Elizabeth è la protagonista del racconto. Amante dei viaggi è in partenza per Mosca. Ma una voce alle sue spalle la fa trasalire. Chi è quell’uomo, e come fa ad essere lì? In un crescendo di emozioni conosceremo quella figura e il perché di tanta inquietudine

 

racconto

di

Jessica Cimino

   «E allora, dove se ne va di bello?»

La domanda improvvisa del tassista colse Elizabeth di soprassalto. Aveva la nuca poggiata contro il sedile posteriore dell’auto e la sua mano, oltre il finestrino aperto, si godeva la brezza del mattino, fendendo l’aria che scivolava veloce fra le dita.

   «Un po’ di qua e un po’ di là» rispose, volutamente vaga.

   «E cioè?» insistette curioso.

Dio che palle, ci mancava solo il tassista con la passione per le chiacchiere antelucane, pensò scocciata. Di solito si prestava volentieri alle conversazioni con gli sconosciuti: non sapeva mai dove sarebbero andate a parare, e il più delle volte quel casuale scambio di battute diventava una rocambolesca fonte di aneddoti che avrebbe poi ricordato in seguito. Ma alle sei di quella mattina, tutto quello che voleva era lasciarsi inghiottire dal manto d’asfalto che pareva planare verso l’alba, un occhio di fuoco ancora semiaperto tra la sfilza di bandiere che costeggiavano l’autostrada. Tese dal vento, il tricolore italiano alternato al blu europeo sfrecciavano davanti ai suoi occhi: ormai era vicinissima all’aeroporto. Vicinissima all’inizio del suo viaggio.

   «Mosca», rispose alla fine.

   «Ammazza, e ce l’ha messo un bel colbacco dentro a quel coso, sì? Che laggiù mica se sfiata dar caldo come qua». Non ricevendo alcuna risposta dalla sua passeggera, si azzardò a sbirciare dallo specchietto retrovisore per guardarla: stava facendo un bello sforzo per non alzare gli occhi al cielo, ma gli angoli della bocca erano sollevati in un sorriso appena accennato. Fu un incoraggiamento sufficiente per aggiungere, senza riuscire a trattenersi: «anche se da come sta a scoppià, nun credo c’entri altro. Guarda là, pare un supplì!».

Elizabeth sbottò a ridere. Alla fine ce l’aveva fatta, il tassista core de Roma le aveva strappato la prima risata della giornata. Abbassò lo sguardo verso il “coso”, il suo zaino forclaz da settanta litri che nei giorni di vagabondaggio in giro per il mondo, l’aveva fedelmente accompagnata contenendo di tutto, dalla tenda da campeggio all’abito da sera, schiacciato sul fondo dal peso dei suoi anfibi. Era la sua casa, lontano da casa. Si convinse a condividere con l’uomo alla guida qualche informazione in più: «È cosi pieno perché non mi fermerò solo a Mosca, ma da lì partirò per la Transiberiana. Su novemila chilometri si attraversano due inverni, un autunno e tre estati. Magari il colbacco me lo tengo in testa», gli disse sorridendo.

L’uomo fece un fischio di ammirazione. La ragazza poteva pure essere un po’ taciturna di prima mattina, ma sembrava sapere il fatto suo. «Nun se perda in mezzo alla steppa, che là de sicuro nun ce posso arivà cor taxi», le disse in un’ultima, canzonatoria, raccomandazione.

   «Farò del mio meglio», rispose lei divertita.

Nel frattempo, erano arrivati davanti al Terminal 3, dove accostarono. Pagò la corsa, fece per andarsene quando l’autista si girò verso di lei. «La Transiberiana è stato il viaggio della mia vita. Nun è comoda, nun è breve, la pianura siberiana nun è certo come na passeggiata nel parco dell’Appia, e con la gente in treno se parla quasi sempre a gesti. Na tragedia. Ma poi alla fine ce capivamo tutti, e a forza de vive in mezzo a tutta quella lentezza ho avuto er tempo de capì chi ero io, chi volevo esse. Lei questo lo sa già?».

Elizabeth rimase a guardarlo negli occhi, turbata.

   «Oddio e mo c’ho detto?», domandò disorientato.

   «Nulla, nulla. Mi dispiace, è solo che per un attimo mi ha ricordato qualcuno che un tempo aveva l’abitudine di farmi esattamente la stessa domanda». Il tassista parve capire più di quanto le parole della ragazza lasciassero intendere.

   «Signorì, se dia tempo. Le domande vanno e vengono a loro piacimento, fanno come glie pare. Per le risposte invece, tocca fa come la tartaruga».

   «La tartaruga?»

   «Ma sì, come la tartaruga de Trilussa! Nun conosce la poesia? Mentre una notte se n’annava a spasso, la vecchia tartaruga fece er passo più lungo de la gamba e cascò in giù cò la casa vortata sottoinsù. Un rospo glie strillò: scema che sei! Queste so scappatelle che costeno la pelle….  lo so – rispose lei – ma prima de morì vedo le stelle». Gliela recitò tutto soddisfatto e aggiunse: «succederà anche a lei».

   «Di ritrovarmi con la mia vita per aria?».

   «No. Di avere le risposte. Faccia buon viaggio». E strizzandole l’occhio, la lasciò davanti alle porte scorrevoli del terminal, sospesa tra la voglia di cadere a testa in giù e quella di restare lì, con i piedi saldamente attaccati alla terra. Cos’era a muoverla nella vita, un cieco desiderio di carpirne i segreti, o la speranza che perdendosi in luoghi inesplorati, sarebbe finalmente riuscita a comprendere se stessa? Nel dubbio, decise, d’ora in avanti niente più taxi. Meglio il silenzio confortante di una macchina a noleggio.

È abitudine del mondo dividere il prossimo in due banali categorie: quelli che spiccano in ragione del loro intelletto e quelli che, invece, devono ringraziare una buona combinazione di geni per la bellezza mozzafiato. Elizabeth non brillava né nell’una né nell’altra categoria. In effetti, non c’era nulla in lei che lasciasse trasparire un chiaro segnale di trovarsi di fronte a qualcuno di straordinario. La sua statura era assolutamente nella media; i denti erano piccoli e tutto sommato regolari; i capelli, di un mite castano, le ricadevano lisci sulle spalle; era in grado di individuare buona parte delle capitali del mondo, e se qualcuno le parlava dell’uso del congiuntivo, non rispondeva chiedendo di che medicinale si stesse parlando. D’altra parte, chi non avrebbe inserito queste conoscenze nel proprio repertorio?

Premessa di questa descrizione però, è il suo essere basata su una visione banale del mondo. Se si uscisse dagli schemi ordinari allora, ogni cosa in Elizabeth muterebbe e altri dettagli, tutt’altro che insignificanti, verrebbero alla luce. Per esempio le efelidi che le spuntavano sul naso, così fitte che se qualcuno si fosse preso la briga di unirle in un unico tratto, ci avrebbe visto la costellazione di Orione, o magari l’intera Via Lattea. Tra le iridi nocciola correvano striature verdi le quali, se attraversate, erano una finestra spalancata sul suo sguardo, da cui si intravedeva ancora tutta quella esitazione ed innocenza che a un certo punto abbandona gli occhi dell’età adulta, ma sembrava invece abitare per sempre i suoi. Aveva come un dono, un’energia che si liberava da qualche parte tra il cuore e le costole, che le permetteva di sentire le emozioni attorno a sé, di farle sue senza che fossero le parole a spiegarne il senso o a palesarne l’esistenza. Inalava gioia, tensione, disagio o nostalgia cosi come inalava ossigeno, e forse era questo a farle amare cosi tanto gli aeroporti.

