“Con un thriller ispirato alla migliore tradizione anglosassone, C.J. Tudor afferra il lettore in una spirale progressiva e inesorabile, dentro la quale, solo nelle ultime pagine, ogni tassello troverà il proprio posto. Quando il quadro si farà d’un tratto necessariamente chiaro”.
L’uomo di gesso è il romanzo di esordio della scrittrice inglese C. J. Tudor (edito da Rizzoli con traduzione di Sandro Ristori), ed è un esordio molto promettente. La Tudor evita però con abilità le trappole del citazionismo: pur adottando un meccanismo ampiamente sfruttato, “L’uomo di gesso” è un romanzo originale, teso, disturbante.
In un’opera prima molto ben riuscita ci sono alcuni elementi distintivi che meritano di essere sottolineati quali la qualità della scrittura, il contrasto tra gli eventi, la sensazione di minaccia imminente. La Tudor sa esattamente cosa vuole dire, che sensazione vuole creare, ed usa parole e ritmo molto precisi per dirlo: in questo molto probabilmente l’edizione italiana beneficia dell’accuratezza della traduzione di Sandro Ristori. Basta leggere le prime due pagine del libro, o le righe dedicate alla Ragazza del Valzer, per capire come una scrittura levigata, leggera, poetica sia inversamente funzionale alla crudezza della trama. E questa precisione è la cifra stilistica di tutto il romanzo che procede senza sfilacciature per tutto il suo arco narrativo.
La trama del romanzo.
Guardandosi indietro, tutto è cominciato quel giorno alla fiera, con il terribile incidente sulla giostra… Se soltanto il signor Halloran avesse deciso di non innamorarsi della Ragazza del Valzer, forse tutto sarebbe andato diversamente. Sono trascorsi trent’anni. Ed Munster adesso è un uomo, è rimasto a vivere nella stessa cittadina e insegna nella scuola locale. Abita nella bella casa che gli ha lasciato la madre e affitta una stanza a una studentessa vivace da cui è attratto, suo malgrado. Ed sembra essersi lasciato il passato alle spalle, quell’estate del 1986 in cui era un ragazzino e trascorreva giorni interi con i suoi amici. Tra infinite corse in bicicletta, spedizioni nei boschi che circondano la pittoresca e decadente Anderbury e i pomeriggi a scuola, il loro era un tempo sereno: erano una banda, amici per la pelle. E avevano un codice segreto: piccole figure tracciate col gesso colorato, per poter comunicare con messaggi comprensibili solo a loro. Poi, un giorno, quei segni li avevano condotti fino al bosco. Fino al corpo smembrato di una ragazza. Chi sia stato l’artefice di un simile delitto, in questi trent’anni, non si è mai saputo. Sono state percorse innumerevoli piste, tutte finite in vicoli ciechi, tutte rimaste fredde. La verità di cosa sia successo quel giorno nel bosco non è mai emersa. Ma adesso Ed ha ricevuto una lettera: un unico foglio, un uomo stilizzato, disegnato col gesso. Anche gli altri hanno ricevuto lo stesso messaggio. L’Uomo di Gesso è tornato.
Come inizia.
Prologo
La testa della ragazza giaceva su un piccolo cumulo di foglie arancioni e marroni.
Gli occhi a mandorla fissavano la volta frondosa del sicomoro, del faggio e della quercia, ma non vedevano le incerte dita del sole che si facevano largo tra i rami e tingevano d’oro il terreno del sottobosco. Le palpebre non sbattevano mentre lucenti scarafaggi neri scorrazzavano sulle pupille. Occhi che non vedevano più nulla, solo oscurità.
Poco più in là, una mano pallida si stendeva oltre il suo piccolo sudario di foglie, come per invocare aiuto, per accertarsi di non essere sola. Ma non c’era nessuno. Il resto del corpo giaceva troppo lontano, irraggiungibile, nascosto in altri angoli di quel bosco.
Si spezzò un ramo poco distante, tonante come un petardo nell’immobilità. Un turbinio di ali esplose tra la vegetazione. Una figura si avvicinò.
Si inginocchiò accanto alla ragazza che non poteva vedere più nulla. Le sue mani le carezzarono con delicatezza i capelli e le sfiorarono la guancia fredda, con dita incerte, ardenti. Poi sollevò la testa, spazzò via qualche foglia impigliata sull’orlo sfilacciato del collo, e la mise con la massima attenzione in uno zaino, dove andò a posarsi sopra alcuni gessetti spezzati.
Dopo un attimo di riflessione, allungò la mano per chiuderle gli occhi. Poi richiuse lo zaino, si alzò e la portò via.
Qualche ora dopo, arrivarono gli agenti della polizia e la scientifica. Numerarono, fotografarono, esaminarono e alla fine portarono il corpo della ragazza all’obitorio, dove rimase per diverse settimane, come in attesa del pezzo mancante.
Non arrivò mai. Ci furono ricerche a tappeto, indagini e appelli pubblici ma, nonostante gli sforzi dei detective e di tutti gli uomini della città, la testa non venne mai ritrovata, e la ragazza dei boschi non fu mai ricomposta.
