongono. L’isola non c’è perché l’hanno nascosta, celata dietro menzogne divenute senso comune per la potenza dell’attacco sferrato attraverso ideologemi ben studiati divenuti totem indiscutibili.
I problemi della nostra società spezzata sono mille, ma una sola è la bomba atomica: la fine biologica del popolo italiano, e con esso, degli altri popoli europei. Anche quest’anno, il periodico rapporto dell’Istat sulla popolazione attesta con numeri, diagrammi e previsioni raggelanti una devastazione demografica senza pari. Come sempre, il sistema mediatico ne ha parlato per un solo giorno, distrattamente, una notizia tra tante, in mezzo a procedure economiche d’infrazione, sbarchi di clandestini con annesse illegalità tollerate dall’ex Stato italiano, interminabili pause pubblicitarie e l’incredibile sovraesposizione del calcio femminile imposto in tutte le salse, un’altra operazione del potere, che ovviamente se ne stropiccia delle imprese delle calciatrici.

Non siamo più nell’inverno demografico; siamo nel bel mezzo di una guerra. Lo ha spiegato con chiarezza, al di là della prudenza, l’istituto statistico. Ne parliamo a qualche settimana di distanza dalla pubblicazione dei dati per non unirci al coro dei preoccupati per 24 ore.

Il numero delle nascite non era tanto basso dai tempi della prima guerra mondiale, con i giovani uomini a morire a centinaia al giorno e svuotare campi, paesi, città. L’anno venturo sarà peggio, i primati negativi verranno polverizzati. Il dato più spaventoso è il crollo del desiderio femminile di divenire madre: pare che quasi una giovane su due non abbia tra i suoi programmi, tanto meno tra gli obiettivi, diventare madre. Il destino biologico naturale è visto come una disgrazia, un problema, una malattia a cui sottrarsi. Il dato attesta un fatto senza precedenti: la nostra società, che pure dichiara se stessa il migliore dei mondi, anzi l’unico possibile, non desidera riprodursi biologicamente. Non vi può essere confessione di fallimento più grande. Il carro di Tespi postmoderno avanza gaiamente verso il nulla impugnando una bandiera bianca nascosta dietro il finto arcobaleno dei partigiani del gender. Un falso simil arcobaleno a sei colori anziché sette, come in natura, per la cancellazione dell’azzurro, il colore di Dio, come ha rilevato una donna coraggiosa, Silvana De Mari.
[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’eb1313′]Quella che proponiamo con disperata speranza è un’agenda politica che riconduca all’isola che non c’è (più) attraverso la difesa intransigente del nostro popolo a partire dal suo diritto di esistere![/stextbox]

Tra mancate nascite, aborti e suicidi, è ozioso dibattere di qualunque altro argomento: o la nostra società pone in agenda al primo posto la sua sopravvivenza biologica e il correlato rilancio culturale e morale della nazione, oppure è la fine, rapida, irreversibile, definitiva, della nostra gente. Basta sovranismo, basta polemiche sull’immigrazione, stop persino ai regolamenti UE, al potere finanziario e alla dittatura tecnologica. Se non ve ne importa nulla, meglio interrompere la lettura e continuare la corsa verso le magnifiche sorti e progressive di un’umanità cui mancherà lo specifico apporto del popolo italiano, alla faccia della biodiversità invocata per piante ed animali. Almeno, valutiamo le conseguenze economiche ed esistenziali del crollo del sistema di sicurezza sociale e il suo impatto sulla salute pubblica, l’aumento a dismisura del numero di persone in situazioni di dipendenza, oltre alla tragedia affettiva della solitudine e dello straniamento di chi resta, senza identità, straniero anche a se stesso, un ex italiano da esporre e poi imbalsamare come reperto museale.