Varcata la soglia, era come entrare dentro un polmone che viveva di un’aria fatta di attese, aspettative, di saluti o addii sussurrati a mezza voce, delle grida entusiaste di chi si ritrovava, le corse a perdifiato verso quel gate che non aspetta mai, gli sguardi complici tra chi lo oltrepassava e chi restava dall’altra parte a guardare, con la promessa silenziosa di rivedersi ancora. Nel loro piccolo, gli aeroporti mettevano in scena l’incanto delle emozioni vissute al loro estremo, e per Elizabeth ogni viaggio era fatto non tanto di luoghi, quanto del fermarsi ad assorbire quel teatro di umanità, lo spaccato di vita dietro le risate, i rimbrotti o le imprecazioni. Ed era questo, in definitiva, a renderla bella, diversa, oltre ogni banalità.

Allungò il collo oltre una comitiva di giapponesi intenti a rimuovere dai propri bagagli i chili extra, per controllare il tabellone delle partenze. Il suo volo con l’Aeroflot, compagnia di bandiera russa, previsto per le nove, era stato posticipato di due ore. Sospirò per un minuto buono, e si diresse rassegnata al check in del volo per capire cosa stesse causando il ritardo. «Siamo davvero spiacenti, ma sembra che ci siano in corso dei problemi tecnici, non è il primo volo del giorno a subire ritardi. Aggiorneremo i passeggeri non appena ne sapremo di più», fu la pragmatica replica della hostess seduta al desk. Così sarebbe arrivata all’Aeroporto di Šeremet’evo solo nel primo pomeriggio, perdendo la coincidenza con il treno che avrebbe dovuto portarla verso il centro della città. Doveva avvertire il suo amico a Mosca di quell’imprevisto, altrimenti sarebbe rimasto ad aspettarla vicino al suo ostello per ore, inutilmente. Stava tirando fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per mandargli un messaggio, quando sentì una voce dietro di sé: «E così alla fine lo stai facendo davvero. Stai per partire». Serrò gli occhi, terrorizzata. Non poteva essere, lui non poteva essere lì, ma quella voce era inconfondibile, l’avrebbe riconosciuta tra mille, impossibile sbagliarsi. Trovando la forza da chissà dove, girò le spalle per assicurarsi su ciò che l’udito le aveva già ampiamente confermato. Ed eccola là, la dissoluzione di ogni possibile dubbio: era proprio lui, a pochi metri dalla sua figura esile. Non muoveva un passo, e nel farlo sembrava volesse concederle del tempo in più per metabolizzare la sua presenza.

   «Ciao», le disse con tutto il calore di cui era capace. La guardava come se cercasse di bere ogni dettaglio di lei: le spalle in tensione sotto il peso dello zaino, il sole che le aveva scottato leggermente le guance, lo sguardo ancora annebbiato dal sonno che l’alzataccia mattutina le aveva rubato troppo presto.

   «Che cosa ci fai qui?», gli chiese Elizabeth, ma sentiva che la voce le tremava, non rispondeva alla sua richiesta di autocontrollo. Nessun pensiero razionale in realtà sembrava voler venire in suo soccorso, non in quel momento.

   «Sono mai mancato a una partenza per uno dei tuoi viaggi? Rispetto solo la tradizione», rispose, azzardando un sorriso.

   «Ma io qui non ti ci voglio!» disse con rabbia, anche se una parte di lei, che non poteva reprimere, stava già provando una gioia incontrollabile nell’averlo li, ancora una volta, pronto a sostenerla in quella sua ultima avventura. E si odiò per questo.

   «Eppure sono mesi che cerchi di parlarmi. Anzi, lo fai a prescindere da una mia risposta, specie quando sei in macchina da sola, e ti senti libera da qualsiasi orecchio indiscreto».

   «È evidente quindi che sto impazzendo, e da tempo. Vista la tua scelta di rimanere in silenzio su qualunque cosa, te lo richiedo: che sei venuto a fare qui?».

   «Non è stata una mia scelta starmene in silenzio, non almeno in questo ultimo periodo. Cause di forza maggiore» disse, lanciandole un’occhiata penetrante. «Su questo possiamo essere d’accordo?». Elizabeth annuì suo malgrado.

   «Per gran parte della mia vita invece, non ho giustificazioni. Solo spiegazioni, se tu le vuoi. Sono qui per te: per tutte le cose non dette, quelle che ti hanno riempito la mente di dubbi, quelle che l’orgoglio e la voglia di proteggerti mi hanno spinto a tacerti».

Quelle prime battute provocarono immediatamente la sua collera. «Ma certo, non hai nemmeno cominciato a dare mezza spiegazione e già stai ammantando tutto con il solito, vecchio buonismo!» sbraitò. «Sai che c’è, vaffanculo. Tu per me non esisti, non esiste questa conversazione, né tanto meno una chance di capire la verità dietro alla vita che condividevamo. Non è nel tuo stile parlare con qualcuno a cuore aperto, perciò smettila di tormentarmi.».

   «Non faceva parte del tuo stile neanche mandare affanculo tuo padre. Si cambia».

   «Avvisiamo i signori passeggeri che i voli previsti per la giornata sono stati momentaneamente sospesi a causa di un problema tecnico che sta coinvolgendo i radar di terra. Informeremo i passeggeri al più presto sull’orario definitivo di partenza. Ci scusiamo per il disagio».

L’avviso emesso dai microfoni dell’aeroporto li interruppe bruscamente, provocando un boato di proteste tra i viaggiatori, che cominciarono a spostarsi lungo tutto il terminal, alla ricerca del proprio desk. Loro due invece se ne restarono lì immobili.

   «Per caso c’entri qualcosa?» domandò Elizabeth con gli occhi ridotti a due fessure.

Suo padre rise di gusto, facendole notare come, tra i guasti e gli scioperi del personale, i voli cancellati fossero diventati ormai la regola, più che la conseguenza di un intervento esterno.

   «Non stai rispondendo alla domanda», lo incalzò lei. La fissò per un attimo e, facendosi improvvisamente serio, le disse:

   «Non abbiamo molto tempo Lily, chiunque ce lo stia concedendo. So che credi di aver perso il senno, ma puoi considerare solo per un attimo la possibilità che tutto questo – io e te qui, insieme – possa essere vero, reale? Dio solo lo sa cosa sto provando in questo momento a poterti parlare e a starti così vicino, ma se siamo qui adesso non è per me, e per te. Io sono qui per te».