2016
Bisogna iniziare dal principio, certo.
Il problema è che non siamo mai riusciti a metterci d’accordo su quale fosse, questo principio. Forse quando Gav la Palla ha ricevuto il cesto di gessetti per il compleanno? Quando abbiamo iniziato a disegnare gli ometti di gesso, o quando cominciarono a comparire da soli? È stato il terribile incidente, magari? O quando hanno trovato il primo corpo?
Tanti inizi possibili. E ognuno di essi, immagino, potrebbe essere un buon punto di partenza. Ma a dirla tutta io penso che abbia avuto inizio il giorno del luna park. È il giorno che ricordo più vividamente. Per via della Ragazza del Valzer, ovviamente, ma anche perché quello è stato il giorno in cui la normalità è finita, e tutto è diventato diverso.
Se il nostro mondo fosse una di quelle palle di vetro con la neve, è stato quello il giorno in cui un qualche dio distratto l’ha presa e agitata con forza prima di rimetterla al suo posto. Fiocchi e spuma si sono posati, ma le cose non sono tornate più come prima. Cioè, non del tutto. Forse potevano sembrare identiche dall’altra parte del vetro, ma dentro, dentro tutto era diverso.
Quello è stato anche il giorno in cui ho incontrato per la prima volta il signor Halloran; perciò, dato che un inizio deve pur esserci, direi che questo può andare bene.
1986
«Tempesta in arrivo, Eddie.»
Mio padre adorava azzardare previsioni meteo con voce profonda e autorevole, come gli annunciatori alla tele. Parlava sempre con assoluta sicurezza, anche se di solito non ci azzeccava.
Guardai fuori dalla finestra, il cielo era di un blu perfetto, così intenso che dovevi stringere gli occhi per non restare abbagliato.
«Non sembra che ci sarà una tempesta, papà» dissi, con la bocca piena. Stavo mangiando un sandwich al formaggio.
«Certo, e lo sai perché? Perché non ci sarà proprio nessuna tempesta» intervenne mamma, che era entrata in cucina all’improvviso, senza far rumore, come una specie di ninja. «La BBC dice che ci sarà il sole e farà caldo per tutto il weekend… e non parlare a bocca piena, Eddie» aggiunse.
«Uhm» rispose papà, come del resto faceva sempre quando non era d’accordo con mamma ma non osava dirle che aveva torto.
Nessuno aveva il coraggio di affrontarla di petto. Mia madre era – e lo è ancora, del resto – minacciosa sotto molti aspetti. Alta, con capelli corti e scuri, occhi marroni che potevano accendersi di gioia o infiammarsi di nera furia quando si arrabbiava (e, un po’ come l’Incredibile Hulk, nessuno ci teneva a farla arrabbiare).
Mamma era una dottoressa, ma non una normale, come quelle che mettono i punti sulle gambe o ti fanno delle iniezioni e roba del genere. Papà una volta mi disse che la mamma «aiutava le donne che erano nei guai». Non specificò che genere di guai, ma immaginavo fossero piuttosto seri, se avevano bisogno di un medico.
Anche papà lavorava, ma da casa. Era uno scrittore, lavorava per riviste e giornali. Non tutto il tempo, però. A volte si lamentava perché nessuno gli dava lavoro oppure, con una risata amara, diceva: «Questo mese non ho il mio pubblico, Eddie».
Io ero solo un ragazzino e mi sembrava che il suo non fosse un lavoro «vero». Un lavoro adatto a un papà. Un papà doveva mettersi la cravatta e uscire la mattina per andare in ufficio e tornare a casa la sera, più o meno all’ora del tè. Mio padre andava a lavorare nell’altra stanza e si sedeva davanti al computer con il pigiama e una maglietta, a volte senza nemmeno pettinarsi.
Era diverso dagli altri papà anche nell’aspetto. Aveva una barba folta e incolta, capelli lunghi che teneva legati in una coda di cavallo. Indossava dei jeans strappati tutti pieni di buchi, persino d’inverno, e magliette scolorite con sopra il nome di vecchi gruppi, tipo Led Zeppelin e Who. A volte portava anche dei sandali.
Gav la Palla una volta disse che mio papà era un «hippie di merda». Probabilmente aveva ragione, ma all’epoca io lo presi come un insulto, gli diedi una spinta e lui mi gettò a terra, e me ne tornai a casa barcollando con dei lividi nuovi e un naso che sanguinava.
Più tardi facemmo pace, naturalmente. Gav la Palla poteva essere una vera testa di pinolo quando ci si metteva. Era uno di quei ragazzini ciccioni che devono sempre essere i più casinisti e odiosi per scoraggiare i bulli veri, ma era anche uno dei miei migliori amici e una delle persone più leali e generose che conoscessi.
«Devi sempre prenderti cura dei tuoi amici, Eddie Munster» mi disse una volta in tono solenne. «Gli amici sono tutto.»
