L’uomo è un mistero, un mistero che è necessario conoscere, ricercare, scoprire

 

L’UOMO: UN MISTERO E INSIEME UN MIRACOLO

«Comprendersi e comprendere il mondo è forse una delle imprese più grandi che l’uomo debba affrontare nella sua vita. Esistono, però, in ogni epoca, eroine ed eroi che gli mostrano che questo lungo e periglioso viaggio nella conoscenza di sé e della propria umanità non è impossibile. 


Oliver Sacks nel 1985 pubblica un libro intitolato L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, che non è solo un romanzo, non è solo poesia o solo un saggio o un semplice trattato medico ma può essere tutte queste cose insieme. Oliver Sacks, medico e professore di neurologia allo Albert Einstein di New York, in questo libro è uno scrittore che passa continuamente dall’essere medico all’essere un cantastorie, non di storie inventate ma di fatti realmente accaduti. Egli li analizza attraverso la grandezza della scienza medica e allo stesso tempo con tutta la piccolezza dell’essere uomini.

Il libro mette insieme le storie di alcuni pazienti che il dottore ha avuto in cura come neurologo. Esso si divide in quattro parti e ciascuna si sofferma ad analizzare un particolare disturbo. In questo articolo ci soffermeremo solo su alcuni pazienti.

Il professore analizza malattie gravi che attaccano il cervello; a volte le cause si conoscono altre volte no. Il campo della mente è vastissimo, forse, infinito. Alcuni disturbi nascono a seguito di un ictus, altri sono presenti fin dalla nascita, altri arrivano con l’età, altri sono effetti di malattie quali il Parkinson o la sindrome di Tourette.

Il primo paziente che è anche quello che darà il nome al libro è un certo dottor P: grande musicista, estremamente intelligente. Ad un certo periodo della sua vita cominciò piano a piano a far fatica a riconoscere le facce dei suoi allievi, li riconosceva solo dalla voce o da un particolare, fino a quando  iniziò ad avere anche comportamenti strani, talmente strani che vennero presi in un primo momento per scherzi e il dottor P. venne considerato una persona estremamente umoristica: per la strada gli capitava di dare dei colpetti affettuosi agli idranti, oppure di conversare con i pomelli delle porte rimanendoci male quando questi non gli rispondevano. Andò dal professore, il quale, ad una prima occhiata, non vide niente di anormale, anzi continuava a chiedersi perché il dottor P. fosse andato da lui. Gli chiese di togliersi le scarpe e fare un esercizio che andò bene; ma nel momento di rimettersele il dottor P era concentrato sul suo piede e quando il professore gli indicò la scarpa lui ridendo disse: «Ah pensavo fosse il mio piede!» Infine, credendo che la visita fosse finita e fosse quindi il momento di andare, il dottor P cercò il suo cappello, si avvicinò alla moglie e la prese per i capelli: l’aveva scambiata per il suo cappello. Il professore restò pietrificato, non aveva mai visto una cosa del genere! Dopo qualche giorno, andò a trovare il suo paziente a casa sua per vedere come si sarebbe comportato nel suo ambiente. La chiacchierata fu intensa, piacevole, i discorsi del dottor P erano molto interessanti. Ad un certo punto la moglie li invitò a prendere una tazza di caffè; e quando si sedettero all’improvviso si sentì suonare alla porta: in quel momento il dottor P sembrò avere un attimo di black-out: si bloccò senza muovere un muscolo; allora la signora P, che evidentemente era abituata a quegli episodi, gli si avvicinò con la tazza del caffè ed egli, sentendone l’aroma, riprese come se niente fosse. La moglie spiegò al professore che suo marito aveva l’abitudine di canticchiare in ogni momento come per darsi il ritmo, come per stare al mondo, e infatti se qualcosa o qualcuno improvvisamente interrompevano la sua musica lui si bloccava completamente. Il professore terribilmente affascinato ascoltava e infine chiese alla signora P alcuni chiarimenti sui quadri del marito, il quale oltre ad essere musicista si dilettava anche nell’arte. La signora gli mostrò i quadri dicendo che secondo lei si vedeva il passaggio artistico che il dottor P aveva avuto dal realismo al cubismo; il professore invece li guardò e li analizzò con altri occhi: i quadri, essendo tra l’altro messi in ordine cronologico, mostravano in realtà il progredire della malattia sebbene, come il professore stesso ebbe a notare, arte e follia si trovino spesso a dialogare o lottare insieme.

