Renzo Bistolfi ci racconta con ironia e partecipazione le atmosfere, i luoghi e le vicende di un tempo che ci sembra ormai remoto, ridando vita e corpo a personaggi e sentimenti capaci di suscitare nel lettore divertito un sorriso di nostalgia.

 

«Divertente, femminilissimo e leggero. Un’ode al giallo di provincia. Ma con classe» – Corriere della Sera

«Una folla di personaggi maggiori e minori, una polifonia di voci che sa un po’ di madeleine dell’autore e non smette mai di dare la sensazione di piacere del racconto (di chi lo scrive e di chi lo legge)» – Amica

«Un noir ironico, con una scrittura garbata che restituisce un mondo d’altri tempi.» Il Venerdì di Repubblica

«Renzo Bistolfi dosa perfettamente ironia e “drammaticità” in un equilibrio che fa sorrider anche quando meno te lo aspetti. E un finale per nulla scontato.» la Repubblica

 

La trama del romanzo.

Sestri Ponente, novembre 1956. La palazzina di via D’Andrade ospita un campionario di umanità molto varia: la sarta laboriosa aiutata da una giovane apprendista timida e bella; l’oste truffaldino; la vedova insolvente con il figlio dalle spalle larghe, la vita stretta e poca voglia di faticare; la cinquantenne con tanti figli ma nessun marito… Tutti sanno tutto – o quasi – di tutti. Alcuni sono amici, altri si sopportano, tutti si danno una mano per affrontare le ristrettezze. E c’è una cosa che unisce indissolubilmente gli abitanti di via D’Andrade: l’odio per la loro padrona di casa, la Maria Scartoccio. Ogni 5 del mese fa il giro degli appartamenti per riscuotere gli affitti e alla fine della giornata non c’è un inquilino che si addormenti con il sorriso… Così, quando Maria Scartoccio viene trovata morta in casa sua, vittima di quello che sembra un grottesco incidente, tutta la palazzina tira un enorme sospiro di sollievo. Forse, però, non è stato un incidente…

Renzo Bistolfi ci racconta con ironia e partecipazione le atmosfere, i luoghi e le vicende di un tempo che ci sembra ormai remoto, ridando vita e corpo a personaggi e sentimenti capaci di suscitare nel lettore divertito un sorriso di nostalgia.

 

Come inizia. 

Presentazione

Sestri Ponente, novembre 1956. La palazzina di via D’Andrade ospita un campionario di umanità molto varia: la sarta laboriosa aiutata da una giovane apprendista timida e bella; l’oste truffaldino; la vedova insolvente con il figlio dalle spalle larghe, la vita stretta e poca voglia di faticare; la cinquantenne con tanti figli ma nessun marito… Alcuni sono amici, altri si sopportano, tutti si danno una mano per affrontare le ristrettezze. E c’è una cosa che unisce indissolubilmente gli abitanti di via D’Andrade: l’odio per la loro padrona di casa, la Maria Scartoccio. Ogni 5 del mese fa il giro degli appartamenti per riscuotere gli affitti e alla fine della giornata non c’è un inquilino che si addormenti con il sorriso… Così, quando Maria Scartoccio viene trovata morta in casa sua, vittima di quello che sembra un grottesco incidente, tutta la palazzina tira un enorme sospiro di sollievo. Forse, però, non è stato un incidente…

 

TAVOLA DEI PERSONAGGI

 

Battista Cavagnaro: farinotto, ovvero titolare di un forno dove si produce farinata.

Ester Sciutto in Cavagnaro: moglie di Battista.

La signora Scaramellini: una cliente di Battista.

Maria Scartoccio: benestante, proprietaria immobiliare.

Jolanda Merlo, vedova Scatizzi(Landa); Brigida Durante, vedova Canepa; Ermete Scatizzi(figlio di Landa); Adele Repetto(Delaidìn); Rosa Michelini, vedova Calcagno; Pinuccia Calcagno(figlia di Rosa); Filomena Dalla Casa(Nenna, o anche la Tre Culi); Pietro Ratti(Piero): inquilini di Maria Scartoccio.

Iris Bacigalupo: sartina.

Primo Galanti: maresciallo capo dei carabinieri di Sestri Ponente.