Non vogliamo figli, dell’Italia non ci interessa il destino né i padri, superstiti testimoni del mondo di ieri, dell’Italia come è sempre stata. Tutto per paura del domani e orrore del buio di ieri, quando non c’eravamo, sembra impossibile, proprio noi, le prime generazioni davvero libere, emancipate, colte, intelligenti, uscite dalla superstizione e dall’ignoranza. I figli, poi, ci deprimono perché costringono alla responsabilità, alla cura, agire con vista sul domani, prendere decisioni in una società curva sul presente, individualista, violenta per difendere la sua nullità, drogata dall’attimo. Panta rei, tutto scorre, quindi carpe diem, cogli il momento, non ti far fregare da scrupoli o doveri. Questo è il tempo felice dei diritti, dolce parola che apre il cuore umano ai peggiori comportamenti. Talvolta, sentiamo di persone che preferiscono, scelgono, un animale domestico piuttosto che un figlio. Siamo già morti. Non vogliamo figli per il rischio di non poter frequentare locali di divertimento e non godere le vacanze, ma vacanza significa assenza, quindi aspiriamo ad una vita in ferie, come Lucignolo nel paese dei balocchi e amiamo il diabolico Omino di Burro globalista, progressista, liberale e liberista che ci guida in quella direzione. Cambia solo il mezzo: non più un carro trainato da asinelli, ma il potere dei mezzi divenuti fini, vite scandite da voli low cost per destinazioni esotiche dove scatenare il livello più basso dei sensi.
Molti, in verità, i figli li vorrebbero, ma non si può, stando al senso comune odierno, per insicurezza sociale, mancanza della casa, pochi soldi e cose di questo tipo. Se gli uomini avessero ragionato sempre così, la specie sarebbe estinta da secoli, forse da millenni. I giovani sposi del dopoguerra vissero per anni in camere a pigione e, chissà come, ebbero figli, restarono insieme per la vita e salirono la scala sociale. Il matrimonio è ridicolizzato, l’unico che conta, per la carica eversiva di cui lo hanno caricato, è quello omosessuale. Per gli altri, i normali (oddio, si potrà ancora pensare, dire, scrivere normali anziché eterosessuali?) il matrimonio arriva sempre più tardi e dura sempre meno. Prima bisogna completare gli studi, avere “successo”, poi bisogna “realizzarsi” e il coniuge è un altro problema: “ti lascio, non mi emozioni più”, la precarietà nei rapporti è la regola, sacrificarsi per qualcuno che orrore, la vita è una, è mia e nessuno deve interferire. Il modo di vita contemporaneo mette in pericolo la fertilità maschile e quella femminile anche nei casi in cui si accetta la sfida di essere genitori.
Difficile conciliarelavoro e famiglia e allora via tutto, nessun matrimonio, rapporti liquidi, sentimenti banditi, se occorre aborto senza problemi, basta bambini che piangono e, orrore, richiedono attenzione, responsabilità, costanza. L’immigrazione rallentail declino demografico ma non lo impedirà.Le mortigiàsuperano lenascite, anche gli stranieri, a contatto con una civiltà, la nostra, che si rivela malattia sociale, infezione di massa, diventano meno prolifici. Che cosa fa la politica, cioè lo spazio pubblico comune? Nulla nella maggior parte dei casi, una parte si schiera apertamente per la morte della nostra gente, nemici aperti del popolo italiano, quasi tutti non guardano oltre l’oggi, qualcuno, specie in periodo elettorale, avanza buone proposte immancabilmente deposte come lettera morta tra alleati indifferenti, paura della reazione del sistema, noncuranza maggioritaria verso qualsiasi fenomeno che oltrepassi l’orizzonte immediato e soggettivo e metta in gioco il maledetto laissez faire, laissez passer della dogmatica liberale
[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’eb1313′]L’isola non c’è perché l’hanno nascosta celata dietro menzogne divenute senso comune. Oggi più che mai occorre il coraggio dell’utopia unico realismo rimasto, c’è bisogno di lucida follia che non si arrende al deserto che avanza![/stextbox]
Unica eccezione le cause promosse a suon di bombardamento mediatico del sistema, come insegna il grottesco fenomeno di Greta, la ragazzina che salva il mondo dalla catastrofe ecologica e discute da pari a pari con papi e potenti della terra. La tendenza giovanile – tutti imitiamo i giovani o ci travestiamo per sembrare tali – è vivere gioiosamente e comodamente senza legami, tra egoismo, mancanza di solidarietà e l’immancabile trolley da nomadi postmoderni per trascinare quel che abbiamo da un non luogo all’altro. Ha vinto un’ideologia pervasiva contraria all’uomo, al matrimonio e più ancora alla donna, aggredita nella sua condizione di madre non solo dal femminismopiù radicale, ma dall’intero pensiero dominante dell’occidente terminale.
