”Un romanzo che, nel suo finale del tutto imprevedibile, è un omaggio alla grande letteratura e, nello stesso tempo, un racconto nitido che si muove dentro uno scenario torbido e sa guardare oltre l’ignoto
Rendere semplice e invisibile una struttura articolata e congegnata come un ingranaggio, fare apparire fluida e naturale una scrittura che è invece frutto di un paziente labor limae: questo è ciò che dovrebbe scaturire da un romanzo che ambisce a essere letto ben oltre l’iniziale curiosità e pubblicità sui social e nei giornali. Roberto Cotroneo ha espresso entrambe queste caratteristiche in Loro, il suo nuovo romanzo che rende omaggio al genere gotico molto caro a lui, quello del bene e del male componendo una raffinata storia di fantasmi che fa pensare a “Il giro di vite” di Henry James.
La trama del romanzo
“Venni a sapere di quell’offerta di lavoro da un’amica di mia madre. Era l’estate del 2018 e avevo deciso che non mi sarei più iscritta al quarto anno di medicina alla Sapienza”.
Inizia così il diario di Margherita B., redatto in Australia dove si è recata per completare gli studi universitari, che racconta la sua esperienza come istitutrice di due gemelle di dieci anni chiamate Lucrezia e Lavinia. Le gemelline vivevano insieme ai loro genitori Umberto e Alessandra in una villa di vetro unica e originale senza muri esterni, progettata da un celebre architetto, circondata da un parco su di una collina situata alle porte di Roma. Una casa lunga, bassa, a un piano, che in realtà erano due, perché il soppalco era un piano superiore, di finestre e oblò che permettevano di inquadrare punti precisi della campagna. Una villa spettacolare considerato che da uno degli oblò della casa si poteva vedere la cupola di San Pietro, sopra la luce sospesa di Roma.
Margherita avrebbe dovuto insegnare le lingue straniere alle gemelline, già molto dotate e intelligenti, impartire lezioni di pianoforte a Lucrezia e perfezionare l’attività agonistica e l’equitazione di Lavinia verso cui la bambina aveva trasporto e talento. Due gemelle identiche tra loro, talmente uguali che anche i loro genitori stentavano a distinguere una dall’altra, che avevano dei codici e dei segreti tra loro dentro cui nessuno può entrare. Del resto i gemelli monozigoti sono un mondo affascinante, parlano in modi che nessuno può immaginare. Due “bimbe meravigliose”, lo stesso braccialetto al polso, bionde uguali, con la stessa pettinatura, gli stessi occhi azzurri, ma anche tanto inquietanti, presi dal padre.
Una villa in un “finis terrae”, un luogo ultimo, una costruzione sofisticata e artificiosa, che non ha niente di comune, di semplice, dove non entra il mondo, anzi appare come un “hortus conclusus”, un luogo autonomo, staccato e lontano dal mondo. Due gemelline bellissime, una famiglia apparentemente perfetta, ma mai fidarsi delle apparenze. “Le bimbe avevano il controllo di quanto stava accadendo”.
Come inizia
BLOM
196
Margherita B. si occupò delle gemelle Lavinia e Lucrezia Ordelaffi dalla fine di luglio alla metà di agosto del 2018. La stesura del diario ha richiesto poco meno di dieci giorni. La calligrafia, nitida e leggibile, non tradisce incertezze e questo mi sorprende perché nessuno, nella sua condizione, avrebbe potuto mantenere una tale lucidità.
In una lettera che accompagnava il testo, Margherita mi assicurava di non aver raccontato questa storia a nessuno, mi chiedeva di tenerla riservata, mi lasciava, però, la facoltà di sottoporre queste pagine a persone in grado di spiegare i fenomeni che accaddero in quelle settimane.
Le tre persone che hanno letto questo manoscritto sono state poi incapaci di aggiungere una sola parola e non sono mai tornate sull’argomento. Lascio alla sua competenza il beneficio del dubbio, ma so che è difficile accettare quello che viene raccontato.
Ho corretto poche frasi: qualche data errata, qualche riferimento inesatto. Nient’altro. Glielo affido con la speranza che la sua saggezza possa rischiarare le tenebre di questo orrore.
1.
