Una donna inquieta, vittima di un matrimonio piatto e di un marito privo di attenzioni, cerca di fuggire alla sua triste quotidianità senza più aspettative. L’incontro fortuito con un uomo, in un bar, e la sua insolita richiesta le daranno la possibilità di sentirsi di nuovo viva e desiderata. Anche se in un modo che mai avrebbe immaginato.

La lama di un sole autunnale, appena uscito dalle nuvole, penetrò nel bar Duomo attraverso l’ampia vetrata e s’infranse contro la grande specchiera macchiata ai bordi. Si era materializzato all’improvviso, con una luce plastica, quasi sacrale. Per un attimo, per un solo attimo, nel locale si generò un silenzio claustrale.

La signora Daniela Crociani, da una decina di minuti, sedeva a un tavolino sorseggiando un aperitivo. Desiderava, senza riuscirvi, annegare in quel liquido certe apprensioni che stavano affollando la sua mente. Ma, come la risacca, queste ritornavano annullando il piacere di quella straordinaria mattinata trascorsa a far compere: il tailleur grigio, le scarpe nere con il tacco alto e tutta quella biancheria intima. Ricordava le facce stupite delle commesse, quando aveva insistito per indossare immediatamente i capi acquistati. Poi il gesto teatrale di lasciare lì tutto il vecchiume. Quei quattro stracci che Giulio, suo marito, le aveva a fatica comprato.

Si chiese, ancora una volta, come avesse potuto sposare un uomo così mediocre. La colpa era tutta di sua madre Argenia. Fu lei a insistere che lo doveva sposare. Un impiegato, non un contadino come era toccato a lei, quell’Erardo Maggi proprietario di terre sui colli pavesi: qualche vigneto e campi da lavorare e gettarci sudore e fatica. Aveva avuto quattro maschi: Antero, Gottardo, Meneo e Oddone, mandati a lavorare dietro al padre, appena terminate le elementari. Quando finalmente, con non poca fatica, era nata, sua madre scelse per lei il nome di Daniela. Era la figlia tanto desiderata. Una bambina, per riscattarla da un matrimonio senza amore, consumato in fretta. Mai una parola, una carezza, un bacio; era solo un rivoltarsi nel letto per poi mettersi a russare. Così per Argenia era iniziato un periodo bellissimo, ma avversato ogni giorno dalle sfuriate del marito che non vedeva di buon occhio tutto il lavoro sprecato dietro alla figlia; per una mentalità contadina come la sua, erano energie mal riposte; una femmina non gli sarebbe mai venuta utile. La madre aveva fatto di tutto per crescerla nel migliore dei modi. L’aveva fatta studiare, una vera fatica. Ottenuta la licenza elementare per il padre era più che sufficiente: guardasse i suoi fratelli. Ma Argenia era testarda e lei aveva proseguito. Riuscì a farle terminare le medie. Daniela cresceva bene e si era fatta una donnina: tanto bella che molti si chiedevano cosa c’entrasse con i suoi fratelli, brutti e sempre sporchi, le mani addosso per un nonnulla, e poi le male parole tra loro, e i vestiti come stracci addosso a uno spaventapasseri. Poteva, la sua Daniela, essere da meno delle altre sue compagne, che avevano qualche possibilità più di lei? Così sua madre le confezionava gli abiti mentendo sul prezzo della stoffa: una volta era un regalo di sua sorella Noemi, un’altra un omaggio del mercante. Circostanza che suscitava nel padre moti di gelosia che esplodevano in una serie di ingiurie, offese e umiliazioni a cui Daniela era costretta ad assistere.

Per il Carnevale, Argenia le aveva confezionato un abito splendido, da vera regina. Un giorno di metà febbraio, aveva tirato fuori il vestito e gliel’aveva fatto indossare; sarebbero andate a Voghera, dove c’era una sfilata di maschere.