Erminia Oliveri, vedova Passalacqua (la Prosperosa): proprietaria di una pasticceria.

Pollino, Sciortino, Manniti, Marini: carabinieri.

Gaspare Baratti: notaio in Sestri.

Don Carlino Parodi:arciprete di Santo Stefano di Borzoli.

Don Cesare: arciprete emerito di Santo Stefano di Borzoli.

SOMMARIO DELLE VICENDE

Prologo

Parte prima. Dove scoppia un tuono. E poco dopo niente è più com’era.

Parte seconda. Dove si ragiona di un malaugurato incidente, anzi due. E qualcuno non ci vede chiaro.

Parte terza. Dove il topo passa sempre per lo stesso buco. E il mistero si chiarisce.

Epilogo. Dove parlano i morti. E rimediano (quasi) ogni cosa.

Nota dell’autore

PROLOGO

 

Nella notte la burrasca di mare si era lentamente consumata e il martedì 6 novembre 1956 era spuntata un’alba da lunedì di Pasqua.

   Una brezza fredda e leggera soffiava giù dal ponte di San Nicola ingolfandosi in via Garibaldi, e l’aura lugubre che fino alla sera prima ammantava Sestri sembrava frutto di pura fantasia. L’umidità svaporava sotto i primi raggi del sole facendo fumigare i muri, i tetti, il selciato, e nella bonaccia quasi assoluta quella nebbiolina azzurrognola sfumava i contorni, conferendo a ogni cosa un aspetto irreale, da sogno.

   Tutto bene, dunque.

   Non fosse stato per quel grumo di curiosi che da mezz’ora si era addensato sul marciapiede, davanti alla bottega di Battista il farinotto, e guardava in su verso il palazzo di fronte, ingrossandosi di minuto in minuto.

   I primi a giungere in via D’Andrade furono i pompieri a bordo dello spernacchiante furgone Fiat 621 in servizio dal ’29, partito pochi minuti prima da via Fabio da Persico.

   Spintonando la piccola folla vociante, i vigili si fecero largo, presero a montare una lunga scala che puntarono sulla facciata del palazzo in direzione dei due finestroni del primo piano e restarono impalati, a guardare in alto.

   Poi arrivò la lettiga della Pubblica Assistenza Croce Verde, con un gran berciare di sirena. I militi volontari aprirono gli sportelli posteriori e si immobilizzarono anche loro, le braccia conserte e i nasi all’aria.

   L’ultima ad arrivare, perché veniva dalla Fossa, fu la Topolino blu targata Esercito Italiano, da dove smontarono il maresciallo dei carabinieri e il giovane appuntato che la guidava.

   I due finestroni, che andavano dal pavimento al soffitto, erano completamente appannati come se avessero avuto i vetri smerigliati. C’era un parapetto a colonnine di marmo e, da sotto le soglie, colava a getto continuo dell’acqua calda che fumigava nel freddo del mattino: la facciata era già striata di scuro fino al marciapiede, dove larghe pozze ristagnavano.

   Dalle fessure delle finestre sbuffava del fumo bianco, anzi no, a guardar bene non era nemmeno fumo: era vapore, come se all’interno ci fosse stato un gigantesco marmittone che sobbolliva da ore.

   Il maresciallo fece un gesto perentorio col capo e un pompiere, seguito dall’appuntato, si arrampicò sulla scala brandendo una mazza.

   «Indietro. State indietro!» ordinò il maresciallo.

   La piccola folla rumoreggiò.

   Fracasso di vetri infranti e sbuffo di vapore.

   Il pompiere infilò il braccio nell’apertura e ruotò la maniglia.

   La porta finestra si aprì.

   Pompiere e appuntato scavalcarono il parapetto e sparirono nell’interno buio, tra le spire di vapore che si disperdevano nell’aria.

   Nella strada si fece un silenzio di tomba.

   Ci vollero alcuni minuti, poi ricomparve il carabiniere, fece un cenno affermativo al maresciallo e indicò il vicolo lì accanto, mentre il pompiere spalancava l’altro finestrone.