Il ripudio della maternità si fa maternofobia, un atteggiamento retrogrado che dovrebbe indignare gli adoratori del progresso. L’isola che non c’è è la necessaria reazione, etica, culturale, spirituale e anche politica da concretizzare in un programma con un unico punto: rilanciare il popolo italiano attraverso una politica favorevole alla vita. Forse è un progetto massimalista, forse è addirittura estremismo, ma estreme sono la necessità e l’urgenza. La domanda da porre, brutalmente, è la seguente: volete continuare a essere italiani, a vivere secondo principi, valori, ritmi della nostra tradizione, o per voi conta solo il presente, lo spazio che casualmente occupate chiamato Italia? Volete essere un popolo, o vi basta la condizione di consumatori transumanti, di gregge guidato da cani, pastori, padroni del mattatoio? Ha ancora senso per voi parlare questa lingua, amare questo territorio, trasmettere a qualcuno, rafforzata, la civiltà ricevuta o non ve ne importa nulla?
La risposta fa paura, inutile negarlo, ma la difficoltà dell’impresa non ci può far rinunciare. Cambiamo la domanda. Ci piace vivere tra vecchi in attesa dell’ineluttabile, essere accuditi da estranei, non riconoscere più il panorama attorno a noi, a partire da quello umano? Il nostro villaggio o città, il quartiere e la strada di tutta la nostra vita sono cambiate, il panorama non è più riconoscibile. Siamo più felici? Preferite il sorriso di un figlio, lo sguardo di un nipote, o il latrato del vostro cane? Probabilmente avremo risposte diverse, più in linea con le nostre attese. Abbiamo rinunciato a troppo in nome del nulla, o di piaceri che non riescono a darci che soddisfazioni momentanee.

Quella che proponiamo con disperata speranza è un’agenda politica che riconduca all’isola che non c’è (più) attraverso la difesa intransigente del nostro popolo a partire dal suo diritto di esistere, rappresentare la splendida diversità del creato. Contiene tutti i temi della nostra società malata: comunità o soggettivismo, globalismo o identità, appartenenza o schiavitù tecnologica, bellezza o uniformità, spazio pubblico o dimensione privata. Come tale, è inevitabilmente anti liberista, anti liberale e antiglobalista, allontana dal soffocante materialismo, recupera la dimensione del futuro, del progetto, dell’ideale da costruire oltre una quotidianità asfittica. Il potere che ci avviluppa è come il parassita del regno animale descritto da Ernst Jünger che succhia silenziosamente il bruco. Alla fine, al posto della farfalla, dall’involucro esce una vespa velenosa.