«Tu vincerai, piccola mia» aveva detto mentre, intenta ad apportare gli ultimi ritocchi, osservava l’immagine della figlia incorniciata nel grande specchio ovale. «Ecco, è perfetto.» aveva continuato rialzandosi con uno scrocchio delle ginocchia, mentre Daniela rimirava la sua figura opposta e speculare.

Avevano preso la corriera a Castellar Guidobono e, dopo meno di un’ora, erano a Voghera. In piazza Vittorio Emanuele, dietro l’abside maggiore del Duomo, era stato allestito il palco per la sfilate delle mascherine. La più votata avrebbe ricevuto la targa con dedica: “Carnevale di Voghera 1950 1° classificato. La più bella mascherina”. E un premio di cinquecento lire in libri, da spendere presso la cartoleria “di Vittorio, in piazza Vittorio Emanuele 13”.

I ricordi lentamente scemarono, come l’euforia e l’ardire che l’avevano accompagnata durante gli acquisti, sciogliendosi come i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, facendo riemergere dubbi e preoccupazioni. In che modo avrebbe potuto onorare le cambiali che aveva firmato? Guardò l’antico orologio appeso alla parete, segnava un quarto a mezzogiorno. Doveva incamminarsi ma non ne aveva nessuna voglia. Il solo pensiero di tornare a casa e mettersi ai fornelli non la incoraggiava ad alzarsi. E poi Giulio non sarebbe tornato per il pranzo, quindi che fretta c’era. Voleva o non voleva farsi vedere in giro, gustare quel momento tanto atteso? Aiutandosi con uno stuzzicadenti, delicatamente, trafisse un’oliva contenuta in una piccola terrina, e la portò alla bocca, mentre il suo sguardo spaziava schivo lungo il locale. Fu nel riportarlo sul piano del tavolino che vide quell’uomo, emerso dal cono d’ombra che lo aveva nascosto alla sua vista. Teneva le gambe accavallate facendone dondolare una a mo’ di pendolo, un gomito posato sopra il piano e il mento appoggiato sul pugno chiuso, mentre gettava larghe boccate di fumo. Aveva capelli brizzolati ben pettinati e un abbigliamento elegante. Chissà da quanto tempo mi osserva, pensò la signora Daniela Crociani portandosi il bicchiere alle labbra, assaporando così l’ultimo goccio del suo aperitivo. L’uomo la fissava con uno sguardo insistente, frugandole tra le pieghe della gonna; lo sentiva salire su per le cosce e piantarsi nel ventre caldo. Imbarazzata, decise d’uscire. Non sopportava quelle occhiate lascive. Depositò il bicchiere, si alzò, sistemò la mantella di lana sulle spalle facendola roteare nell’aria. Si diresse alla porta senza degnare di uno sguardo quell’uomo tanto insolente.

Una ventata d’aria fresca le sferzò il viso arrossato liberandola da un leggero annebbiamento. S’incamminò lungo i portici dagli ampi archi e le colonne slabbrate, tacchettando sul pavimento di pietre trapezoidali. Sostò davanti a un rarefatto guscio di cristallo. Guardò la sua immagine riflessa da un immacolato balenio di volpi invernali, che sembrava rivestirla. Si vide come aveva sempre sognato, se le circostanze della vita avessero preso una piega diversa. Oggi era solo il primo passo, pensò, e si sentì gratificata. In quel momento d’abbandono, ebbe la netta sensazione di essere seguita. Fece un passo indietro, senza voltarsi, tenendo lo sguardo fisso all’immagine che, modellata nella vetrina, si stava ingigantendo. Era l’uomo del bar. Sentì i muscoli del collo irrigidirsi, ma ostentò indifferenza e proseguì. Avvertì nuovamente lo sguardo penetrante che saliva lungo le gambe e si piantava sulle ampie curve dei glutei sodi. Non voleva apparire una donna disposta a lasciarsi abbordare dal primo venuto, camminando, tuttavia, sbirciava furtiva nelle vetrate luminose dei negozi che si aprivano a intervalli, nello spessore smorto dei muri. Fu quando, inavvertitamente, un tacco finì nella fessura di una pietra del selciato, che un braccio forte la trattenne e le evitò la caduta. Questa determinazione le diede una strana sicurezza, la stessa che provava da piccola, quando suo padre la stringeva tra le braccia robuste.