   Il maresciallo, un uomo imponente dai capelli brizzolati e curatissimi baffetti, si ficcò il berretto sotto il braccio, quindi partì a passo militare e sparì nel vicolo.

   La gente rumoreggiò di nuovo.

   «Indietro. Ho detto indietro!» intimò un pompiere.

   «Cos’è successo?» chiese una donna.

   «Mah. Sarà qualcuno che è rimasto chiuso fuori di casa», rispose un’altra.

   «E il fumo?» chiese un uomo che a giudicare dalla tuta doveva essere un operaio dei cantieri navali.

   «Boh, va a sapere… Avranno lasciato il pentolino sul fuoco.»

   «Alla faccia del pentolino!»

   «Sì. E la Croce Verde invece a cosa serve? I carabinieri?» rimarcò l’uomo scuotendo la testa.

   «Mah. Allora non saprei…»

   Un’altra donna si voltò con l’aria di quella che sa tutto, e concluse: «No. Secondo me è successo qualcosa».

 

PARTE PRIMA

 Dove scoppia un tuono.

E poco dopo niente è più com’era.

 

Capitolo 1

Alle cinque del pomeriggio sembrava già notte fatta.

  Un po’ perché pioveva a dirotto, un po’ perché in fondo a quella specie di taglio verticale che formava la Contrada di Mezzo, cioè la via D’Andrade, la luce arrivava col contagocce anche nelle giornate di sole, figurarsi in una giornata così che non si capiva se il mare fosse sopra oppure sotto.

  Tre metri da un marciapiede all’altro, vecchie case alte e strette, grigie e screziate, scarpe a prender aria sui davanzali e poi, tra le facciate, ragnatele di stendarole che si incrociavano con i fili della luce: lenzuola, tovaglie, mutande e camicie, d’ogni taglia e colore, stese ad asciugare.

  Quel pomeriggio però ad asciugare c’era un bel niente perché per l’appunto pioveva che il Signore la mandava e in più lo scirocco si ingolfava tra le case ululando, come se avesse scambiato quel budello per la canna di un organo.

  «Eh, ben. Giornata da farinata. E la mia è la meglio farinata di Sestri, altro che!»

  Battista il farinotto si aggiustò il grembiule sulla pancia, si sfregò le mani di gusto e riprese a mescolare col dovuto ritmo l’intruglio giallognolo che ondeggiava nella conca di ceramica: acqua e farina di ceci in proporzioni perfette, quanto quelle dei pacchetti del farmacista.

  Con piccoli e sapienti colpi di mestolo stemperava ogni minimo grumo, anche quelli che un occhio sprovveduto non avrebbe mai colto.

  Ester dal canto suo, col possente deretano all’aria, i calzerotti rivoltati e le pantofole foderate di finto pelo, spargeva manciate di segatura sul pavimento col gesto metodico del seminatore e mugugnava.

  «Là. Che con questo tempo qua, a forza che vai e che vieni, che vieni e che vai, la mia bella bottega mi diventa peggio del torrente Cantarena.» Al solo pensiero il neo peloso che aveva su una guancia fremette d’indignazione.

  Bella bottega.

  Una specie di corridoio stretto e lungo in fondo al quale si spalancava la bocca infernale del forno, col suo sportello di ghisa, forno che Battista regolava con la precisione di un orologiaio tra un’infornata e l’altra.

  Un lambris di piastrelle bianche come quelle dei bagni della stazione e il muro che da giallastro sfumava, a mano a mano che saliva al soffitto, nel nerofumo più profondo.

  Vi si entrava scendendo due gradini e il banco era sulla sinistra, stretto e lungo anche quello come una panca da chiesa, sul quale erano in bella mostra i ripieni di verdure, le torte di biete, i frisceu, il baccalà fritto e i tegami di farinata: quella di ceci e quella di zucca.

  Battista versò amorevolmente l’intruglio nel testo,1 vi aggiunse l’esatta quantità di olio e lo assestò col mestolo: cinque millimetri di spessore, non uno di più, non uno di meno. Quindi prese due manopole di cuoio, afferrò il tegame alle estremità opposte e con una giravolta da ballerino, oplà, lo infilò d’un colpo nella bocca del forno assestandolo con la pala.