Elizabeth lo guardava con gli occhi sbarrati. Il terrore di accettare la verità di quel momento, opposto a quello di veder scomparire suo padre per sempre, se si fosse rifiutata di credere a quanto stava accadendo, la stavano paralizzando.

   «Si o no Lily?» le chiese di nuovo.

   «Sì», rispose lei d’istinto, senza ponderare. Ma cosa c’era da ponderare, pensò, visto che tutto poteva avere quella situazione, tranne il benché minimo fondamento razionale? Superata l’incredulità e la paura folle di poter vedere e sentire suo padre, ciò che restava era solo la speranza di avere quelle risposte che il tempo continuava a negarle, non importava dove andasse o quali nuove esperienze vivesse.

Il suo passato era come in un fermo immagine, e se le emozioni degli altri continuavano a essere un rifugio familiare, le sue invece restavano continuamente mute e inaccessibili. Il viaggio che stava per intraprendere era l’ennesimo tentativo di rompere quel silenzio ostile che si era radicato in lei. Voleva riappropriarsi della ragazza che era, quella che si entusiasmava per la meta, che tornando da un viaggio era ancora se stessa, integra e incorrotta, solo arricchita di memoria nuova. Un viaggio era questo in fondo: la magia della somma e non della sottrazione.

Ma senza nessun preavviso tutto era diventato per lei un brutale processo di privazione: via le abitudini, via le certezze, via i dogmi, via i sogni e cosi, imparando l’arte di perdere, Elizabeth si era spezzata, scoprendosi incapace di afferrare a piene mani quegli scorci di verità entrati con prepotenza nella sua vita. E in questa sua nuova veste, tanto vera quanto corrotta, cercava con disperazione crescente colui che era stato l’artefice di quel cambiamento. E lo vedeva ovunque: negli occhi distratti dei passanti; nel blu che spuntava da sotto le austere giacche di novembre; nei saluti che erano baci sulle tempie. Nella colpa che sentiva per non aver saputo vedere oltre le maschere, nella certezza amara che un’altra partenza, dove avrebbero potuto finalmente ricontrarsi, non ci sarebbe più stata.

Almeno fino a quel momento. E se un giorno, un unico giorno irripetibile, era tutto ciò che restava per superare un addio senza ritorno, allora pensò che rinunciare alla ragione per credere nell’impossibile, fosse un prezzo minimo da pagare per concedere alla realtà di entrare in collisione con il suo mondo interiore.

Fece un respiro profondo, tentando di ricomporsi. «E va bene, sei qui per me. Posso vederti solo io?»

   «Mi stai parlando da circa mezz’ora e nessuno ha ancora chiamato l’esorcista. Tu che ne pensi?» rispose alzando un sopracciglio.

Ignorò il sarcasmo. «Vorrei che anche mamma fosse qui».

   «Io e la mamma abbiamo un modo tutto nostro di comunicare, lo sai. Non preoccuparti», la rassicurò.

Lo sapeva bene. Non faceva parte della natura di sua madre, respingere quello che i suoi desideri più profondi decidevano di mostrarle. Elizabeth le faceva credere di provare dello scetticismo di fronte a quella sua fede nei legami che sopravvivono anche a dimensioni diverse. Ma avrebbe dato qualunque cosa per sentire chi amava ancora così vivo nel suo quotidiano, riuscire ad avvertire una presenza tangibile anziché sforzarsi di trattenere un eco sempre più lontano. Forse era per questo che aveva iniziato quelle strane conversazioni in macchina. Più che conversazioni, si trattava di veri e propri sfoghi, quando la pressione su di lei era troppa e aveva bisogno ora di un capro espiatorio con cui prendersela, ora semplicemente di immaginare la voce di lui che la calmava, dicendole cosa avrebbe dovuto fare.

Suo padre doveva aver intuito che direzione stessero prendendo i suoi pensieri perché disse: «ti ho sentita sai? In macchina».

   «Sì. Me lo dicevi, prima».

   «E non te ne sei mai accorta?»

   «Sì. No. Magari un po’. Altrimenti, perché avrei continuato a parlarti?». Tacquero per un istante, e lo sguardo di suo padre si perse, oltre la barriera del gate. «Ti ho guardata tante volte superare quella barriera. Eri di spalle mentre ti allontanavi, e già ti vedevo rovistare nella borsa alla ricerca del passaporto, quello che ti raccomandavo sempre di tenere nella tasca della giacca. Ti convincevi di averlo perso, salvo poi renderti conto, a un palmo dal metal detector, di averlo avuto tra le mani fin dall’inizio». Ridacchiò, ripensando a quel ricordo.

   «Se da quei gesti avessi dovuto indovinare la sorte dei tuoi viaggi, non avrei esitato a correre per pregarti di tornare a casa, o al massimo comprare io stesso un biglietto e vedere dove ci avresti portato. Ma poi, un attimo prima di sparire tra la folla, ti voltavi per cercarmi con lo sguardo. Ed era lì che la trovavo, tutta nei tuoi occhi: la consapevolezza assoluta che era giusto lasciarti andare. Ti trasformavi, liberandoti da ogni incertezza, come se stessi già assaporando la vista di strade che solo tu potevi vedere, di una vita che tu sola avresti vissuto in quei giorni lontano da casa, da me, da noi tutti. Mai come nel viaggio, persa nel mondo, mi sembrava che trovassi il tuo posto nel mondo».

Elizabeth cercava di fermare il nodo che le si stava formando alla gola; ascoltare le parole di suo padre era come immergersi in un ricordo proiettato dal suo lato dello specchio, quello a cui non le aveva mai permesso di accedere, e che adesso stava condividendo con tanta naturalezza. Com’era bello, ora, sapere di quei momenti in cui in quello stesso specchio c’era lui che la guardava, provando timore all’idea di perderla.

   «Alla fine però sono sempre tornata», gli rispose.

   «È vero. Sei sempre tornata», ammise lui, annuendo lentamente, studiandola.

   «Perché mi stai dicendo tutto questo?».

   «Perché ora ti guardo, e non mi sembri più tu. Non sei mai partita per il desiderio di liberarti dei tuoi tormenti; semmai, nel farlo, cercavi di ritrovare lo slancio per affrontarli, una volta tornata».

Sua figlia sentì la frustrazione correre più veloce delle parole. «E come potrei essere la stessa?» ribatté. «Dimmelo tu, come si fa a convivere con i segreti che mi hai lasciato? Vieni qui a dirmi che sto scappando da me stessa, ma chi più di te rimaneva ogni giorno nella stessa vita, fingendo che fosse altro? Quando inizieremo a parlare di questo? Credevo che fossi qui per darmi delle risposte, non per riflettere su chi sia diventata io».

Finalmente, un maledetto segno di pentimento, pensò con folle soddisfazione, mentre lo guardava accigliarsi. Ben presto però quella sensazione se ne andò, lasciando di nuovo il posto all’ormai familiare senso di incompiutezza…era così stanca, stanca di dover combattere senza sosta per arrivare al cuore delle cose. L’idea di poterci riuscire accettando quella situazione paradossale era stata ridicola.