«Che sventata» disse, scegliendo la strada della remissività.

«Si è fatta male?» chiese l’uomo con una voce profonda, una voce abituata a impartire ordini. «Aspetti. Mi faccia vedere.»

Daniela puntò i piedi e sostenne che non si era fatta niente, non c’era da preoccuparsi, andava tutto bene. Fu allora che l’uomo le fece la domanda che mai e poi mai si sarebbe aspettata.

«Lei è una prostituta, per caso?» chiese come in un sussurro, stringendole ancor di più il braccio.

La signora Daniela Crociani spalancò gli occhi chiari per la sorpresa. Per un istante pensò d’ignorarla. Lo guardò imbarazzata e stupita per l’impertinenza. Osservò la mano grande, pelosa, che ancora le cingeva il braccio. Si divincolò con un movimento largo e deciso, e rispose come non avrebbe mai dovuto o voluto.

«No. Mi dispiace.» Ecco. Immediatamente quel verbo pesò come un macigno sulla sua moralità traballante. Non si spiegava perché mai avesse pronunciato quel “mi dispiace” dando così a quell’uomo, a quello sconosciuto, l’opportunità di pensare che gli sarebbe bastato mettere mano al portafogli, per aver accesso al suo corpo.

«Mi perdoni. Sono stato davvero ineducato. Ma è più mio il rammarico. Mi creda. Vede, se lei fosse stata una… avrei avuto la certezza di poter stare in intimità con lei. Mi capisce vero?»

Daniela Crociani non disse nulla. Era affascinata dall’uomo, dalla sua voce così calda e modulata, come quella di uno speaker radiofonico.

«Lei è una donna stupenda, affascinante, così elegante, così fine. Che stupido averlo pensato, anche solo per un attimo… ma come ho potuto?» E scosse la testa sconsolato. Gli occhi di lei esitarono un momento tra l’imbarazzo e la lusinga, preferendo, alfine, quest’ultima.

«Potrà mai perdonarmi per essere caduto in un madornale abbaglio?» insistette lo sconosciuto, prendendole la mano bianca e affusolata con la piccola vera all’anulare. Appoggiandola nella sua – ampia spessa, tiepida e leggermente sudata – la signora Crociani abbandonò la propria come se non le appartenesse.

«Oh! Non fa nulla. L’ho già perdonata. E poi ha evitato che cadessi.» E mentre parlava ebbe chiara, chissà per quale assonanza, la visione del tinello di casa, con la poltrona e la lampada. Sotto la luce fievole, un cranio lucido; quello di Giulio che leggeva La Gazzetta dello Sport. Le dita dell’uomo sfiorarono la vera.

«Sposata?» La signora Daniela Crociani ritirò la mano come se volesse recuperare un oggetto del cui possesso si fosse temporaneamente dimenticata. Per darsi un contegno, sistemò la camicetta di seta sulla scollatura. Capì che, se fosse rimasta un attimo ancora, avrebbe compromesso la sua fragile integrità. Si avviò, ma lui la seguì e le domandò a bruciapelo «Così. Per pura curiosità. Di quanto sarebbe stata la sua richiesta?»