  «Alé, anche questa è fatta. E così oggi ne sono già andati cinque, di testi! Ma ben, ben, ben!»

  Finalmente poté darsi una grattatina liberatoria alla pelata e passarsi il dorso della mano tra il naso a patata, gocciolante per il caldo, e i baffoni grigi e frementi.

  Il campanello tintinnò.

  Ester si raddrizzò come una molla ma pagò subito la mossa azzardata: fece una smorfia di dolore e si portò la mano alle reni.

  «Ohimè, mi», si lamentò, ma cambiò subito tono nel riconoscere la cliente.

  «Oh, scià2Scaramellini, buonasera», fece con tono untuoso e deferente. «Ma come? In giro con questo tempo da tregenda?»

  La Scaramellini era una maestra in pensione.

  Tutta sgocciolante e avvolta in un trench che sembrava una tenda da circo, con cappello floscio e galosce di gomma, infilò il paracqua nel portaombrelli con un colpo secco, alla maniera di uno schermidore che assesta la stoccata finale. Poi rialzò la tesa del cappello e sgranò gli occhi, come se avesse visto la Madonna del Gazzo.

  «E pensiamo, Ester! Dove me l’avete pescata la tregenda? Avrete mica letto la Divina Commediaieri sera?»

  Ester si aggiustò i capelli color stoppa, ossigenati di fresco dalla Magda, chinò il capo e sorrise di traverso con fare di profonda modestia.

  «Oh, cosa volete mai…»

  «Macché Divina Commediae Divina Commedia!» rombò Battista lustrando il marmo del banco. «Sono le parole incrociate che c’ha per la testa, altro che Divina Commedia! Da quando s’è messa a trafficare con quei libretti io non la riconosco più. Quella lì non è più mia moglie, è diventata un rebus, è diventata! Fate conto che l’altro giorno la mia berretta me l’ha chiamata copricapo

  «E va ben, Battista, lascia un po’ andare…» pigolò Ester, lisciandosi il neo per l’imbarazzo.

  «Non c’è mica niente di male a fare le parole incrociate.»

  «Non ci sarà niente di male ma in genovese la berretta si dice berretta. E basta! Se andiamo avanti così va a finire che per parlare con mia moglie… mi devo portar dietro il vocabolario, ecco, sennò non ci capisco un accidente.»

  «E via, Battista…» sdrammatizzò la maestra con dolcezza. «Adesso non esageriamo. Vostra moglie ad allargare il vocabolario ci guadagna di sicuro, e voi vedrete che non ci rimetterete mica niente.»

  Superato l’impasse del parlar migliore di Ester, la Scaramellini ordinò tre etti di tavellette,3ma a patto che fossero quelle fritte nel pomeriggio, e due tocchi di farinata di zucca, se era ancora calda. Per quella di ceci avrebbe aspettato che il forno la restituisse.

  «Sapete, voi state qua dentro tutto il giorno e non ve ne accorgete nemmeno, ma là fuori il profumo di farinata e panissa si sente a cento metri di distanza e, in una serata da lupi come questa, la luce della vostra bottega sembra la lanterna del porto per i marinai che arrivano dalle Americhe… be’, insomma, voglio dire che non c’è niente di meglio: farinata e un bel bicchiere di vino buono. Altro che le minestrine lava stomaco di mia figlia!»

  «Dite bene, sciàScaramellini», convenne Ester. «Le ragazze di oggigiorno con tutte quelle stupidaggini della linea… e pensare che agli uomini la prosperità non ci dispiace mica, sa? Un po’ di roba soda da sentir sotto le mani al buio e…»

  Un tuono fortissimo fece tremare i vetri e sobbalzare Ester, che si portò una mano alla bocca e lanciò un gridolino in falsetto: «Oh, bella Madonna santa!»

  «Che botta! Da qualche parte ha picchiato…» fece la Scaramellini cupa in volto, «di sicuro.»

  «U l’è u diau», rise Battista tutto allegro. «È il diavolo che rotola sua moglie in un barile!»

  La luce si spense.

  «Magari anche sua moglie fa le parole incrociate, va’ un po’ a sapere…»

  Fatto sta che rimasero al buio da un momento all’altro, mentre la luce dell’illuminazione pubblica, fuori, non s’interruppe affatto.