Eddie Munster era il mio soprannome. Perché di cognome facevo Adams, come la Famiglia Addams, insomma. Naturalmente, il bambino della Famiglia Addams si chiamava Pugsley, e Eddie Munster in realtà era quello di The Munsters, ma al tempo a certe cose non si faceva caso e quel soprannome mi rimase incollato addosso, come capita talvolta.
Eddie Munster, Gav la Palla, Mickey Metallo (per colpa del gigantesco apparecchio ai denti), Hoppo (David Hopkins) e Nicky. La nostra banda. Nicky non aveva un soprannome perché era una ragazza, anche se cercava con tutte le sue forze di nasconderlo. Diceva parolacce come un maschio, si arrampicava sugli alberi come un maschio e quando faceva a botte poteva vedersela alla pari con tutti i maschi o quasi. Eppure a guardarla si capiva subito che era una ragazza. E anche molto carina, con lunghi capelli rossi e la pelle chiara, spruzzata da innumerevoli lentiggini. Non che io ci facessi caso, eh, figuriamoci.
Dovevamo vederci tutti quanti quel sabato. Ci incontravamo quasi ogni sabato, per andare a casa di qualcuno di noi, o al parco giochi, o a volte in giro per i boschi. Ma quel sabato era speciale, perché c’era il luna park. Arrivava ogni anno, lo tiravano su al parco, vicino al fiume. Quell’anno per la prima volta avevamo il permesso di andare da soli, senza adulti a controllarci.
Aspettavamo quel giorno da settimane, sin da quando i primi manifesti erano comparsi sui muri della città. Ci sarebbe stato l’autoscontro e anche l’ottovolante, la nave dei pirati e l’Orbiter. Era superfico.
«Allora» dissi, finendo il sandwich al formaggio più velocemente che potevo, «con gli altri sono rimasto d’accordo per vederci fuori dal parco alle due, va bene?»
«Be’, mi raccomando, non ti allontanare dalle strade principali» disse mamma. «Niente scorciatoie, niente vie secondarie, e non parlare con nessuno che non conosci.»
«Va bene.»
Mi allontanai dalla sedia e mi diressi alla porta.
«E portati il marsupio.»
«Oh, mammaaaaa.»
«Andrai sulle giostre e chissà dove, e il portafoglio ti potrebbe cadere. Marsupio. E niente discussioni.»
Aprii la bocca e la richiusi immediatamente. Sentivo le guance andare a fuoco. Odiavo quello stupido marsupio. I turisti ciccioni portavano il marsupio. Non sarei mai sembrato fico di fronte ai ragazzi e a Nicky. Soprattutto a Nicky. Ma mamma era fatta così: niente discussioni con lei.
«Bene.»
In realtà non andava bene, ma vedevo le lancette dell’orologio della cucina che correvano verso le due e dovevo filare, e subito. Filai su per le scale, afferrai quello stupido marsupio e ci misi dentro i soldi. Cinque bigliettoni. Una fortuna. Poi tornai di sotto a passo di carica.
«A dopo.»
«Divertiti.»
Certo che mi sarei divertito, non avevo il minimo dubbio. C’era un bel sole. Avevo la mia maglietta preferita e le Converse. Sentivo l’attutito thump, thumpdelle musiche del luna park, l’odore degli hamburger e dello zucchero filato. Sarebbe stata una giornata perfetta.
Gav la Palla, Hoppo e Mickey Metallo erano già davanti all’ingresso quando arrivai.
«Ehi, Eddie Munster. Ma che bel borsello!» urlò Gav la Palla.
Diventai rosso, anzi probabilmente viola, e gli mostrai il medio. Hoppo e Mickey Metallo ridacchiarono per la battuta. Poi Hoppo, che era sempre il più gentile, quello che metteva pace tra tutti, disse a Gav la Palla: «Almeno non è una cosa da gay come i tuoi pantaloncini, testa di pinolo».
Lui fece una smorfia, tese l’orlo dei pantaloncini e fece una specie di balletto, sollevando le gambe tozze come se fosse una ballerina. Gav la Palla era fatto così. Era impossibile insultarlo, perché tanto se ne fregava. O, almeno, era quello che faceva pensare a tutti.
«E comunque» dissi, perché nonostante il diversivo di Hoppo mi sentivo ancora un cretino con quel marsupio addosso, «mica me lo porto.»
Sganciai la chiusura, mi infilai il portafoglio nella tasca dei pantaloni e mi guardai intorno. Una folta siepe correva per tutto il perimetro del parco. Infilai il marsupio in mezzo ai rovi, così nessuno lo avrebbe visto anche se ci fosse passato proprio davanti, e allo stesso tempo non avrei avuto problemi a riprenderlo prima di tornare a casa.
«Sicuro di volerlo lasciare lì?» chiese Hoppo.
«Già, che succede se la mammina lo viene a sapere?» si inserì Mickey Metallo, con quella sua solita cantilena maligna.
Anche se faceva parte della nostra banda ed era il miglior amico di Gav la Palla, a me Mickey Metallo non era mai piaciuto granché. In lui c’era qualcosa di freddo e orribile come la ferraglia che portava appiccicata ai denti. Ma forse non c’era da sorprendersi, con il fratello che si ritrovava.