Oliver Sacks si rese conto in definitiva che il suo paziente guardava solo il particolare dal momento che le persone o le cose le riconosceva da un aspetto preciso; una scena, un’immagine, una persona, un oggetto, però, nel suo insieme non riusciva a capire cosa fosse e cosa significasse: non seppe spiegare l’immagine di un paesaggio, il volto di Einstein lo riconobbe solo dai capelli, i guanti che gli porse il professore non capì cosa fossero e una rosa non la riconobbe se non dal profumo. «Visivamente, era smarrito in un mondo di astrazioni inanimate. Anzi, non possedeva un mondo visivo reale, così come non possedeva un sé visivo reale. Poteva parlare delle cose, ma non le vedeva direttamente.» C’era qualcosa che non andava nell’emisfero sinistro del cervello, ma con precisione non si capì e infatti il professore si congedò dal suo paziente così:

«Dove sia il guasto non so proprio dirglielo, […] ma le dirò che cosa funziona bene, a mio avviso: lei è un ottimo musicista, e la musica è la sua vita. In un caso come il suo, ciò che prescriverei è una vita interamente dedita alla musica. Finora la musica è stata il centro della sua esistenza; ora la faccia diventare la sua intera vita.» 

Oliver Sacks pensò che molto probabilmente la musica aveva preso, per il dottor P, il posto dell’immagine. Conobbe un uomo che aveva completamente perso il senso dell’immaginazione, che a stento riconosceva la moglie, ma che continuava a mantenere viva una parte di umanità. La musica era diventata il suo linguaggio. Vedeva grazie alla melodia. Senza la musica era un uomo perso nel nulla, ma con essa tornava nel mondo, era diventata l’unico modo per vivere.

Parlare di essere e niente, parlare di esistenza è facile quando si può vedere, sentire, toccare, muoversi, quando ci si riconosce e si riconoscono gli altri; giungere alle idee è facile quando si hanno gli strumenti per riconoscere e dare significato al concreto che ci circonda. Ci sono persone, però, a cui questi strumenti sono stati portati via, ma, nonostante questo, cercano di sopravvivere e l’umanità continua a vivere in loro, il significato più profondo dell’essere uomini viene percepito con altri sensi, con altri strumenti. Forse il pensiero, inteso come λόγος, come totalità, non viene mai completamente perso, ma viene inteso, piuttosto, attraverso altre vie.

Jimmie era stato un militare, quando il professore lo conobbe, aveva quarant’anni ma lui era rimasto ai diciannove. Da qui in poi non aveva memoria, era rimasto fermo a quell’età: credeva il fratello ancora fidanzato, quando invece si era sposato e aveva avuto dei figli e dei nipoti, e chiunque avesse incontrato dopo i diciannove anni non rimaneva in lui, non restava impresso nella sua mente. Nei test di intelligenza andava benissimo, anche nel risolvere problemi complessi, bastava fossero brevi altrimenti non si ricordava più cosa stesse facendo. Le partite a scacchi non erano possibili perché troppo lente. Accadde così anche durante il primo incontro con il dottore: dopo un po’ il professore gli fece vedere la sua immagine allo specchio, lui si spaventò perché si vide vecchio. Il dottore allora lo portò alla finestra per distrarlo, e uscì un momento, quando rientrò Jimmie già non si ricordava più nulla né dell’incontro né di lui. Negli appunti il professore scrisse:

«Egli è per così dire […] isolato in un singolo momento dell’esistenza, con tutt’intorno un fossato, o lacuna di smemoratezza… è un uomo senza passato (e senza futuro), bloccato in un attimo sempre diverso e privo di senso. […] Per il resto, l’esame neurologico ha dato risultati del tutto normali. Impressione: probabile sindrome di Korsakov, dovuta a degenerazione da alcolismo dei corpi mammillari.»