Dopo un attimo di esitazione, suo padre sospirò, e le parlò ancora. «Ti ho promesso delle risposte Liz, e le avrai. Come ti ho detto, sono qui per te, ma non puoi pensare che la mia presenza sia slegata dal tuo stato d’animo».

   «E questo che cavolo significa?».

Si limitò a fissarla stavolta, senza aggiungere altro. E per lei il silenzio fu abbastanza.

   «Io prendo quel volo», decise, e allungò il passo in direzione del desk, sperando che quei dannati radar avessero ripreso magicamente a funzionare.

   «Elizabeth, fermati! Dammi tempo…». Suo padre la stava rincorrendo, non ne voleva sapere di rassegnarsi a lasciar perdere. Chiudi la mente, non esiste, tutto questo non sta accadendo, continuò a ripetersi lei.

Trovò ad aspettarla una fila chilometrica di aspiranti passeggeri, tutti incavolati neri. Uno di loro, vedendola avvicinarsi, la informò sul destino della partenza: l’aereo sarebbe decollato alle dieci della mattina seguente. Ad ognuno di loro però era stata offerta una notte in un albergo nelle vicinanze dell’aeroporto, a risarcimento di quella giornata andata in fumo.

   «Ma che gentili», borbottò lei. Ringraziò l’ambasciatore improvvisato, che le aveva portato quell’ultima pena, e si allontanò dalla calca per riflettere sul da farsi. Andare in albergo era ridicolo; viveva a Roma, ma d’altra parte non voleva nemmeno tornarsene a casa, dove sua madre era rimasta. Era stato così difficile darle quell’arrivederci, e non voleva replicarlo; sarebbe stata via quasi tre mesi per completare l’intera tratta transiberiana. Il periodo più lungo che avrebbero passato separate, da quando lui le aveva lasciate.

   «Per favore, parliamo». Chiuse gli occhi contando fino a dieci, tentando con tutte le forze di ignorare la sua voce.

   «Elizabeth…»

   «Io non voglio vederti», lo interruppe lei.

   «Se questo fosse vero non potrei essere qui. Sono davvero qui», le disse, e senza preavviso le afferrò la mano, stringendola. Quel contatto, il primo da quando si trovavano lì, ebbe l’effetto di una granata. Era esattamente come la ricordava: la presa calda e rassicurante, fece esplodere in lei migliaia di immagini. La mano, che ora era nella sua, le aveva indicato per la prima volta il mare, tirata a sé quando era troppo arrabbiata per rimanere nella stessa stanza, fatto il solletico fino a toglierle il respiro. La vista poteva anche essere una custode ingannevole per la memoria, ma il tatto non poteva mentirle. Testimoniava l’impronta lasciata da quell’affetto perduto, e per ciò soltanto rinunciò a sfuggirgli.

   «Andiamo via di qui» propose suo padre. «Non perderai l’aereo, te lo giuro», si affrettò ad aggiungere.

   «E dove?»

   «Ce l’hai ancora quella tenda?», le chiese. Elizabeth capì al volo. La sua domanda poteva alludere a un posto soltanto: La Spiaggia dell’Esploratore.

L‘avevano chiamata così per la loro tendenza ad andare alla ricerca di luoghi accessibili a pochi, meglio ancora se a nessuno. Ma era anche un’attitudine la loro, quella di provare curiosità verso il nuovo o l’insolito, che fosse un quartiere, un bosco in campagna o una città mai visitata. Adorava seguire suo padre in quei suoi giri di ricognizione, che per lei rappresentavano l’esplorazione. Si erano imbattuti nella Spiaggia in un loro tipico moto di curiosità quando, dopo essere passati svariate volte sulla via Aurelia in direzione del mare, avevano notato una o due macchine parcheggiate a ridosso della strada, oltre la quale, all’apparenza, non si poteva avvistare nessuna particolare attrattiva. Ma entrambi si erano convinti che laggiù qualcosa doveva pur esserci, e si decisero a lasciare l’auto in quel punto per risolvere il mistero. Camminarono sotto il sole cocente, verso est, per circa un chilometro e mezzo. La quiete immobile, interrotta solo dal fruscio del vento, intimoriva non poco Elizabeth, che a otto anni era in quel periodo in cui la fantasia moltiplicava i suoi scenari pindarici, quando si trovava in presenza dell’ignoto. Cosa stava facendo tremare le foglie dietro a quell’albero, un nido segreto di fate o il corpo sinuoso di una bestia feroce, appollaiata tra i suoi rami? Ma poi finiva sempre per ricordare a se stessa che era lì in compagnia del suo scudo personale, l’antidoto contro ogni luogo oscuro dell’immaginazione. Tanto bastò per farla tornare a una certa andatura spavalda, con la testa bassa e le braccia saldamente intrecciate attorno alla gamba destra di suo padre. Non si sapeva mai.

E la missione esplorativa finì col premiarli. Cinque minuti più tardi si trovarono davanti a una piccola insenatura, appena sufficiente a contenere dieci persone. Era perfetta: ad eccezione di un vecchio signore intento a leggere con la schiena poggiata contro una roccia vicino al mare, quel luogo sembrava essere un angolo di solitudine, ben custodito dai suoi pochi conoscitori. La bambina ne rimase entusiasta, e fece promettere a suo padre di non raccontare ad anima viva di quella scoperta. Negli anni continuarono ad andarci per campeggiare, guardare le stelle cadenti la notte di San Lorenzo o fare una nuotata nei tardi pomeriggi di domenica. Per la prima volta, stava condividendo un segreto con suo padre.

La Elizabeth adulta non perse occasione per attuare il buon proposito fatto quella mattina, e prese a noleggio un’auto che in quaranta minuti li avrebbe portati a destinazione. Non parlarono molto mentre lei era alla guida, e così ne approfittò per guardarlo di sottecchi. Era sempre lui: aveva conservato lo stesso sorriso gentile, il torace ampio e tra i capelli ingrigiti guizzava ancora una luce quasi argentea. Emanava la stessa forza, quella stessa aurea che suscitava negli altri un immediato senso di rispetto, a volte persino di soggezione. I suoi tratti però si erano come distesi, e a parte le belle rughe d’espressione, non c’era più traccia di quei solchi profondi che gli segnavano il viso. Quelli che con rammarico aveva ignorato per tanto, troppo tempo.

   «Eccoci arrivati», esclamò, interrompendo le sue riflessioni. Accostò la macchina entro la piccola porzione di terreno che costeggiava la strada e si allungò verso i sedili posteriori per recuperare lo zaino. Ma suo padre fu più veloce e lo afferrò, offrendosi di trasportarlo per tutto il tragitto: un altro gesto che la riportava indietro, quando più di un peso le veniva tolto dalle spalle.

Si incamminarono in direzione del sentiero polveroso che li avrebbe portati all’insenatura. Ai due lati di esso si allungava un rigoglioso campo di grano; le sue spighe, ormai arse dal sole, si protendevano verso Elizabeth, sfiorandole i fianchi. L’unica bestia che temeva, ora, era l’irreversibilità delle cose fatte, e l’ineluttabilità di quelle non dette. E suo padre stavolta non avrebbe potuto salvarli, perché era complice quanto lei di quell’ombra grigia che premeva pesante su di loro.