Venni a sapere di quell’offerta di lavoro da un’amica di mia madre. Era l’estate del 2018 e avevo deciso che non mi sarei piú iscritta al quarto anno di medicina alla Sapienza. Nessuno in casa ebbe da ridire su quella mia scelta, o potrei chiamarla rinuncia. Quattro anni prima, invece, avevano avuto sí da ridire. Soprattutto mia madre. Quando annunciai che volevo iscrivermi a medicina, mi rispose che riteneva quella facoltà del tutto inadatta a me. Mio padre non commentò: lui stesso si era laureato in medicina senza aver mai esercitato la professione di medico, e quindi poteva capirlo; ma io avrei voluto diventare una psichiatra e in quel momento pensavo che la mia vita sarebbe andata in quella direzione.
Lo penso anche oggi che scrivo da qui, dall’Australia, dove ho ripreso gli studi malauguratamente interrotti. Tuttavia, quando mi iscrissi all’università in me si insinuò subito il dubbio che le rimostranze di mia madre verso la scelta di diventare un medico avessero un qualche fondamento. Lei mi avrebbe voluto pianista. L’avrei voluto anche io, ma mia zia, che aveva studiato con Vincenzo Vitale al San Pietro a Majella, aveva sempre detto che non avevo abbastanza costanza e che le mie mani erano troppo piccole. Così, anche per un dispetto alla sorella di mia madre, la persona della famiglia che piú detestavo, mi diplomai al Conservatorio di Santa Cecilia, con tutte le mie mani piccole e la mia incostanza.
Fu per questo, per l’incertezza che gravava sulla mia esistenza, che quando mi presentai al colloquio ero agitata. Al punto che non ero riuscita a trovare la strada che portava alla villa. Avevo seguito la via principale, perdonate la necessaria vaghezza, ma dopo qualche chilometro di statale a doppia corsia1.Venni a sapere di quell’offerta di lavoro da un’amica di mia madre. Era l’estate del 2018 e avevo deciso che non mi sarei piú iscritta al quarto anno di medicina alla Sapienza. Nessuno in casa ebbe da ridire su quella mia scelta, o potrei chiamarla rinuncia. Quattro anni prima, invece, avevano avuto sì da ridire. Soprattutto mia madre. Quando annunciai che volevo iscrivermi a medicina, mi rispose che riteneva quella facoltà del tutto inadatta a me. Mio padre non commentò: lui stesso si era laureato in medicina senza aver mai esercitato la professione di medico, e quindi poteva capirlo; ma io avrei voluto diventare una psichiatra e in quel momento pensavo che la mia vita sarebbe andata in quella direzione.
Lo penso anche oggi che scrivo da qui, dall’Australia, dove ho ripreso gli studi malauguratamente interrotti. Tuttavia, quando mi iscrissi all’università in me si insinuò subito il dubbio che le rimostranze di mia madre verso la scelta di diventare un medico avessero un qualche fondamento. Lei mi avrebbe voluto pianista. L’avrei voluto anche io, ma mia zia, che aveva studiato con Vincenzo Vitale al San Pietro a Majella, aveva sempre detto che non avevo abbastanza costanza e che le mie mani erano troppo piccole. Così, anche per un dispetto alla sorella di mia madre, la persona della famiglia che piú detestavo, mi diplomai al Conservatorio di Santa Cecilia, con tutte le mie mani piccole e la mia incostanza.
Fu per questo, per l’incertezza che gravava sulla mia esistenza, che quando mi presentai al colloquio ero agitata. Al punto che non ero riuscita a trovare la strada che portava alla villa. Avevo seguito la via principale, perdonate la necessaria vaghezza, ma dopo qualche chilometro di statale a doppia corsia avrei dovuto prendere una piccola uscita che si biforcava ancora una volta. Al bivio il navigatore del telefono non vedeva piú nulla. Non sapevo da che parte andare, ero in una zona dove non c’erano cartelli stradali. Mi armai di pazienza, dimenticai il navigatore e dopo un chilometro di strada sterrata arrivai al cancello, senza sapere della meraviglia che mi attendeva.
Scesi, suonai il campanello, vidi una telecamera che mi inquadrava dall’alto e si aprí il cancello davanti a me. Risalendo in macchina non immaginavo che avrei attraversato un chilometro di parco, di circa novanta ettari, prima di trovarmi di fronte a un giardino meraviglioso che incorniciava, ancora piú in fondo, una villa che sembrava luccicare.