«Non mi importa» mentii con un’alzata di spalle.
«Sapessi a noi» disse Gav la Palla, impaziente. «Possiamo lasciar perdere quel cavolo di borsello e darci una mossa? Voglio iniziare con l’Orbiter.»
Mickey Metallo e Hoppo erano pronti a partire – di solito facevamo tutto quello che voleva Gav la Palla. Probabilmente perché era il più grosso e quello che faceva più casino.
«Ma Nicky non è ancora arrivata» dissi.
«E allora?» rispose Mickey Metallo. «Lei arriva sempre tardi. Andiamo. Ci troverà.»
Mickey aveva ragione. Nicky era semprein ritardo. D’altra parte, non erano quelli i patti. Dovevamo rimanere insieme, uniti. Non era sicuro andare al luna park da soli. Soprattutto per una ragazza.
«Diamole altri cinque minuti» proposi.
«Non puoi dire sul serio!» esclamò Gav la Palla, facendo la sua migliore – e cioè, pessima – imitazione di John McEnroe.
Gav la Palla faceva un sacco di imitazioni. Soprattutto di personaggi americani. Tutte così pessime che ci facevano pisciare sotto dalle risate.
Mickey Metallo non rise forte come Hoppo e me. Non gli piaceva che la sua banda gli andasse contro. Ma comunque non aveva alcuna importanza, perché avevamo appena finito di ridere quando una voce familiare ci raggiunse: «Che c’è di così divertente?».
Ci voltammo. Nicky stava risalendo la collina, verso di noi. Come sempre, sentii qualcosa che mi svolazzava nello stomaco non appena la vidi. Come se all’improvviso stessi morendo di fame e allo stesso tempo mi venisse un po’ da vomitare.
Quel giorno i suoi capelli rossi erano sciolti, le ricadevano sulla schiena in ciocche disordinate e scomposte, arrivavano quasi a sfiorarle l’orlo dei jeans corti e sfilacciati. Indossava una camicetta gialla, senza maniche, con dei fiorellini blu sul colletto. Intravidi un luccichio argenteo all’altezza della gola. Un piccolo crocifisso appeso a una catenella. Portava una borsa di iuta sulle spalle, sembrava pesante.
«Sei in ritardo» disse Mickey Metallo. «Ti stavamo aspettando.»
Come se fosse stata una sua idea.
«Che c’è nella borsa?» chiese Hoppo.
«Papà vuole che distribuisca questa merda al luna park.»
Tirò fuori un volantino e ce lo fece vedere.
Venite alla chiesa di St. Thomas e innalzate lodi al Signore. Nessuna corsa alle giostre è così emozionante!
Il padre di Nicky era il pastore della chiesa locale. In realtà io non c’ero mai stato, nella sua chiesa – non era roba adatta a mamma e papà – ma l’avevo visto in giro. Portava piccoli occhiali tondi, aveva una pelata coperta di lentiggini, un po’ come il naso di Nicky. Sorrideva sempre e salutava, a me però sembrava solo un po’ inquietante.
«Ehi, questa sì che è una bella montagna di merda puzzolente, amico» disse Gav la Palla.
«Merda puzzolente» o «Merda volante»: due delle espressioni preferite di Gav la Palla, di solito seguite da «amico» con un accento da snob, chissà poi perché.
«Non vorrai farlo sul serio, vero?» chiesi, e all’improvviso mi apparve davanti la prospettiva dell’intera giornata irrimediabilmente rovinata, a caracollare dietro a Nicky mentre lei distribuiva i suoi volantini.
Mi lanciò un’occhiata. Mi ricordò un po’ mia madre in quel momento.
«Ma certo che no, furbone» disse. «Ne prendiamo un po’, li gettiamo qua e là, come se li avessero letti e buttati via, e poi ficchiamo gli altri in un cestino.»
Sorridemmo tutti. Non c’è niente di meglio di fare qualcosa che non dovresti e fregare un adulto in una mossa sola.
Sparpagliammo i volantini, scaricammo la borsa e ce ne andammo per i fatti nostri. L’Orbiter (ora, quello sì che era fico), l’autoscontro – Gav la Palla mi centrò così forte che sentii lo schiocco della spina dorsale – i Razzi (piuttosto eccitanti l’anno prima ma adesso un po’ noiosi), lo scivolo, il Meteorite e la nave dei pirati.
Mangiammo hot dog. Gav la Palla e Nicky cercarono di pescare le anatre di plastica e impararono sulla loro pelle che quando dicono che si vince sempre, non sempre vinci quello che vuoi davvero: vennero via ridendo e lanciandosi addosso i loro schifosi pupazzetti.
Il pomeriggio ci stava scappando dalle mani. L’eccitazione e l’adrenalina iniziavano a scemare, accompagnati dalla consapevolezza sempre più acuta che mi restavano soldi per due o tre giri, non di più.
Mi misi la mano in tasca per prendere il portafoglio. Il cuore mi saltò dritto in bocca. Non c’era più. Sparito.