   «Raccontami di questo anno», le chiese, facendosi più vicino.

   «Non saprei davvero da dove iniziare», fu la sua risposta sincera.

Fece una pausa. «E hai deciso chi desideri essere?»

   «Papà! Ancora con questa storia?»

   «Ancora, sì», ribatté risoluto lui.

   «Come pensi possa saperlo, dopo l’inferno che abbiamo passato?».

   «E invece proprio per quello che hai dovuto affrontare, ero sicuro che questo brutto risveglio ti avrebbe costretta a riconoscere chi sei, a inseguire ciò che vuoi davvero. Pensavo che avresti imparato dai miei errori».

   «Ma che ti aspettavi?», scattò Elizabeth. «Hai mentito a me, alla mamma, e andandotene ci hai lasciato fare i conti con questa falsa superficie di perfezione che tu stesso hai creato attorno a noi. Fallire, nella nostra famiglia, non è mai stato un diritto». Si fermò per riprendere fiato. «Non saprò esattamente quello che voglio, sbaglierò ancora e ancora, ma maledizione per una volta sono me stessa».

Fu il turno di suo padre mettersi a urlare: «Eh no Lily, non userai i miei errori per giustificare i tuoi, c’è una data di scadenza nel vizio di incolpare gli altri dei propri sbagli! Quello che ho fatto non può darti il pretesto per chiedermi di starmene zitto e guardare le tue scelte mandarti in malora la vita. Hai lasciato l’università. Hai dato tutta te stessa a un uomo sposato, che non vale neanche un briciolo del tempo che gli hai regalato. Stai mentendo a tua madre, facendole credere di preparare gli esami, o di provare interesse per un lavoro che in realtà odi. Questa non sei tu, e non sarà un viaggio a farti ritrovare chi sei. E non perché sia un pezzo di carta a dare la misura del tuo valore, un uomo libero e innamorato al tuo fianco a collocarti tra le sante o le puttane, una vita tutta per il lavoro a renderti felice. Ma perché so che nel profondo non stai ascoltando ciò che senti sia giusto per te».

   «E se ti dicessi che non ho fatto altro che prendere le decisioni sbagliate solo per capire cosa si prova a essere te, a tenersi il marcio dentro?»

   «Lo stai dicendo per ferirmi?»

   «No, perché è la verità. Non è stato il dolore peggiore scoprire che lavoravi giorno e notte per una casa che non era più nostra, né lo sarebbe stata mai, con i debiti che si accumulavano. Che una donna che non era mamma ti amava di un amore che hai reso invisibile con i tuoi gesti e sguardi, così apparentemente felici della vita che ti sei scelto. Né scoprire che il cancro ti stava divorando dentro, senza che tu volessi nessuno di noi al tuo fianco a lottare con te». Elizabeth finalmente stava estirpando quel veleno che gli aveva distrutto ogni certezza, e ora che aveva iniziato non poteva più fermarsi.

   «E allora cosa? Dimmi cos’è che ti sta dilaniando?».

   «Non mi hai dato la possibilità di scegliere!» gridò disperata. «Non l’hai data a nessuno. Avremmo potuto fare un passo indietro, ricominciare una vita da zero, se necessario. Avresti potuto vedermi come una spalla per una volta, e fidarti del mio sostegno. Avresti dovuto capire che starti accanto non era un dovere per me, ma una necessità: avevo bisogno di dirti addio. Forse non spettava a me sapere chi amassi, ma quello che c’era tra te e la mamma era la cosa più vera che avessi mai sperimentato».

   «È ancora così», disse commosso, prendendole le mani.

   «No», ribatté, liberandosi dalla sua presa. «Vedi, è questo il problema di chi ama come ami tu: sei l’unico a stabilire le condizioni. E scegliendo di mostrare soltanto la parte migliore di te, hai creato il mio rimpianto più grande: avremmo potuto amarci infinitamente di più, se solo ci fossimo concessi il lusso di mostrare le nostre crepe». Eccola svelata, la sola verità che non avrebbe mai potuto liberarla.

Padre e figlia erano lì che si soppesavano l’un l’altro: dolore, tormento e senso d’impotenza sfilavano davanti ai loro occhi, senza che potessero trovare alcun conforto. Elizabeth si sentiva svuotata di tutta l’energia che aveva consumato per odiarlo o per cercare quel confronto mai avuto; erano di nuovo davanti alla Spiaggia. Il luogo che, da segreto, adesso era diventato contenitore di segreti.

Montarono la tenda di fronte al punto esatto in cui il sole veniva inghiottito dall’orizzonte. Restarono seduti a guardare lo spettacolo del giorno che volgeva alla fine, mentre due pescatori poco lontano tiravano le lenze immerse nell’acqua scura. E in quella pace insondabile che la invadeva, Elizabeth capì che non c’era più nessuna battaglia da combattere. Abbandonata ogni difesa, si accoccolò contro quel petto così familiare: non le importava che ormai fosse una donna adulta, né che di lì a poco, si sarebbe dovuta riabituare alla sua assenza.

   «É un anno che non ci sei più».

Suo padre la strinse più forte. «Lo so amore». Quella placida conferma, le mozzò il respiro.

   «Non puoi continuare a tenermi qui con te», le disse con dolcezza. «Dovrai lasciarmi andare».

   «Non posso».

   «Devi», sussurrò.

Aveva scoperto che la morte era banale. Era guardare gli occhi di chi si ama chiudersi lentamente, osservare le funzioni vitali dare una ad una il loro inchino di congedo. Era solo un respiro che cessava di scandire il legame con la vita. La morte, nella sua sequenza meccanica di eventi, era banale. A non essere banale era il modo in cui essa si era diffusa a macchia d’olio, contaminando i ricordi che avevano plasmato la sua esistenza. La rendeva cieca, instillandole la paura di non aver mai saputo vedere chi fosse davvero suo padre. Si moriva una sola volta, a rinunciare al tempo delle cose che avrebbero potuto essere; si moriva un po’ ogni giorno, quando si doveva rinunciare al tempo di quelle che erano state.

Se lo avesse lasciato andare, cosa le sarebbe rimasto di lui? Del passato, sentiva che non c’era più nulla di solido a cui aggrapparsi. Ogni volta che si guardava indietro, dubitava dei suoi ricordi e, nel farlo, lasciava entrare gli errori, le contraddizioni, le fragilità che suo padre non aveva mai confessato. Quanto più li accoglieva, tanto più le sembrava di allontanarsi dall’uomo che conosceva. Non poteva lasciar andare, se una verità parziale era tutto ciò che le restava.

   «Non avrei mai voluto che fosse la morte a svelarti alcune parti della mia vita, specie le peggiori. Potrei dirti che tornando indietro avrei impedito che questo accadesse. Ma temo che sia troppo tardi persino per i rimorsi, ormai ho già timbrato il cartellino d’uscita», le disse con un sorriso triste. «La verità è che ogni uomo ha luci e ombre dentro di sé, e il limite tra bene e male non è sempre così netto. E in questo non sono stato diverso: ho preferito la solitudine della malattia al doverti insegnare il peso degli addii. Ma ho anche scelto di non condividere a pieno il vostro, di dolore, non preparandovi a quello che avreste dovuto affrontare dopo di me, quando me ne sarei andato. Mentire a me stesso, fino alla fine, è stato più importante del tuo bisogno di sapere».