Che quell’uomo conoscesse le profondità dell’animo umano non era in discussione, come il fatto che la signora Crociani avesse bisogno di nuovi orizzonti cui guardare, ma non avrebbe mai creduto fosse così evidente. Si trovava davanti a un bivio, con due strade, di cui una conduceva alla mediocrità, mentre l’altra, una volta percorsa, portava a una nuova vita. Lo sguardo dell’uomo si fece serio, intenso, stava guardando nella profondità del suo animo. Percepiva la sua coscienza macchiarsi e perdere la limpidezza. Ebbe una visione del suo corpo bianco, ancora giovane e piacente, nudo e disteso su un letto. E lo sconosciuto glielo accarezzava pigramente. Il suo viso, da principio, era casto e riflessivo, come di chi legge con attenzione un libro. Ma poi la mano scendeva sui seni prorompenti e sul ventre piatto. E ancora più giù, sul pube che nereggiava tra le cosce bianche appena divaricate. Inginocchiato, lui cominciava a baciarglielo con maggiore avidità. Lentamente l’immagine sbiadì per lasciare il posto a quella di Giulio dietro la scrivania, chino su dei fogli, con il cranio nudo e pallido, era intento a eseguire le somme di una lunga catena di cifre che non volevano quadrare. E per la prima volta, quella visione, le fece misurare l’ampiezza del suo sacrificio, fatto di scope, strofinacci e bucati. Disse così una cifra, in un soffio di labbra, arrossendo e vergognandosi al contempo.

«Va bene» rispose l’uomo con uno sguardo indulgente. La signora Daniela Crociani spalancò gli occhi per la sorpresa. Credeva, sparando una cifra tanto alta, di poter salvaguardare la sua moralità vacillante.

L’uomo, con improvvisa familiarità, le cinse la vita da sotto la mantella blu. Questa circostanza le permise di sentire il profumo acre del dopobarba. «Mi piacciono le donne imprevedibili e decise.» E sentì la stoffa arruffarsi, sotto la spinta forte della sua mano.

«Venga. Andiamo.» E la spinse verso una stretta viuzza che finiva con una scala di pietra alla cui sommità si leggeva, in un verde neon, la scritta: “Pensione Ducale”.

Lei guardò la scalinata ed esitò. L’uomo, con una leggera pressione, la guidò verso il primo gradino. Posandovi il piede le sembrò di averlo messo dentro un acquitrino dove, lentamente, stava sprofondando. Lui la sospinse verso il secondo e il terzo, un gradino dopo l’altro. A ogni passo, mentre percepiva la calda presa della mano attraverso il tessuto, la sua probità le sussurrava alle orecchie. Una volta giunti in cima, la fece scivolare via. La signora Daniela Crociani trasse un profondo sospiro. Era come se, fino a quel momento, la leggera pressione attraverso il tessuto, le avesse impedito di respirare.

L‘uomo alla reception alzò il viso affilato dal foglio delle parole crociate e, senza degnarli di uno sguardo, staccò da un quadro numerato una chiave con un grosso ciondolo di metallo e gliela consegnò dicendo: «Vi registro più tardi. Entrambi abbiamo ben altro da fare.»

La stanza era ordinata e odorava di sapone da bucato, testimonianza di pulizia, pensò la signora Crociani. Il letto era matrimoniale. Ampio, con la spalliera alta di legno impiallacciato. Le frange del copriletto chiaro, come salici lungo i fiumi, pendevano dai due lati. Una luce tenue filtrava attraverso le persiane socchiuse. Sentì la mano che la sospingeva all’interno e la porta richiudersi alle sue spalle. Le parve come se fosse scoppiato un tuono poderoso. L’uomo accese la lampada sistemata su un comodino.