  Il forno mandava il bagliore tremolante delle fiamme che sgusciava dalla fessura dello sportello, e dalla porta a vetri si percepiva la luce giallastra e ondeggiante del lampione scosso dal vento, il resto era immerso nel buio.

  Appena il rombo del tuono si spense in un vago brontolio, il latrato acuto e petulante di un cagnetto echeggiò tra i muri fradici, e il suono ritmico di un bastone, che percuoteva il selciato con la regolarità di un metronomo, si percepì distintamente. C’era qualcosa di irreale e quasi lugubre in quel suono netto e martellante.

  Tre paia d’occhi nella bottega semibuia del farinotto si fissarono sul rettangolo di strada inquadrato dal vetro della porta, e videro sfilare come al rallentatore una figura di donna, corpulenta, imbacuccata all’inverosimile, che si appoggiava a un bastone e teneva al guinzaglio un cagnetto da mezzo chilo, vestito di un cappottino giallo.

  «Eccola là», fece Battista con la voce bassa. «Quella non la beccano neppure i fulmini: hanno paura di farsi male, i fulmini!»

  Del profilo si distinguevano il naso aquilino e il vistoso doppio mento che tremolava nell’incedere; la gonna scura spuntava dalla mantella di tela cerata e le arrivava alle caviglie, gonfie e violacee, simili a mortadelle; un cappello sformato e lucido di pioggia le copriva parte del volto e un paio di scarpe pesanti, da uomo, conferivano a quell’apparizione un aspetto ancor più irreale.

  «Ma Battista…» protestò Ester con profonda disapprovazione.

  «Sbaglio, o quella è…» azzardò la signora Scaramellini, come ipnotizzata dalla visione.

  «Eh sì», la interruppe Battista alzando le spalle, «è proprio lei, è la Maria Scartoccio. E che il diavolo se la porti!»

  «Ma Battista!» ribadì Ester con maggior veemenza.

  Poi tornò la luce.

  «Dicono che abbia un mucchio di palanche, se non mi sbaglio», insinuò la Scaramellini, giusto per non lasciar cadere il discorso.

  «Palanche?» esclamò Battista. «Ne ha tante, ma tante che non sa nemmeno più dove metterle. Tutto l’isolato di fronte è suo, tranne l’appartamento della Delaidìn Repetto. E non è mica finita lì. Si dice che anche a Cornigliano…»

  «Ah sì?» si interessò con garbo la Scaramellini.

  «Proprio. Appartamenti e botteghe. Dappertutto!» confermò Battista in un sussurro.

  «Meno che l’appartamento di questa…»

  «Eh sì», intervenne Ester, rincuorata dal ritorno della luce. «Uno scito4bello grande quello della Delaidìn: due stanze, sala e cucina, che glielo hanno lasciato i vecchi. Lei non ha altro e campa di poco, ma almeno un tetto sulla testa non glielo leva nessuno. Sa, è mezzo paralizzata, pare che abbia avuto la poliomielite da piccola, e non esce mai di casa, ma qui la aiutano un po’ tutti. Chi le fa la spesa, chi le porta via la spazzatura, chi le pulisce i vetri… cose così», abbassò la voce: «e la Maria le zampe sul suo scitonon è mai riuscita a mettercele. Aspetta che muoia per…»«

  Quel demonio fatto e finito!» tuonò Battista allargando le braccia. «È lì che aspetta come un avvoltoio posato sul ramo. E dire che i settanta non se li ricorda più nemmeno lei e… sapete com’è: con le palanche non vi ci foderano mica la cassa, no? Sì, insomma», Battista ammiccò in modo eloquente, «i cappotti di mogano in definitiva li fanno ancora senza tasche. Per tutti!»

  «Eh, già», convenne la Scaramellini, seria. «E poi i denari dell’avarone vanno in bocca al leccardone, dicevano i miei vecchi.»

  Battista andò alla porta e sbirciò fuori, attraverso i vetri rigati di pioggia.