Era scesa la sera, e le parole di suo padre sollevavano Elizabeth tanto quanto la portavano alla deriva. Chiedevano alla mente di smettere di girare in tondo, ferivano in cambio di illuminare, così come aveva fatto il mare molte volte, quando lei si lasciava portare dal moto delle onde senza resistervi, sapendo che l’acqua avrebbe potuto attirarla verso il fondo o consentirle di riemergere.

   «Mi sono innamorato di tua madre senza poter scegliere», proseguì, cercando negli occhi persi di sua figlia la scintilla della comprensione. «Era abbagliante. L’aria intorno a lei era leggera, sapeva di fiori e di innocenza. Un po’ come qualcun altro qui», disse, premendole affettuosamente la punta del naso con il dito. «Era timidissima, ho imparato a conoscerla dai piccoli gesti, il modo in cui alzava il mento di scatto quando era arrabbiata per qualcosa, o come poggiava la testa sulla mia spalla mentre guidavo verso casa. Tranne i suoi occhi: che fosse per sfida o per leggere a sua volta nei miei, di pensieri, in quegli attimi perdeva ogni imbarazzo e sosteneva il mio sguardo senza mai abbassarlo. Mi sono innamorato senza poter impedire che questi dettagli si insinuassero in me, senza che ci fosse alcuna logica a spiegare quell’improvviso desiderio di starle accanto. Ma per amarla… oh Elizabeth, per amarla non ho fatto che sceglierla, ogni giorno. Era importante scegliersi, soprattutto nei giorni più bui, quando la voglia di chiudersi la porta alle spalle e non tornare indietro era dietro l’angolo. Tua madre è sempre stata una donna passionale, impulsiva, sensibile alle sue emozioni, questo lo sai. A volte si sentiva sola nel nostro matrimonio e questo glielo faceva mettere in discussione, non a torto. Ma nonostante questo ci siamo scelti, più e più volte: all’inizio della nostra vita insieme, quando c’era tutto da costruire, una casa, una carriera, un futuro, e io non sapevo se e quando sarei stato in grado di realizzare i sogni di entrambi. Negli anni in cui ti aspettavamo, e in quell’attesa ci siamo consumati, nella paradossale consapevolezza che si, quel volere più amore stava rischiando di corrodere l’amore stesso, che ne era alla base. Poi sei arrivata tu, e finalmente hai dato un senso a quell’attesa. Credevo che da lì in avanti non avrei avuto più nient’altro da chiedere. A me stesso, alla mamma, alla vita».

   «Ma non è andata così».

   «Già…», rispose laconico lui.

   «Quando hai smesso di sceglierla?», chiese sua figlia.

L’uomo si prese del tempo per scegliere con cura le parole con cui, lo sapeva, avrebbe dovuto rispondere alla domanda che più di tutte aveva tormentato il cuore di sua figlia.

   «Penso di non aver mai smesso. Solo, sono arrivato ad un punto in cui la mia scelta erano diventata anche il viso di chi non potevo deludere, la voce a cui non volevo confidare le mie inquietudini, l’abbraccio che non volevo sentire, perché farlo avrebbe significato scardinare le nostre identità, chi eravamo sempre stati noi due, insieme. Come un albero che resiste alla tempesta, io appartenevo alle radici che si aggrappano mute alla terra, rendendo invisibile lo sforzo. Tua madre invece inondava di bellezza le sue foglie: da lei dipendeva la mutevolezza dei colori, la profondità delle venature, la complessità del loro diramarsi. La fatica della radice contro le intemperie è fatta per restare segreta, al di sotto della superficie. Al contrario, quella della foglia non può essere celata; ogni strappo, caduta o appassimento è esposto agli occhi del mondo. È un richiamo naturale alla cura e alla protezione. Ma per quanto poste ai due estremi della pianta, la resilienza silenziosa della radice non potrebbe esistere senza le fragili trasformazioni della foglia. Radice e foglia: questo è stato il nostro amore. Fino a quando i miei silenzi hanno smesso di trovare il loro perfetto incastro nelle emozioni cristalline della donna che amavo. Per la prima volta, sentivo anche io il bisogno di aprire il pugno e mostrare i segni lasciati dai dolori che non avevo mai condiviso. Essere me stesso era diventata una gabbia e per uscirne avrei dovuto chiedere alla mamma di snaturarsi per diventare più simile a me. Ma io ero io e lei era lei; il nostro era un patto d’amore in cui l’uno viveva per salvare, e l’altro per il desiderio di essere salvato. Tradire me stesso per non rompere il patto, oppure rinunciarvi del tutto per ascoltare quella nuova, sconosciuta parte di me: sentivo di non poter sfuggire a queste due alternative. Non potevano coesistere, altrimenti avrebbero annientato me o la mamma. E la nostra pianta sarebbe andata persa. Riesci a vederle adesso, le luci e le ombre nella mia storia?»

Elizabeth annuì incerta. Sentiva di essere più vicina a capire suo padre, ma per farlo doveva sapere di più e così lo incoraggiò a proseguire il quel suo tortuoso racconto.

   «Sembrava non potesse esserci spazio per una decisione. E poi, contro ogni previsione, è arrivata lei. Lei che contava solo su stessa, che osservava la vita con un piglio disilluso, cinico. Aveva una risata fragorosa, che coinvolgeva gli altri ma non i suoi occhi, che invece erano sempre velati di un’amarezza impenetrabile. Credo che vedesse in me il suo stesso disincanto; io però avevo più anni da contare che giustificavano la mia durezza d’animo, mentre mi sembrava incredibile che tanto cinismo potesse poggiarsi su due spalle di trent’anni appena. Non possiamo sapere quale catena di avvenimenti il destino abbia messo in moto per farci incontrare. Di certo però, non avrebbe potuto scommettere su due pedine peggiori di noi nel condividere anche solo un briciolo dei nostri pensieri. Ma quel giorno, nel parco che per quarant’anni aveva assorbito i miei passi, mi sono seduto accanto a una donna che in quel momento non aveva ancora né nome né storia, e ho cominciato a raccontarle di me. La mia infanzia, il trasferimento a Roma, la famiglia che avevo creato, la vita che mi ero costruito. E di tutto ciò che credevo la stesse distruggendo: i debiti che si accumulavano, le ipoteche sulla casa, la mia incapacità di essere sincero con tua madre. Tutti macigni che cercavo di sostenere da solo, pensando di essere immortale. La cartella clinica che tenevo in ufficio mi aveva appena ricordato quanto in realtà non lo fossi… ma questo non glielo dissi. Mi ascoltò senza battere ciglio, come se per tutto quel tempo avesse atteso che un perfetto sconosciuto le si sedesse accanto, aprendosi a lei come mai era riuscito a fare in vita sua. Quando finalmente smisi di parlare, era ancora lì vicino a me, senza nemmeno un accenno di fuga. Spalancò gli occhi in modo teatrale, facendo un sospirone. – Però, lei si che è un tipetto loquace! Ma immagino che tra me e la signora dei piccioni laggiù non abbia avuto molta scelta per questo confessionale – . Mi disse, indicando una donna seduta poco più avanti, con le mani piene di pane e le braccia affollate dai volatili. Scoppiai a ridere: non aveva idea di quanto si sbagliasse. Eppure, non sapevo cosa mi fosse preso, visto che le avevo appena raccontato dettagli personalissimi della mia vita. Nessuna sorpresa, che mi considerasse un chiacchierone. Le chiedo scusa, davvero – le risposi – di solito mi rimproverano dell’esatto contrario, e al parco mi limito a passeggiare, evito di importunare le persone. Né i piccioni, per quel che vale. Rise, ipotizzando con aria complice che forse tutto quel silenzio non faceva più per me. È pure telepatica, pensai. Poi si girò verso di me dicendomi. – Io comunque sono Paola. Se vuole possiamo rifarlo. Parlare, voglio dire. Insomma, ormai il ghiaccio direi che lo abbiamo rotto – ».