«Eccoci» disse sedendosi sul bordo del letto che emise un sommesso cigolio. «Venga qui» e batté la mano sul copriletto ricamato. Lei sentì le gambe molli, e ritornò a quell’acquitrino, dove ora affondava fino alle ginocchia. L’uomo allungò una mano e la attirò a sé. Le fece scivolare sul letto la mantella di lana. Passandole le dita tra i capelli sottili e morbidi, le accarezzò la nuca calda. Lei si stupì, non le dava fastidio, eppure non lo sopportava quando lo faceva Giulio. Le prese il mento e la voltò verso di sé. Aveva occhi scuri, incorniciati da piccole e sottili rughe. L’uomo si sporse leggermente in avanti. Non aveva ancora invaso quel sottile e invisibile confine entro il quale stabiliamo il nostro privato, l’intimo più profondo. Ma stava avvicinando sempre più le sue labbra a quelle di lei, che le dischiuse socchiudendo gli occhi. Restò così, come se le fosse appena sfuggita dalla bocca una bolla iridescente destinata a infrangersi di lì a poco. Non si fece attendere, le labbra si chiusero con forza sulle sue. La lingua, senza difficoltà, si aprì un varco fra le membrane cedevoli. Penetrò così in una cavità umida dal lieve sapore salato. La lingua della signora Daniela Crociani continuava a restare acquattata sul fondo. L’uomo posò una mano sul tessuto morbido della gonna, poco sopra il ginocchio, la strinse appena e la stoffa scivolò sulla sottesa elasticità della calza. La signora Daniela Crociani s’irrigidì. L’uomo ritirò rapidamente la lingua, provocando una specie di risucchio acqueo.

«La prego» disse lei, spingendogli via la mano dalla gonna. Si alzò e andò alla finestra.

«Ah! Capisco. Forse vuole vedere prima i soldi. Ha ragione.» Sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Depositò dieci banconote a mo’ di ventaglio sul comodino, perfettamente allineate come carte da gioco.

«La scongiuro. È già così difficile per me…» Voltò il viso verso la finestra, accarezzò con le dita il ricamo della tenda. Guardò il piccolo cortile, dove un gatto nero se ne stava tranquillamente acciambellato, assaporando la quiete pomeridiana.

«Non ha mai tradito suo marito?»

«Mai!» E pensò ad Amedeo. Quanto l’aveva corteggiata. Desiderata. Forse, se avesse ceduto allora, la sua vita avrebbe preso un’altra piega.

«Su, non faccia la bambina. Immagini che io sia… suo marito. Le viene più facile così?» La signora Crociani vide il marito disteso sul letto, con quegli orrendi occhiali rotti, tenuti assieme da un cerotto. E quel vizio di fumare e lasciare nel posacenere orribili e puzzolenti cicche. «E poi guardi», proseguì l’uomo, «averle offerto dei soldi, è stato solo un capriccio. Se avessi avuto più tempo, se l’avessi conosciuta in un’altra occasione, le avrei fatto la corte. E alla fine, chissà… non è mia abitudine pagare le donne.»

La signora Daniela Crociani prima di girarsi, diede un’ultima occhiata al gatto, mentre s’ingobbiva pigramente.

«Cosa vuole che faccia, ora?»

«Si spogli. Ma molto lentamente, la prego… faccia conto che io non esista.» Timidamente si mosse verso la stretta e alta specchiera, incastrata tra le ante dell’armadio. Contemplò la sua immagine riflessa e ne restò nuovamente lusingata. Si fece una promessa. Mai più avrebbe indossato gli orribili abiti acquistati sulle bancarelle, rabberciati poi alla meglio alla macchina per cucire, per farli apparire meno dozzinali. Guardando intensamente il suo doppio, cominciò a spogliarsi. L’uomo seduto sulla poltroncina iniziò a manifestare una certa agitazione. La signora Daniela Crociani lo sentì alzarsi e lo vide apparire riflesso nel cristallo. Percepì le sue calde mani che si posavano delicatamente lungo i fianchi sottili. Lo vide mentre si chinava a baciarle la schiena bianca e levigata. Una minuscola piega stirò l’angolo delle labbra a rilevare una lieve sensazione di solletico. Vedi, pensò, piegando leggermente la testa all’indietro, ti stavi arrovellando il cervello per come avresti potuto onorare quell’impegno ed eccola la soluzione.

«Perché sorride?» domandò l’uomo mentre la adagiava sul letto, noncurante di una risposta che mai giunse. E iniziò ad accarezzarla con ardore. Mentre lei, voltata la testa, guardò le banconote sistemate sul comodino e socchiuse gli occhi, stirando le labbra in un sorriso compiaciuto.

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