«Merda!»
«Che c’è?» chiese Hoppo.
«Il portafoglio. L’ho perso.»
«Sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro, cavolo.»
Ma controllai lo stesso l’altra tasca. Vuota anche quella. Merda.
«Quando l’hai visto l’ultima volta?» chiese Nicky.
Mi sforzai di ricordare. Di sicuro ce l’avevo dopo l’ultima corsa, perché avevo controllato. E poi, avevamo comprato gli hot dog subito dopo. Avevo lasciato perdere le anatre di plastica, quindi…
«Il chioschetto degli hot dog.»
Il chioschetto degli hot dog era dall’altra parte del luna park, nella direzione opposta rispetto all’Orbiter e al Meteorite.
«Merda» dissi di nuovo.
«Forza» fece Hoppo. «Andiamo a cercarlo.»
«Ma non ha senso» disse Mickey Metallo. «Qualcuno l’avrà già preso.»
«Posso prestarti qualcosa» disse Gav la Palla. «Ma non mi resta granché.»
Ero abbastanza sicuro che fosse una bugia. Gav la Palla aveva più soldi di tutti noi. Proprio come aveva sempre avuto i migliori giocattoli e la bici più nuova e scintillante. Suo padre possedeva uno dei pub in città, il Bull, e la madre lavorava per la Avon. Gav la Palla era generoso, ma io sapevo che voleva da matti farsi qualche altro giro.
Scossi la testa. «Grazie. Non fa niente.»
Non era vero. Sentivo già le lacrime bruciarmi gli occhi. Non era solo per i soldi persi. Era che mi sentivo stupido, era che la giornata era rovinata. E sapevo che mamma si sarebbe arrabbiata e mi avrebbe rifilato un «te l’avevo detto».
«Voi andate» dissi. «Io torno e do un’occhiata in giro. Non c’è motivo di perdere tempo tutti quanti.»
«Ottimo» disse Mickey Metallo. «Andiamo, su.»
E così levarono le tende. Capivo che erano sollevati. Non erano mica loro quelli senza soldi, non era la loro giornata a essere ormai compromessa. Cominciai la mia marcia verso il chioschetto degli hot dog. Era proprio dall’altra parte rispetto al Valzer, perciò usai la grande, vecchia giostra come punto di riferimento. Era impossibile sbagliarsi, si vedeva benissimo. Proprio al centro del luna park.
La musica riempiva l’aria, distorta da altoparlanti antichi. Luci multicolori lampeggiavano e la gente urlava mentre le carrozze di legno giravano e giravano e giravano, sempre più veloci, intorno alla struttura.
Mi avvicinai, abbassai lo sguardo, procedendo più lentamente, esaminando ogni centimetro del terreno. Immondizia, rifiuti, cartacce di hot dog, niente portafoglio. Certo che no. Mickey Metallo aveva ragione. Di sicuro qualcuno l’aveva preso e mi aveva fregato i soldi.
Un sospiro, poi rialzai lo sguardo. Vidi prima Viso Pallido. Non era quello il suo nome, chiaramente. Scoprii in seguito che si chiamava Halloran, ed era il nostro nuovo insegnante.
Non era certo uno che passava inosservato. Era molto alto, tanto per iniziare, e magro. Jeans slavati, maglietta bianca fuori misura, un grosso cappello di paglia. Sembrava quel vecchio cantante degli anni Settanta, quello che piaceva a mia madre. David Bowie.
Viso Pallido era proprio vicino al chioschetto degli hot dog, beveva una granita blu con una cannuccia e osservava la gente sul Valzer. Be’, pensavo che guardasse la gente del Valzer.
Mi ritrovai a guardare nella sua stessa direzione, e fu allora che vidi la ragazza. Ero ancora incazzato per il portafoglio, ma ero anche un ragazzino di dodici anni con gli ormoni che avevano appena iniziato a ribollire e scoppiettare. Le notti nella mia stanza non sempre passavano innocenti con un fumetto letto alla luce della torcia sotto le coperte.
La ragazza era in compagnia di un’amica, una biondina che mi pareva vagamente di conoscere. Forse l’avevo vista in città (suo padre era un poliziotto, qualcosa del genere), ma la mia mente la cancellò all’istante. È una triste verità: la bellezza, la vera bellezza, eclissa tutto e tutti quelli che ha intorno. È molto semplice. L’amica biondina era carina, ma la Ragazza del Valzer – l’avrei sempre chiamata così nella mia testa, anche dopo aver scoperto il suo vero nome – era bella al quadrato. Alta e slanciata, con lunghi capelli scuri e gambe ancora più lunghe, così lisce e abbronzate che brillavano al sole. Indossava una gonnellina corta e una canottiera ampia con la scritta RELAX sopra un top verde fluorescente. Si sistemò i capelli dietro un orecchio e il cerchio dorato di un orecchino brillò al sole.
Un po’ mi vergogno a dire che all’inizio non guardai bene il suo viso, ma quando si voltò per parlare con l’amica biondina non ne rimasi affatto deluso. Era bella da fermarti il cuore, con le labbra piene e gli occhi col sinuoso taglio a mandorla.