   «In quell’attimo mi vennero in mente molte cose, e nel farlo avrei voluto censurarle tutte. Era magnetica. Aveva una voce leggera, musicale. Era giovane, troppo giovane. Per qualunque proposito, in una scala che andava da una futura, innocente chiacchierata a ciò che già sottintendeva il suo sguardo. Pensai a tua madre, a quel profumo di fiori, a quanto avrei voluto coinvolgerla nell’ondata di cambiamenti che cercavo con tutte le forze di gestire. Ma non potevo, non ci riuscivo. Era più semplice proteggerla tenendola all’oscuro di tutto, ci avrei pensato io, come avevo sempre fatto. Non riuscivo a scrollarmi di dosso il senso di liberazione che avevo appena provato, lasciandomi andare con la sconosciuta che era lì con me, in attesa di una risposta. L’ossigeno mi entrava a fiotti dal naso, invadendo i polmoni. Inspira. Espira. Inspira. Espira. La pressione che avevo nel petto si era alleviata, e anche la sensazione di apnea mi stava dando una tregua. Chiunque lei fosse, qualunque fossero state le conseguenze per quel respiro riacquistato, dovevo rivederla. Le dissi di si. E da lì, tutto ebbe inizio».

Eccolo qui, pensò Elizabeth. Era questo, il momento esatto in cui suo padre avrebbe dovuto battere in ritirata. Ringraziare il caso per quel temporaneo sollievo e ripromettersi di trovare un cazzo di strizzacervelli, a tutela della sua amata privacy, visto che dire la verità alla donna con cui aveva condiviso gli ultimi trentadue anni sembrava fuori questione. Chi era questa sua versione vulnerabile, che si lasciava sopraffare dal momento? Le sembrava lontana anni luce dal padre che l’aveva cresciuta. E che dire di lei? Paola… mentre le raccontava del loro primo incontro, aveva provato un orrendo moto di gratitudine misto a odio nei suoi confronti. Era rimasta lì ad ascoltare i deliri di un uomo che lei stessa avrebbe giudicato un pazzo; se non lo avesse fatto, non ci sarebbe stato nessuno a conoscenza di quella parte della sua vita. Ma si sentiva anche tradita: cosa aveva fatto quella donna per guadagnarsi la sua fiducia? Trovarsi la mattina giusta, seduta sulla panchina giusta, nell’unico giorno in cui lui si era ritrovato in preda a un collasso nervoso? Troppo facile. Era facile diventare un confessore, quando non c’era nessuna aspettativa da soddisfare, né una serie ripetuta di domani ad attenderti. Aveva sempre creduto che fosse l’amore a rendere liberi dal peso di non deludere: quella notte sulla spiaggia le stava insegnando invece che era proprio l’amore a esserne la causa.

   «Ti prego, dì qualcosa».

Avrebbe voluto recriminargli ogni debolezza, riempirlo di domande, ma le parole erano lì, tutte intrappolate nella sua testa: ora che ogni cosa poteva essere rivelata, ora che la verità, crudele, le danzava intorno, temeva di non poterlo sopportare. Ma suo padre non aveva nessuna intenzione di interrompere quel dialogo, non le lasciava scampo.

   «Perché non lo hai detto alla mamma?» continuò. «Perché hai deciso di dividere questo segreto insieme a me?».

Anche attraverso il sottile velo della morte, Elizabeth avvertiva la tristezza e la pena nelle parole di suo padre vibrare di vita propria. Si levavano nell’aria, togliendo alla luna parte del suo splendore. Aizzavano il vento, affinché ferisse i loro visi contratti. Sapevano entrambi, quanto quel segreto condiviso fosse diventato il peggior compromesso della sua vita.

Da quando aveva trovato, dopo la sua morte, quella fitta corrispondenza tra lui e lei, fatta di messaggi, lettere, attimi rubati al presente, qualcosa dentro Elizabeth si era rotta, e i tasselli della sua vita si erano ricomposti in un quadro nitido, ma sinistro. Da un lato, c’erano le pennellate che conosceva. Illuminavano la tela con un’intensità tale che la vera cecità sarebbe stata credere che fossero lì solo per illudere l’osservatore.  Erano i giorni più belli, quelli in cui avevo visto i suoi genitori rendere preziosa la quotidianità, preferendo la pace alla soddisfazione di avere ragione; perdonando i giorni rabbiosi, gli anni distratti, i silenzi ostinati. Sapevano essere esasperanti tanto da far venire voglia di prendere le porte a calci: ma poi si capivano, si accettavano, in un modo che lei, che pure credeva di avere amato, non aveva mai afferrato fino in fondo. Era consolante, dopotutto, constatare che quei giorni riempivano ancora la sua memoria, molto più dei giorni infelici.

Ma ora che si erano aggiunte queste pennellate nuove, che riempivano gli spazi d’incertezza, e al contempo facevano luce sui sentimenti di suo padre, non sapeva più in che modo guardare quel quadro che era stata la sua vita. Non poteva ignorare, adesso, che qualcuno aveva amato e conosciuto la parte più intima e segreta di suo padre, ma nemmeno cancellare l’amore che aveva visto per anni tra lui e sua madre.