  «La vedete? Adesso va a fare il giro delle pigioni: è il cinque del mese, mese di novembre millenovecento e cinquantasei», sillabò solennemente sgranando gli occhi, sostenuti da due vistose borse. «Un tempo da andare a picchiare negli scogli con barca e tutto, ma lei niente: nemmeno la burrasca di mare la fa ritardare di un giorno. E poveretto chi gli manca uno scudo, una palanca, allora non vuol sentir ragioni e diventa cattiva come l’aglio!» Scrollò la testa pelata e concluse: «E poi ha sempre una cattiveria da dire. Una a testa, come il prete che ti mette l’ostia sulla lingua… lei invece ci posa un po’ di veleno. E io ci avrei fin paura che il Padreterno un giorno o l’altro mi castigasse, altro che».

Capitolo 2

Il tuono fece tremare i vetri e la luce si spense.

  Le due donne rimasero in silenzio, al buio.

  Venti secondi, forse trenta, poi la luce tornò e loro ripresero a ciacolare come se niente fosse.

  Il braciere di terracotta, sotto il tavolo, emise una specie di scoppio e qualche favilla schizzò pericolosamente verso le vesti delle donne, appoggiate al ripiano di marmo, l’una di fronte all’altra.

  «Ecco», fece Brigida, la più anziana, chinandosi sotto il tavolo a rimestar le braci. «Ormai ci mettono di tutto nella carbonella, il risultato poi è questo: scoppia come le castagnole di sant’Alberto. E dire che sono andata a prenderla fin sulla piazza di Santa Caterina, la carbonella!»

  La cucina era bianca, col lavello di marmo e i fornelli in muratura, piastrellati di bianco e blu; i vetri della credenza erano tappezzati di carta a fiori, portavano infilate una serie di cartoline illustrate e un’immaginetta di Padre Santo.

  La porta finestra dava su un terrazzino che affacciava nel cavedio, sul terrazzino il casotto del cesso e una quantità di vasi di rosmarino, basilico, maggiorana, salvia e qualche geranio.

  Tutte le cucine del palazzo, del resto, come anche quelle del palazzo di fronte e quelle del palazzo di fianco, affacciavano in quel cavedio oblungo che sembrava l’ombelico dell’isolato, il quale funzionava tanto come via di commerci tra un piano e l’altro (bastavano uno spago e un canestrino per scambiarsi giornali, sale, zucchero e biglietti) quanto come centro di conversazione tra i vari esemplari di umanità che abitavano quel piccolo mondo, chiuso in se stesso.

  Al fondo di quel pozzo verdeggiava un pergolato di vite americana, sotto di esso si intuivano i tavolini e il campetto da bocce dell’osteria dei Tre Scalini che, insieme al portone e a un magazzino, occupava l’intero pian terreno del palazzo.

  In quel cortiletto, nelle belle giornate, oltre che a bocce si giocava a carte e le grida degli avventori, complete di bestemmie, parlar grasso e tutto il resto, giungevano allegramente fin su in alto, come risucchiate da un imbuto.

  Quel benedetto cavedio, insomma, aveva l’acustica perfetta di un teatro greco che a farlo apposta non ci sarebbero mai riusciti. Così, a finestre aperte, bastava tacere e tendere bene l’orecchio per acchiappare i discorsi che si tenevano, tanto per dire, nella cucina di due piani sotto oppure sopra.

  Per questo gli inquilini di quei vetusti palazzi, che sembravano sorreggersi a vicenda, sapevano tutto, o quasi tutto, dei loro vicini di casa. Perfino i respiri che tiravano, giusto per non dire altro.

  Gli unici che sbraitavano, cicalavano e cantavano senza curarsene, attenti solo ai punti delle partite, erano proprio gli avventori dell’osteria i quali, benché venissero regolarmente intercettati da un certo numero d’orecchie attente, di quel che si diceva e si faceva al di sopra del pergolato non ne avevano la più pallida idea, così come gli uomini, qua sulla terra, ignorano quel che si dicono i santi in paradiso.

  Brigida esibiva una dentiera nuova di zecca, che pareva di due taglie troppo grande, e siccome non era ancora avvezza a tenerla in bocca, sfoggiava un continuo e impietrito sorriso che sembrava la réclame della Richard Ginori.