Un istante dopo era sparita.
Un attimo prima lei era lì, il suo volto era lì, e subito dopo ci fu questo rumore terribile, un frastuono da spaccare i timpani, come se una qualche gigantesca bestia avesse lanciato il suo ululato dalle viscere della Terra. Più tardi scoprii che era il rumore del perno del vecchio asse del Valzer che saltava. Troppo uso, troppa poca manutenzione. Vidi un lampo d’argento e il suo volto, cioè, metà del suo volto, venne tagliato via di netto, lasciando un enorme cumulo di cartilagine, ossa e sangue. Tanto, tantissimo sangue.
Una frazione di secondo dopo, ancora prima che avessi il tempo di aprire la bocca per urlare, qualcosa di enorme e viola e nero mi sfrecciò accanto e volò via. Un boato assordante – la carrozza del Valzer che si schiantava contro il chioschetto degli hot dog in una nube di metallo volante e schegge di legno – e ancora urla, grida di gente che si tuffava verso la salvezza. Mi buttarono a terra, mi calpestarono, mi travolsero.
Altre persone mi caddero addosso. Un piede mi schiacciò il polso. Un ginocchio mi colpì sulla testa. Uno stivale mi affondò nelle costole. Strillai ma in qualche modo riuscii a raggomitolarmi e rotolai via. Poi gridai di nuovo. La Ragazza del Valzer era proprio accanto a me. Per fortuna i capelli le erano ricaduti sul volto, ma riconobbi la canottiera e il top fluorescente, anche se entrambi erano zuppi di sangue. Altro sangue le correva lungo la gamba. Un secondo pezzo di lamiera affilata le aveva perforato l’osso, proprio sotto il ginocchio. La parte inferiore della gamba si era praticamente staccata, solo un fascio di legamenti filamentosi la tenevano insieme al resto del corpo.
Cominciai a strisciare via. Era evidente che fosse morta. Non potevo fare nulla. E fu allora che la sua mano scattò verso di me e mi afferrò il braccio.
Voltò la faccia, quella faccia piena di sangue, maciullata, nella mia direzione. Da qualche parte, in mezzo a tutto quel rosso, un solo occhio marrone mi fissava. L’altro era in precario equilibrio sulla guancia tumefatta.
«Aiutami» gracchiò. «Aiutami.»
Volevo scappare. Volevo urlare e piangere e vomitare, tutto nello stesso istante. E forse avrei fatto tutte e tre le cose se un’altra mano, grande e solida, non si fosse stretta a morsa sulla mia spalla e una voce dolce non avesse detto: «Va tutto bene. So che sei spaventato, ma ho bisogno che tu mi stia a sentire con la massima attenzione e faccia esattamente quello che ti dico di fare».
Mi voltai. Viso Pallido mi fissava dall’alto in basso. Solo in quel momento mi resi conto che il suo volto, sotto quel cappello a tesa larga, era bianco quasi quanto la maglietta che indossava. Persino gli occhi erano di un grigio nebbia traslucido. Sembrava un fantasma, un vampiro, e in qualsiasi altra circostanza probabilmente sarei stato terrorizzato. Ma in quell’istante era un adulto, e avevo bisogno che un adulto mi dicesse cosa fare.
«Come ti chiami?» chiese.
«Ed… Eddie.»
«Okay, Eddie. Sei ferito?»
Scossi la testa.
«Bene. Ma questa ragazza sì, perciò dobbiamo aiutarla, d’accordo?»Annuii.
«Ecco cosa devi fare… prendi la sua gamba, ecco, e tienila forte, più forte che puoi.»
Mi prese le mani e le accompagnò intorno alla gamba della ragazza. Era calda, scivolosa, con tutto quel sangue.
«Presa?»
Annuii di nuovo. Sentivo il sapore amaro e metallico della paura sulla lingua. E sentivo il sangue che filtrava tra le dita, anche se stringevo quella gamba con tutte le mie forze, sì, con tutta la forza che avevo…
In lontananza, da una distanza che mi pareva immensamente più grande di quanto non fosse in realtà, arrivavano il rimbombo della musica e le urla divertite della gente. Le grida della ragazza invece erano cessate. Se ne stava lì, immobile e silenziosa adesso, c’era solo il lieve raschiare del suo respiro, e anche quello si faceva più debole ogni secondo che passava.
«Eddie, devi concentrarti. Okay?»
«Okay.»
Fissai Viso Pallido. Si sfilò la cintura dai jeans. Era una cintura lunga, troppo lunga per la sua vita magra, e infatti ci aveva fatto fare dei buchi in più. È buffo, ma nei momenti più merdosi noti delle cose assurde. Per esempio avevo notato che la Ragazza del Valzer aveva perso una scarpa. Un sandalo di plastica trasparente. Rosa acceso. E pensai che probabilmente non ne avrebbe mai più avuto bisogno, adesso che la sua gamba era praticamente tagliata in due.
«Sei ancora con me, Eddie?»
«Sì.»