[stextbox id=’download’ mode=’undefined’ color=’eb1313′]La resistenza culturale, biologica, etica, il rilancio di ciò che siamo per storia, eredità e cultura è il granello di sabbia che gettiamo contro il nuovo leviatano. Figli di qualcuno e di qualcosa, eredi decisi a non disperdere il patrimonio accumulato. Il viaggio verso l’isola che non c’è (ancora) è un cammino da intraprendere in pochi, ma troveremo compagni lungo la via![/stextbox]
Propugnare come tema centrale della battaglia politica e culturale la sopravvivenza biologica e culturale del nostro popolo è monotematico solo in apparenza, giacché, prima di tutto, bisogna essere vivi. Primum vivere, deinde filosofari, dicevano i saggi del passato oscuro. Proviamo a chiedere a un ammalato di un’infermità grave deciso a lottare per la vita a che pensi tutto il giorno, a che cosa tendano i suoi sforzi e risponderà che l’obiettivo è restare in vita. Per guarire, sopravvivere e riprendere salute bisogna curarsi, cambiare registro; l’Italia è un malato gravissimo che non sa se vuole sopravvivere, tentato dalla resa. Eutanasia di una patria. Riportarla alla vita significa lottare innanzitutto contro lo stato di cose esistente; per una volta, diamo retta a Carlo Marx: basta con il pensiero che osserva la realtà, via libera al pensiero che cambia il mondo.
Un enorme quantità della popolazione vive giorno per giorno, ignara delle condizioni e dei rapporti di potere che trascendono il raggio della sua attività e lo avvolgono in uno stile di vita teso solo a prestare attenzione ai frammenti usciti dalle notizie diffuse dal potere. Il giudizio sul mondo si limita ai titoli della TV e delle reti sociali. Sono immagini costruite e false, carenti di una vera struttura. Una struttura pretende una certa complessità, una comprensione non superficiale del presente e, quindi, del passato. Al potere vincente basta occupare totalitariamente l’attimo, perché chi domina il presente domina il passato. Pochi messaggi sono tanto ideologici e devastanti quanto i video dei cantanti pop e rock di cui si nutrono i più giovani. L’intera comunicazione pubblicitaria, che occupa ore della nostra giornata, è una sequenza di ideologemi che, insieme con il prodotto, reclamizzano un modello di società, con i suoi comportamenti, i suoi obblighi, le parole d’ordine, il linguaggio in cui domina un disgustoso minestrone tecno anglofono che invade ogni aspetto della vita, modificandola con il vangelo politicamente corretto.
Digeriamo quotidianamente, specie i giovani derubati del pensiero critico, tonnellate di immagini ludico libidinali di consumo il cui filo comune è l’insostituibilità del sistema di potere. Una società universale di cui l’intera storia passata non sarebbe che un pallido preludio passata al setaccio con una potenza di ingegneria sociale mai dispiegata prima. Miliardi di schiavi felici, plaudenti, animali d’allevamento a taglia unica soddisfatti dopo il pasto. Un granello di sabbia può mettere in crisi l’ingranaggio. L’ostacolo può essere la domanda di identità. Attraverso la sua rivendicazione, saltano tutte le credenze del sistema: il liberismo economico, la mistica folle dei diritti soggettivi, l’illusione nefasta “senza frontiere”, la riduzione all’identico di miliardi di uomini e donne divenuti una specie biologica da ri-costruire. Noi, nel nostro piccolo, siamo italiani, amiamo la gente che ci ha formato, “Duemil’anni forse di gente mia campagnola/ E mio padre e mia madre”, esclamò Giuseppe Ungaretti dinanzi al fiume Serchio dei suoi avi. Vogliamo avere eredi come noi, migliori di noi.
La resistenza culturale, biologica, etica, il rilancio di ciò che siamo per storia, eredità e cultura è il granello di sabbia che gettiamo contro il nuovo leviatano. Figli di qualcuno e di qualcosa, eredi decisi a non disperdere il patrimonio accumulato. Il viaggio verso l’isola che non c’è (ancora) è un cammino da intraprendere in pochi, ma troveremo compagni lungo la via. C’è bisogno di ideali, progetti, imprese, la lucida follia che non si arrende al deserto che avanza e raggiunge l’isola perché ne conosce l’esistenza. “E se ti prendono in giro se continui a cercarla, non darti per vinto perché chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, forse è ancora più pazzo di te”.
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Margherita marra
7 Luglio 2019 a 9:52
a 79 anni io ancora combatto contro le ingiustizie ke tutt i giorni di commettono contro i minori e nn mi arrendero’ mai