Era una villa senza muri esterni. Il luccichio veniva dai vetri che abbracciavano gli interni senza nasconderli, lasciandoli sospesi. Era il posto piú sorprendente che avessi mai visto, e non ero ancora neanche scesa dalla macchina, neanche avevo osservato bene. Credo ancora oggi di aver avuto uno sguardo adorante, tutto era troppo curato, troppo originale per non emozionarmi.
Non mi sarei stupita di un’antica villa, di un vecchio casale, o persino di una dimora che per magnificenza poteva considerarsi quasi una reggia. Conoscevo posti ricchi e prestigiosi, ma una villa così era uscita dalla mente di un genio. Ancora oggi mi è difficile descriverla, non riesco a immaginarla tutta, a spiegare come fosse la facciata.
Cosa la rendeva unica? Le vetrate che all’imbrunire diventavano dei dipinti metafisici? Oppure l’ordine dentro la casa, ostinato, maniacale? O ancora la biblioteca moderna e lo studiolo antico che si poteva scorgere nell’ala sud, come un olio fiammingo dentro una mostra di opere di Anselm Kiefer?
Sul momento vidi questa casa lunga, bassa, a un piano, che in realtà erano due, perché il soppalco di fatto era un piano superiore, di finestre e di oblò che permettevano di inquadrare punti precisi della campagna. Peraltro neanche mi ero resa conto di essere su una collina poco pronunciata, che dominava il parco con dolcezza. Da uno degli oblò della casa, ma questo lo scoprii la prima notte in cui dormii da loro, si poteva vedere la cupola di San Pietro, sopra la luce sospesa di Roma: brillava come il pezzo di un presepe, come una statuetta piú bianca delle altre.
Quando arrivai la casa era spenta. La luce entrava e non usciva, i vetri erano quasi specchi. Alessandra Brandi mi venne incontro: aveva un vestito bianco di lino grezzo. Era a piedi nudi. Non usciva dalla casa, ma veniva dalla parte di giardino dove pensai ci potesse essere una piscina. I riflessi d’acqua appartenevano, invece, a un laghetto artificiale. Lungo e stretto, in ombra, circondato da alberi rari ed esotici.
Quella donna sorrideva, era elegante e leggera nel suo modo di porsi, proveniva da una nobile famiglia di origini senesi. Se prima di entrare nella villa pensavo con un certo distacco che in quel momento della mia vita sarebbe stato utile accettare un impiego di quel genere, dopo i primi minuti ebbi la paura di non ottenerlo, tanto mi piaceva quel luogo, tanto lo desideravo. E già mi rattristava pensare al momento della giornata in cui sarei stata congedata per ritornare alla mia casa.
«Mio marito non è a Roma» mi disse Alessandra, «lui lavora a Londra».
Mi guardava negli occhi, aveva tra le mani la mia lettera di referenze, e mostrava una cortesia rara. Lesse le referenze in silenzio, poi per parlarmi posò i fogli.
«Dunque, vuole diventare un medico…» disse sorridendo.
«A dire il vero, non so ancora se continuare gli studi. Sogno un lungo viaggio in Oriente».
«Sarebbe un peccato lasciare».
Risposi qualcosa di banale, del tipo: «Mi piace aiutare gli altri». Ma capivo che Alessandra doveva aver già deciso. Le mie referenze la interessavano assai poco.
«Sì, contessa, mi prendo una pausa, e poi deciderò…»Venni interrotta: «Io sono Alessandra, mi chiami per nome. Anche mio marito Umberto potrà chiamarlo per nome».
Poi alzandosi, mi invitò a seguirla: «Allora, Margherita, fra poco il giardiniere arriverà con le bimbe, così potrà conoscerle. Dopo le mostrerò la sua stanza.
2.
Passeggiammo per il parco. Venni informata da Alessandra delle mansioni che avrei dovuto assolvere. Era arrivato il momento di far seguire le gemelle, Lavinia e Lucrezia, da una persona che insegnasse loro due lingue e le aiutasse in un percorso di formazione piú rigoroso delle amate scuole pubbliche che i genitori avevano deciso di far loro frequentare.
Inoltre avrei impartito io stessa le lezioni di pianoforte a Lucrezia, ma capii presto che non ce n’era alcun bisogno. Lavinia invece era refrattaria a ogni sorta di educazione musicale e per quanto Alessandra ne fosse dispiaciuta, decidemmo che avrebbe perfezionato l’attività agonistica e l’equitazione, verso cui aveva trasporto e talento.