«Bene. Ci siamo quasi. Te la stai cavando alla grande, Eddie.»
Viso Pallido prese la cintura e la legò intorno alla gamba della ragazza, in alto. Tirò forte, proprio forte. Era più tonico di quanto sembrasse. E quasi immediatamente sentii il gorgoglio del sangue che rallentava.
Mi guardò e annuì. «Adesso puoi lasciare. Ho fatto.»
Tirai via le mani. Senza la tensione, iniziarono a tremare. Me le strinsi intorno al corpo, ficcandomele sotto le braccia.
«Se la caverà?»
«Non lo so. Spero che sia possibile salvarle la gamba.»
«E la faccia?» sussurrai.
Mi guardò, e qualcosa in quegli occhi pallidi e grigi mi ridusse al silenzio. «Le stavi guardando la faccia prima, Eddie?»
Aprii la bocca, ma non sapevo proprio cosa dire, e non capivo perché la sua voce non sembrasse più così amichevole.
Poi guardò dall’altra parte, di nuovo, e disse piano: «Sopravvivrà. È questa la cosa importante».
In quel momento un terribile boato, come di tuono, esplose sopra di noi e le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere dal cielo.
Credo che quel giorno, per la prima volta in vita mia, mi resi conto che tutto può cambiare in un solo istante. Tutto ciò che diamo per scontato può esserci strappato via così, in un battito di ciglia. Forse è per questo che lo presi. Per aggrapparmi a qualcosa. Per tenerlo al sicuro. O almeno, è quello che mi dissi.
Ma come molte delle cose che raccontiamo a noi stessi, probabilmente anche questa era solo una montagna di merda puzzolente.
Il giornale locale disse che eravamo degli eroi. Chiamarono me e il signor Halloran, ci fecero tornare in quel parco e ci scattarono delle foto.
Incredibilmente, le due persone che si trovavano nella carrozza del Valzer che si era spezzata se la cavarono con qualche osso rotto, un paio di tagli e parecchi lividi. Altri passanti si ritrovarono dei brutti squarci che richiesero un bel po’ di punti, e ci furono altre fratture e costole incrinate nel fuggi fuggi generale.
Persino la Ragazza del Valzer (il suo vero nome era Elisa) se la cavò. I dottori riuscirono a riattaccarle la gamba e in qualche modo a salvarle l’occhio. I giornali dissero che era un miracolo. Ma di certo non usarono quella parola per il resto del suo volto.
Pian piano, come succede con tutte le tragedie e tutti i drammi, l’interesse cominciò a scemare. Gav la Palla la piantò con i suoi scherzi di pessimo gusto (diceva che a forza di andare con la zoppa avrei imparato a zoppicare) e persino Mickey Metallo si stancò di chiamarmi «Minisupereroe» e di chiedermi dove avessi lasciato il mantello. Altre notizie, altri gossip rimpiazzarono i vecchi. Ci fu un incidente stradale sulla A36, il cugino di un ragazzo della scuola morì, e poi Marie Bishop, che aveva quindici anni, rimase incinta. La vita, com’è sua abitudine, andò avanti.
Per me non era un grosso problema. Io stesso cominciavo a stancarmi di quella storia. E non ero proprio uno di quei ragazzi che amano stare al centro dell’attenzione. E poi, meno ne parlavo, meno dovevo raffigurarmi il volto sparito della Ragazza del Valzer. Gli incubi pian piano si fecero meno frequenti. Le spedizioni segrete al cesto dei panni sporchi con lenzuola zuppe divennero più rare.
La mamma mi chiese un paio di volte se volessi andare a trovare la Ragazza del Valzer in ospedale. Io dicevo sempre di no. Non volevo più rivederla. Non volevo guardare il suo volto deturpato. Non volevo che quegli occhi marroni mi fissassero accusatori: So che volevi scappare, Eddie. Se il signor Halloran non ti avesse afferrato, tu mi avresti lasciato lì a morire.
Credo che invece il signor Halloran ci andasse, in ospedale. E anche di frequente. Il tempo non gli mancava, immagino. Non avrebbe cominciato con la scuola prima di settembre. A quanto pareva, aveva deciso di trasferirsi nel suo cottage preso in affitto con qualche mese di anticipo, per ambientarsi con calma nella nuova città.
Una buona idea, suppongo. Così tutti avrebbero avuto modo di abituarsi a vederlo in giro. E così poteva anche sbarazzarsi di tutte le domande prima di entrare in classe:Che cos’ha la sua pelle? Era un albino, spiegavano pazienti gli adulti. Il che voleva dire che gli mancava una cosa chiamata «pigmento» che dava alla pelle di gran parte delle persone il normale colorito rosa o scuro. E gli occhi? La stessa cosa. Solo il pigmento che mancava. Perciò non è un mostro, uno scherzo della natura o un fantasma? No. Solo un uomo normale con una patologia clinica.
Si sbagliavano. Il signor Halloran era molte cose, ma di sicuro non un uomo normale.