  Landa, più giovane, paffutella e dall’occhio acuto, si aggiustò il cerchietto in finta tartaruga che le fermava i capelli grigi, si strinse al collo lo scialletto, e sorrise a sua volta, con garbo.

  «Complimenti! Bisogna dire che vi hanno fatto proprio un bel lavoretto, cara la mia Brigida, adesso sì che avete il sorriso della Chlorodont, altro che micce!»

  Ma tornò subito seria e lasciò andare un sospiro accorato, col quale ci si sarebbe potuta gonfiare una mongolfiera.

  «Io invece, cara la mia Brigida, ho ben poco da ridere, poveretta me. Ma mi raccomando, eh, che non se ne faccia menzione…» e si fece un segno di croce sulle labbra.

  «Figuratevi se parlo! Ma perché dite così, cosa vi capita?»

  «Cosa mi capita? Quella testa di rapa di mio figlio Ermete, mi capita!» Landa alzò gli occhi al cielo con aria ispirata. «Che se quel giorno io e la buonanima di mio marito fossimo andati a fare un giro invece che a dormire, adesso avrei la metà dei pensieri che ho.»

  Brigida sospirò cortese e comprensiva, che tanto il sorriso non glielo levava più nessuno, nemmeno a scalpellate.

  «E va ben, ma sono i giovani del giorno d’oggi. E poi eravate così contenta…»

  «Ero contenta perché credevo d’averlo sistemato, d’essermelo levato dai piedi, quel deficiente! E invece…»

  Brigida si sporse attraverso il tavolo, riducendo la voce a un sussurro.

  «E invece?»

  

Era puro teatro quel che stava facendo, perché le urla, due giorni prima di buon mattino, le aveva sentite tutte, e le recriminazioni di Landa pure, così come le avevano sentite tutti gli altri inquilini. Anzi, a un certo punto doveva perfino esserci scappata una padellata sulla testa di Ermete o qualcosa del genere, perché si era udito un rumore secco ma sonoro, come a battere il manico di una scopa su una latta.

  Poi silenzio di tomba.

  Coprifuoco.

  Fino alle quattro del pomeriggio, quando Landa era uscita e la radio di Ermete aveva cominciato a spandere canzonette a tutto vapore.

  E a tutto volume.

  Al punto che dopo un paio d’ore di quella cura, Rosa la sarta, dal terrazzino di sopra, aveva rotto gli indugi ed era insorta con le saette negli occhi e le mani sui fianchi.

  «Basta, Ermete! Disgraziato! Cosa credi, di avercela solo tu la radio? Guarda che ce l’abbiamo tutti e se ci va ci accendiamo la nostra!»

  Nessuna risposta, nessuna variazione di volume.

  «Se mangi pane a tradimento sono affari tuoi e di tua madre, ma almeno abbi un po’ di rispetto per chi lavora!» rincarò Rosa.

  «Ben detto!» era arrivato subito da un’altra finestra. «È una vergogna! Manco fossimo al mercato del pesce.»

  «Oltre tutto ci sono anche degli ammalati, qui!» aveva dato man forte un’altra inquilina, dal palazzo di fronte.

  «Ammalati? Ma se non c’è rispetto neanche per i morti!» aveva strillato un’altra, e non si capiva a quali morti si riferisse, perché nei dintorni non ce n’era neppure uno.

  Allora, di fronte a tal spiegamento di forze, Ermete aveva abbassato un poco il volume e si era affacciato alla finestra coi capelli lucidi di brillantina e la faccia da schiaffi, cantando provocatoriamente verso Rosa: «Perché per ogni riccio tiene nu capriccio… la donna riccia non la voglio no».

  Ma Assunta, dal palazzo di fianco, senza dire né ai né bai, con un tiro a effetto degno di una vera professionista, lo aveva centrato in piena fronte con una molletta da bucato letale quanto una pallottola.

  «Belin che male!» aveva strillato Ermete, portandosi le mani alla testa. «Mi esce il sangue. Sono ferito!»

  «Va’ là che le bestie gramme non muoiono», aveva concluso l’Assunta.

  A quel punto la finestra di Landa si era richiusa con un colpo secco.

  Fine delle ostilità, radio spenta e silenzio di tomba.