Per avere solo dieci anni erano già entrambe molto dotate. Il motivo della mia assunzione fu quello di ovviare, prima che «fosse troppo tardi», alle lacune della scuola media inferiore, che Umberto considerava un obbrobrio: a sentir lui avrebbe rovinato le bimbe, togliendo loro qualsiasi suggestione, creatività, entusiasmo. Escluse le soluzioni rappresentate da costose scuole private, sulle quali il giudizio di Umberto era pari a quello sulle pubbliche, se non addirittura peggiore per la futile ostentazione di ricchezza che comportavano, un moderno precettore – se si vuole precettrice – era apparsa la via di mezzo accettabile per quei genitori che avevano fatto della normalità un imperativo. Anche se, a cominciare dalla villa, non c’era niente di normale nella loro esistenza e nel loro modo di vivere.
Neanche mi accorsi che erano passate due ore, e ancora passeggiavamo per il giardino. Le bimbe non erano arrivate. Gaetano, il giardiniere che alle volte faceva da autista, con moderazione «per via di un incidente che ebbe da giovane» di cui non chiesi altro, aveva mandato un messaggio avvertendo che le bambine si erano fermate per un altro giro a cavallo; avevano finalmente potuto montare Leo, un purosangue nero dal carattere non facile. Sembrava che Leo fosse diventato mansueto e avesse smesso di imbizzarrirsi: «Così la principessina Lavinia si era impuntata di farlo sellare e cavalcarlo», come scrisse Gaetano.
Peraltro Leo era un animale meraviglioso, un cavallo gallese fiero e possente: sarebbe stato portato in villa, assieme agli altri cavalli, entro pochi giorni. Mi rassegnai a non incontrare le bambine per quella volta. Mi domandavo come Alessandra potesse aver deciso di assumermi senza capire se c’era anche una iniziale forma di empatia tra me e le figlie. Alle volte si intuisce se una persona ha una capacità di comunicare con l’infanzia, o se invece c’è qualche difficoltà. E poi i bambini scelgono: hanno simpatie e antipatie. Ero certa che non avrebbe preso decisioni prima di farmi incontrare le figlie. Ma andò diversamente.
«Umberto arriva sempre con l’ultimo aereo del venerdì sera. Io stessa, quando è possibile, lo vado a prendere all’aeroporto. Ma potrebbe anche accadere che lo faccia lei, Margherita, portando con sé Lavinia e Lucrezia. Lavinia ha una passione per gli aerei, ormai ripete sempre che vuole diventare un pilota di aerei. Ama gli aeroporti, ci vivrebbe».
«E Lucrezia?» chiesi.
«Eh, Lucrezia, lei vuole diventare pianista. Lo ripete da quando è piccola. In realtà dovrebbe intraprendere la carriera militare, per quanto è determinata, ma all’apparenza sembra la piú remissiva delle due. E invece è un generale» e dicendo questo Alessandra scoppiò in una risata: «D’altronde è nata per seconda, ed è la sorella maggiore, in tutto e per tutto».
Risi anche io. «Si assomigliano?»
«Le vedrà. Sono identiche. Alle volte neanche noi riusciamo a distinguerle. Mio marito e io abbiamo capito da subito che avere due gemelle significa, come dirle, condannarsi a restare fuori…»
«Restare fuori?»
Esitò: «Sì, hanno dei codici, ci sono dei segreti tra loro, tra Lavinia e Lucrezia, dentro cui non entra nessuno, e non oggi che hanno già dieci anni, anche quando ne avevano soltanto due, ed erano bimbe bimbe e neanche parlavano bene. I gemelli monozigoti sono un mondo affascinante: parlano in modi che neanche può immaginare».
Alessandra aveva cambiato sguardo in modo impercettibile. Lo penso oggi, qui, mentre scrivo sul quaderno, ma non so se lo pensai in quel momento. Allora scambiai quell’incertezza della voce per una pausa, per un rallentamento normale, oggi è diverso: oggi sento ancora quelle parole come una stranezza, una stranezza senza stranezze, una porta che sbatte quando neppure c’è vento, anche se non dovrebbe accadere. Cercai di trovare una maniera positiva per ovviare a quella leggera incrinatura.
«Troverò il modo per capire i loro codici».