2016
La lettera arriva senza squilli di tromba, senza alcun presentimento profetico. Scivola attraverso la buca della posta, strizzata tra un modulo per le donazioni alla lotta contro il cancro e il volantino di una nuova pizzeria da asporto.
Chi diavolo manda più delle lettere al giorno d’oggi? Persino mia madre, alla tenera età di settantotto anni, ha fatto il grande salto e usa email, Twitter e Facebook. A dirla tutta, di tecnologia ne capisce più di me. Io tendo al luddismo – distruggiamo le macchine! – e questa è una perenne fonte di divertimento per i miei studenti, che non fanno altro che parlare di Snapchat, lista preferiti, tag e Instagram. Per me potrebbe anche essere cinese. «Ero convinto di insegnare letteratura inglese» commento ogni tanto, mestamente. Quello che dite per me è una montagna di merda volante.
Non riconosco la scrittura sulla busta, ma è anche vero che ormai faccio fatica a riconoscere persino la mia grafia. Oggi comandano tastiere e touchscreen.
Apro la lettera ed esamino il contenuto al tavolo della cucina, sorseggiando una tazza di caffè. Cioè, non è proprio così. In realtà me ne sto seduto al tavolo e fisso la lettera, mentre una tazza di caffè si raffredda vicino alla mia mano.
«Che roba è?»
Mi volto e mi guardo intorno. Chloe entra in cucina. Sbadiglia, è appena riemersa dalle nebbie del sonno. Non ha ancora addomesticato i capelli tinti di nero, le ciocche ribelli spuntano qua e là. Indossa una vecchia maglietta dei Cure, e ieri sera non si è struccata come si deve.
«Questa» le dico, ripiegandola con cura «è ciò che si chiama una lettera. Le persone un tempo la utilizzavano come mezzo di comunicazione.»
Mi gela con un’occhiataccia prima di mostrarmi il dito medio. «Vedo che parli, ma le mie orecchie sentono solo bla bla bla.»
«È questo il problema dei giovani d’oggi. Non ascoltano.»
«Ed, potresti a malapena essere mio padre. Quindi perché parli come se fossi mio nonno?»
Ha ragione. Ho quarantadue anni, e Chloe poco meno di trenta (credo che non me lo abbia mai detto con precisione e io sono troppo gentleman per chiederlo). Non ci sono così tanti anni di differenza, ma a me spesso sembrano interi decenni.
Chloe è giovane e fresca e potrebbe passare per una teenager. Io no, e potrei anche passare per un pensionato. «Logorato dall’uso»: ecco una definizione affettuosa per il mio look. Anche se ho scoperto che non è l’uso a logorarti, ma le preoccupazioni. I rimpianti.
Ho ancora i capelli folti e neri, quasi tutti, ma ho anche parecchie rughe d’espressione, e ormai non esprimono più nulla. Come succede spesso alle persone alte, sto sempre ricurvo, e di solito mi vesto seguendo uno stile che Chloe definisce «chic di quarta mano». Giacca, pantaloni, gilet, scarpe seriose. Certo, anche io possiedo dei jeans, ma non li metto per andare al lavoro. E quando non sono rintanato nel mio studio, di solito sono quasi sempre al lavoro. Durante le vacanze spesso do ripetizioni o lezioni private.
Potrei dire che lo faccio perché adoro insegnare, ma nessuno ama il proprio lavoro fino a questo punto. La verità è che mi servono i soldi. Che è anche il motivo per cui Chloe vive qui. Mi paga l’affitto ed è un’amica. Almeno, mi piace pensarlo.
Lo ammetto, siamo una coppia stramba. Chloe non è certo l’inquilina che avrei scelto in circostanze normali. Ma il tizio con cui ero in parola ha fatto saltare tutto all’ultimo istante e la figlia di una conoscente mi ha parlato di «questa ragazza» a cui serviva urgentemente una stanza. A quanto pare la cosa funziona, e l’affitto è una bella boccata di ossigeno. Come la compagnia.
Potrebbe sembrare strano che abbia bisogno di dare una stanza in affitto: il mio stipendio è relativamente buono e la casa in cui abito l’ho ricevuta da mia madre. Di sicuro gran parte della gente la considera una condizione ideale per condurre una vita confortevole e libera dall’incubo del mutuo.
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L’autrice.
C.J. TUDOR è nata a Salisbury e cresciuta a Nottingham, dove vive con la famiglia. Dopo aver lasciato la scuola a sedici anni, ha cambiato diversi lavori, è stata reporter, doppiatrice, cameriera, autrice per la radio, presentatrice di un programma televisivo in cui intervistava le più grandi celebrità di Hollywood. Ha iniziato a scrivere questo romanzo ispirata da una scatola di gessetti colorati che un amico aveva regalato a sua figlia per il compleanno. Di sera quei disegni sul vialetto di casa avevano assunto un’aria sinistra. L’uomo di gesso, in uscita in contemporanea negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è il thriller più atteso del 2018.
- L’ uomo di gesso
- C. J. Tudor
- Traduttore: Sandro Ristori
- Editore: Rizzoli
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Dimensioni: 545,96 KB
- Pagine della versione a stampa: 347 p.