Ed era con lei adesso, che si sentiva costretta a indossare una maschera, ogni volta in cui sentiva la sua mancanza di suo marito, ogni giorno in cui non si dava pace per il muro invisibile che lui aveva voluto tenere in piedi, fino alla fine. Era persa in questo nuovo scenario in cui non c’era nessuna divisione certa tra il bene e il male, tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Avrebbe voluto che quei due semplici binomi valessero ancora, di poterli scindere senza esitare: era bene che sua mamma sapesse, era male tenerla all’oscuro. Era giusto rimanere fedeli a chi si amava, piuttosto meglio lasciare, ed era sbagliato tradire. Ma che fare, se dirle tutto avrebbe significato distruggere l’unica cosa a cui lei aveva dedicato una vita intera? Lo avrebbe fatto nel suo interesse, o solo per lenire il senso di colpa e allinearsi a ciò che veniva universalmente considerato come giusto? Biasimava le decisioni di suo padre, ma anche lei stava proteggendo sua madre, fragile ed emotiva, dall’ennesima sofferenza. L’idea del tradimento faceva male, eppure era esattamente ciò che lei aveva fatto negli ultimi mesi: tradire i suoi desideri, tradire la fiducia di sua madre, convinta che non avrebbe abbandonato l’università, che stesse vivendo la vita che voleva. Perfino godere del fatto che un uomo avesse tradito sua moglie per lei, come se turbare la felicità di qualcun altro potesse risarcirla del dolore di aver perso la cosa più preziosa che aveva, la verità sulla sua famiglia. Avrebbe voluto cancellare ogni cosa, correre così veloce da ridurre quei mesi a un ricordo sbiadito. Come suo padre, Elizabeth mentiva per non deludere, per proteggersi e per proteggere, in nome di un bene e di un male ormai indistinguibili. E sapeva di mentire, quando sul sentiero gli aveva gridato di essersi ritrovata, in tutti questi suoi sbagli. Non si era mai sentita così lontana da se stessa.

   «Perché ancora oggi non sono sicura che tu non l’amassi più», gli rispose alla fine, con gli occhi pieni di lacrime.

Suo padre le prese il viso tra le mani, guardandola con tenerezza, sollevato che nonostante tutte le sue bugie, lei riuscisse ancora a concedersi il beneficio del dubbio.

   «Liz, ascoltami. Non ho mai dato a nessuno la possibilità di sostenermi nei momenti di crisi, e non ti sorprenderai se ti dico che sono proprio le persone che amo di più quelle che per prime ho tenuto a distanza. Paola è stata l’eccezione: quella mattina, fu il venire a conoscenza del cancro a rompere il mio autocontrollo. Nelle settimane successive però, mi resi conto che aprirmi a un’estranea era non solo sopportabile, ma era un vero e proprio balsamo. Potevo disperarmi, dare libero sfogo alle mie paure, evadere per un attimo dalla mia vita senza causare alcuna sofferenza a te o alla mamma…sentivo quanto fosse ingiusto nei vostri confronti, ma pensavo che in questo modo avrei compromesso soltanto me stesso, nell’unico modo che ritenevo accettabile. Naturalmente, più il tempo passava e più Paola aveva smesso di essere una sconosciuta per me. Scoprii molto presto che anche lei stava lottando contro il suo corpo. Leucemia. Come saprai già, se hai letto tutte le nostre lettere», le disse pacato, senza che dal suo tono trapelasse del rimprovero.

Elizabeth annuì. Era la rabbia a non farle accettare il legame particolare che si era creato tra loro, in così poco tempo. Il fatto che si trattasse di suo padre la rendeva un’impresa titanica, ma la sua capacità di comprendere tanto a fondo le emozioni degli altri stavolta le si ritorceva contro. Avevano combattuto una lotta troppo simile, per fingere che questo non avesse fatto tutta la differenza del mondo.

   «Le ho dedicato ogni minuto, ogni frammento di pensiero che non fosse per la mamma, per te o per il lavoro. E se è stata la malattia in un primo momento a spogliarci di ogni segreto, a trasformare l’intesa in desiderio, ciò che ci ha unito nel profondo era la luce che rimaneva accesa in noi anche quando non eravamo insieme. Lei poteva smettere di fingersi forte e indifferente alla paura di morire, mentre io riuscivo tornare alla mia quotidianità capace di non cedere al futuro, di prendermi cura di te e di tua madre, di sorridere e di godermi il tempo con voi, senza che quell’incubo portasse via la nostra serenità, per quanto effimera potesse essere. Ci siamo detti addio prima che le mie condizioni si aggravassero definitivamente. Era giusto così: che io accettassi la resa e lei portasse avanti la sua lotta, per entrambi. Non mi ha mai chiesto di scegliere tra lei e la mamma. Sapeva quale sarebbe stata la risposta. Il nostro rapporto, per quanto unico e speciale, era nato dalla mia incapacità di condividere la sofferenza con la donna che ho amato per tutta la vita, non dalla voglia di rinunciarci. Lo sapeva lei, lo sapevo io. Ma da egoista quale sono stato, ho tratto forza e sostegno dal suo amore, pur sentendo di non provare lo stesso. Non ne vado fiero. Paola però ha una parte di me Elizabeth: le sarò sempre grato di avermi aiutato a restare attaccato alla vita, senza mai essersi aspettata nulla in cambio. Ma ora sai che era accanto a voi che volevo essere, più di ogni altra cosa. Quello che hai scoperto non rende il passato meno vero, solo più imperfetto e complesso di quanto i tuoi occhi non abbiano potuto vedere. Sono qui davanti a te adesso, con tutte le mie crepe. Non so se mostrartele potrà cancellare il rimpianto, ma spero con tutto me stesso che tu abbia ragione, che conoscerle non distrugga il tuo affetto per me, ma anzi lo renda più forte».

Non aveva più altre parole per dirle quanto gli volesse bene. Le chiedeva in silenzio di perdonarlo, per avergliele negate per così tanto tempo, fino a farle perdere se stessa.

Ma la notte forse li aveva già fatti ritrovare.

Elizabeth aveva passato così tanto tempo a cercare una verità assoluta – in cui un unico sentimento, intento, dettaglio, doveva dominare su tutti gli altri – da non rendersi conto che la verità che si faceva strada in lei, era diventata più importante di quella storica, che avrebbe dovuto spiegare esattamente i come e i perché delle loro azioni. Il segreto sarebbe sopravvissuto, non per difendere una menzogna, ma per impedire che di suo padre restasse soltanto una serie infinita di errori, anziché l’amore che li aveva generati.

Oltre le definizioni di giusto e sbagliato c’era un luogo, a lei finora sconosciuto, dove molte cose potevano rivelarsi una scelta d’amore e tante altre potevano essere fatte, dette, od omesse: eppure niente di ciò che era stato andava davvero perduto. L’amore non mutava il suo volto, ed era reale come non mai, perché sopravviveva anche al peggiore dei dolori che lo sfregiava. La sua verità era sempre stata qui, e qui avrebbe sempre potuto ritrovarla, qualunque fossero state le rivelazioni portate da quelle ore preziose, trascorse insieme a suo padre.

Il vento era calato sull’insenatura e il buio aveva raggiunto il suo culmine. L’uomo e la figlia erano distesi l’uno accanto all’altra, mentre scrutavano per l’ultima volta il cielo dalla stessa parte di mondo. Elizabeth ebbe la straordinaria sensazione di avere una visione piena di quello spazio infinito e del tempo che scorreva. Stringeva forte i granelli di sabbia che, come liberati da una clessidra, scivolavano via veloci dalla sua mano. E stavolta non aveva paura di lasciarli andare. Presto ci sarebbe stata una nuova alba, e il suo viaggio sarebbe iniziato. Ma questo, ora lo sapeva, non sarebbe stato il loro ultimo volo.

Jessica Cimino

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