Alessandra sorrise: «Ne sono sicura. Lei sarà certamente piú brava di me, i genitori non devono mai essere complici dei figli. Anche se Umberto, da quando sono cresciute, sente di piú la loro mancanza, e tende a viziarle. Adesso le presento le persone che lavorano per noi».
Mentre entravamo nella villa da una delle porte laterali passò a un tono piú mondano.
«Amo questa casa, l’ha progettata Rem Koolhaas. Ma poi i lavori li ho seguiti io, fino all’ultimo infisso».
«Il risultato è una meraviglia» commentai.
«Lo sa che ogni settimana ho almeno dieci richieste? Studenti di architettura, saggisti, fotografi, tutti vogliono studiarla, disegnarla, fotografarla, non posso dire sempre di sí, lei può capire. Ma qualche volta un’eccezione la faccio, permetto loro di visitare gli interni».
Era la donna più bella e solare che avessi mai incontrato, rise di questo, ma con piacevolezza, non c’era alcun compiacimento, peraltro io neanche sospettavo che Koolhaas fosse uno dei piú importanti architetti del mondo. Non sapevo di trovarmi di fronte a un capolavoro dell’architettura contemporanea.
Conobbi Flora, la cuoca di Haiti che si muoveva sicura in una cucina che era il suo tempio d’acciaio. Conobbi Angelina, che veniva da Tivoli, ed era stata la governante della «signora Elena, la cara mamma di Umberto e del fratello Giovanni».
Entrammo nello studio. C’era una giovane donna, leggeva al computer. Appena ci vide entrare si alzò e ci venne incontro. Fui colpita dal modo che aveva di guardarmi, non ti staccava gli occhi di dosso. Camminava con un misto di indecisione e spavalderia.
Alessandra me la presentò: «Lei è la nostra Giulia, vigila su tutti noi».
Sembrava una ragazzina, anche se non lo era. Il suo sguardo era attento: una vigile diffidenza. Mi porse la mano in un modo formale e mi sorrise, ma era come avessi la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che mi stava studiando, qualcuno che cercava di capire chi fossi e in che modo avrei passato il mio tempo nella villa.
«Margherita si occuperà delle gemelle» la informò Alessandra.
«Una fortuna, Lavinia e Lucrezia sono due bimbe meravigliose» aggiunse Giulia con un sorriso.
«Lo sa che Giulia ha in mano il destino di questa casa?»
Ebbi un’espressione stupita. Forse turbata.
Giulia rise, questa volta, con piú convinzione: «Diciamo che cerco di risolvere tutti i problemi che ogni giorno nascono tra queste mura, anzi tra queste vetrate: dallo scorrere degli infissi alle infiltrazioni di umidità. Le case moderne sono peggio di quelle antiche».
«Se non fosse per lei, altro che Koolhaas» aggiunse Alessandra. «Lui ha fatto il progetto e poi i problemi sono tutti nostri. O meglio di Giulia». E dicendo questo la guardò complice: «Se non ci fosse lei a mandare avanti tutto, sa aggiustare anche i rubinetti, lo sa?»
Giulia si rivolse a me: «Non le creda. Io sono un soldato che esegue ordini. Sono felice che ci sia anche lei qui con noi e con le bambine. Alessandra mi ha detto che lei è una pianista».
Continua a leggere…
L’autore
Roberto Cotroneo giornalista, scrittore e critico letterario italiano. Ha studiato Filosofia all’università di Torino e pianoforte al Conservatorio di Alessandria. Dal 2004 è editorialista dell’“Unità” e collaboratore di “Panorama”. Nel 2003 esce per Mondadori Chiedimi chi erano i Beatles. Lettera a mio figlio sull’amore per la musica, un racconto sulla musica vista attraverso storie, ricordi, pensieri e grandi suggestioni. Ha curato il volume delle Opere di Giorgio Bassani per la collana di classici “i Meridiani” di Mondadori (1998) e ha scritto saggi su Fabrizio De André e Francesco Guccini. Alcuni suoi racconti sono pubblicati in varie antologie. I suoi libri sono tradotti in molti paesi del mondo. Finalista al Premio Campiello nel 1996 con Presto con fuoco. Nel 1999 vince il premio Fenice-Europa con il libro L’età
- Loro
- Roberto Cotroneo
- Editore: Neri Pozza
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Cloud: Sì Scopri di più
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 1,37 MB
- Pagine della versione a stampa: 192 p.
- EAN: 9788854523531. Acquista € 8,99