«E invece quel somaro vestito e calzato», continuò Landa inviperita, «mi ha piantato la fidanzata da un giorno all’altro, così, d’emblée, e mi si è presentato di nuovo qui, a mangiar pane a tradimento!»

Ormai lo sapevano anche le pietre che Ermete, ventitré anni suonati, spalle larghe e vita stretta, glorioso ginnasta dell’Unione Sportiva Sestrese nella quale esauriva tutta la sua voglia di faticare, aveva cominciato a parlarsi con la figlia di un macellaio di Pontedecimo.

  E parla che ti parlo, la ragazza aveva finito per portarselo a casa.

  Nonostante la brillantina e l’aria da gagà, Ermete, che se voleva era anche capace di sembrare un gran bravo figliolo, era stato preso subito a ben volere dal macellaio, il quale, convinto che il ragazzo non trovasse lavoro per pura sfortuna, su due piedi lo aveva messo a lavorare nel proprio macello.

  Di più: per far contenta la figlia e risparmiargli il va e vieni da Sestri, lo aveva pure sistemato in una stanzetta che c’era nel retro, dove aveva piazzato per l’occasione una branda, una sedia e un vecchio comò.

  La latrina era quella del macello, cioè nel cortile.

  «Qui ci stai come un papa! E intanto fai la guardia, che non si sa mai», aveva deciso il macellaio, il quale in realtà voleva prender tempo, e capir bene di che pasta fosse fatto il giovanotto, prima di sbilanciarsi nel concedere la figlia.

  Naturalmente Ermete mangiava alla tavola del macellaio: colazione, pranzo e cena. Insomma, siccome il brav’uomo gli dava anche qualche soldo di paga, Ermete faceva pancia e tasca, come suol dirsi, e tutto sembrava andare a gonfie vele.

  A Landa perlomeno sembrava.

  Perché a Ermete invece non sembrava proprio.

  Anzi.

  E così il panciae tascaera durato da Natale a santo Stefano.

«Capite?» riattaccò Landa con gli occhi che mandavano lampi di tempesta. «E così adesso ce l’ho di nuovo qua a passare la giornata sul letto a guardare il soffitto, a leggere la Gazzetta dello Sporte a sagrinarmi5dalla mattina alla sera con le canzonette della sua belin di radio!»

  «E va ben, ma cosa ci volete fare? Dopotutto è vostro figlio», azzardò Brigida, più magnanima e sorridente che mai.

  «Cosa faccio? Faccio che se non mette la testa a posto e non si trova un lavoro, come l’ho messo al mondo ce lo cavo e…»

  In quel momento sul pianerottolo risuonarono tre colpi imperiosi, battuti col battacchio alla porta di fronte, cioè quella di Landa.

  Le due donne si fissarono per un attimo senza fiatare, poi Landa ruppe il silenzio.

  «Picchiano da me. E chi ci sarà? Ma dico io, a quest’ora!»

  Brigida diede un’occhiata veloce alla sveglia sulla credenza e al calendario attaccato al muro.

 

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L’autore

Renzo Bistolfi (Genova 1954) vive a Milano, dove lavora come manager in una società internazionale. Instancabile viaggiatore fai da te, non ha mai tagliato i ponti con la sua Genova e con Sestri Ponente, dove torna appena possibile a ritemprarsi dalla vita metropolitana. Appassionato di teatro, ha fatto l’attore in una compagnia amatoriale. Ha letto tutti i romanzi di Georges Simenon, che considera un vero maestro. Fra i suoi libri si ricordano: Il fantasma della palazzetta(Lampi di Stampa, 2010), I garbati maneggi delle signorine Devoto ovvero un intrigo a Sestri Ponente(Tea, 2015), Il coraggio della signora maestra(Tea, 2016), Le spedizioni notturne delle Zefire(Tea, 2019).

 

 

     

 

    

  •        “Lo strano caso di Maria Scartoccio ovvero, un brutto fatto di cronaca a Sestri Ponente
  •        Renzo Bistolfi”
  •        Editore: TEA
  •        Formato: EPUB con DRM
  •        Testo in italiano
  •        Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  •        Dimensioni: 694,92 KB
  •       Pagine della versione a stampa: 287 p.

 

 

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