Provarono inizialmente a vedere se per Jimmie si poteva fare qualcosa, se in qualche modo si riuscisse a fargli riacquistare un po’ di memoria attraverso dei quaderni in cui scrivere quello che accadeva ma non ci fu niente da fare. Egli, a mala pena, aveva imparato ad orientarsi all’interno del reparto, riconosceva un’infermiera che però confondeva con una sua compagna di classe: il passato era per lui il presente, e il presente per Jimmie non c’era più. «Se un uomo ha perso una gamba o un occhio, sa di averli persi, ma, se ha perso un sé, se stesso, non può saperlo, perché egli non c’è più per saperlo.» Oliver Sacks, però, ci dice che, nonostante la sua preoccupazione che Jimmie avesse perso completamente se stesso, si rese conto che c’erano alcuni momenti in cui egli ritrovava la sua anima: nella cappella quando andava a pregare, era come se si chiudesse in se stesso e raggiungesse dei luoghi spirituali in cui riusciva a stare davvero con il suo proprio sé; non era concentrato in meccanismi, in sequenze «ma era assorbito in un atto, un atto del suo intero essere, che conteneva sentimento e significato in una continuità e unità organiche così perfette da non ammettere interruzione di sorta.» Oltre alla messa, c’erano anche la musica, l’arte e il giardinaggio che facevano sentire bene Jimmie. E il professore afferma che, dopo tanti anni, nonostante dal punto di vista neurologico egli non sia cambiato, dal punto di vista umano è assolutamente diverso da quando l’aveva conosciuto: «attento alla bellezza e all’anima del mondo». Jimmie, un uomo che non sa quando e dove si trova, che ha perso una parte di se stesso senza saperlo, ha trovato un suo equilibrio e una sua anima, è riuscito a entrare nella spiritualità del mondo, a coglierne, in qualche modo, la sua verità.

E poi c’è Christina, un’altra paziente, che il dottore, ma prima di lui lei stessa, ha definito la disincarnata.

Una donna intelligente, con un lavoro, un marito, dei figli, si recò per un’operazione chirurgica in ospedale. Il giorno prima dell’intervento fece un sogno che l’angosciò terribilmente nel quale non sentiva più il suo corpo. Il giorno dell’intervento il sogno divenne realtà: diceva di essere come disincarnata. Era avvenuto un vero e proprio collasso a livello della muscolatura: il corpo faceva movimenti assurdi dei quali ella non si rendeva conto; aveva perso quella che viene chiamata propriocezione dalla testa ai piedi; non aveva nessun senso dei muscoli, dei tendini delle articolazioni, aveva anche perso lievemente alcune modalità sensoriali, al tatto, alla temperatura e al dolore. Dopo diversi accertamenti e studi, risultò avere una polineurite acuta di un tipo eccezionale. E nonostante questa tragedia Christina, con un enorme forza di volontà, riuscì a “riprendersi” la sua vita. Diceva che era come se il suo corpo fosse cieco e avesse bisogno di qualcuno che lo guidasse, per questo la vista fu il senso che utilizzò di più in assoluto: guardava ogni singolo millimetro del suo corpo con una concentrazione quasi dolorosa per fare in modo di tornare a vivere di nuovo. Dapprima imparò a sedersi, poi a stare in piedi, a camminare e infine a lavorare, prendere il pullman, ecc. sebbene continuasse a muoversi ancora in modo strano e assurdo a volte; solo quando era in macchina, con i finestrini aperti e l’aria le arrivava addosso, aveva una labile sensazione di percepirsi ancora. Dovette addirittura guardare un video di lei prima della malattia per ricordarsi chi era e di com’era perché non riusciva più a immaginare se stessa. Christina non poteva sentire più il suo corpo, che non poteva più essere suo. Scrive il professore:

«Non sa che “qui c’è una mano”; la sua perdita di propriocezione, la sua differenziazione, l’hanno privata della sua base esistenziale, epistemica, e niente che lei possa fare, o pensare, modificherà questo fatto. Non può essere certa del suo corpo. […] è straordinario, ma quella di Christina è la storia di una vittoria e insieme di una sconfitta. La vittoria è che essa riesce ad agire, la sconfitta è che non può più essere. Ha ottenuto una vittoria che ha dell’incredibile in tutti gli adattamenti consentiti dalla volontà, dal coraggio, dalla tenacia, dall’autonomia e plasticità dei sensi, dal sistema nervoso. Ha affrontato e affronta una situazione senza precedenti, ha combattuto contro difficoltà e avversità inimmaginabili ed è sopravvissuta rivelandosi un essere indomito, straordinario. È una degli sconosciuti eroi ed eroine delle malattie neurologiche.»

Mi permetto di fare una piccola precisazione: il fatto che Christina non fosse, cioè agisse ma non era perché il suo corpo non era più, è vero nella misura in cui si intende il verbo essere in riferimento al corpo; perché è vero che il suo corpo non era più ma Christina non aveva smesso di essere in toto. È riuscita, infatti, in un modo straordinario, a vivere sensazioni profondamente umane: il coraggio, l’indipendenza, la tenacia; possiamo dire che, nonostante l’assenza di una parte di sé, abbia continuato a essere in altri modi. Non tutti come si diceva all’inizio vivono l’essere nel modo comune, alcuni lo vivono in altri modi, con altri strumenti. L’essere uomini non è qualcosa che possa essere vissuto alla stessa maniera da tutti ed è necessario essere consapevoli di quante infinite possibilità abbia l’essere umano, di quanto non smetterà mai di scoprirsi, di quanto non smetteremo mai di scoprire la nostra umanità, la nostra essenza.

Nella terza parte, poi, intitolata Trasporti, tra i vari pazienti viene raccontata la malattia di una ragazza indiana giovanissima, di circa vent’anni, Bhagawhandi P. che quando era piccola si era trasferita dall’India in America. Le era stato diagnosticato un tumore al cervello, lo stadio era troppo elevato e non c’era più niente da fare. Verso la fine, quando iniziarono a somministrarle farmaci potenti per rallentare il tumore, si manifestarono delle sensazioni stranissime: la ragazza sembrava sognare ad occhi aperti, cioè ogni tanto entrava proprio in uno stato sognante, confermato anche dall’EEG (elettroencefalogramma). Queste visioni prendevano la forma dei villaggi in India, paesaggi, giardini in cui lei aveva vissuto, amati e conosciuti nel periodo dell’infanzia. Alcune volte c’erano persone che cantavano o danzavano, una volta era in una chiesa un’altra in un cimitero. Più il tempo passava e più i sogni diventavano sempre più reali, si confondevano sempre di più con la realtà.  Quando il professore, una volta, le chiese cosa stesse succedendo, lei ripose che stava morendo, o meglio, che stava tornando a casa. Gli ultimi giorni aveva gli occhi chiusi e un sorriso di felicità fino a quando morì o, forse, come scrisse Oliver Sacks «dovremmo dire “arrivò”, giunse al termine del suo passaggio in India?» Sì, tornò al suo paese, alle sue origini. Gli ultimi giorni di vita, forse, furono determinanti per riscoprire le sue radici sebbene attraverso un mondo onirico; qualcosa di talmente labile da diventare però una presenza viva e vera perché riguardante i suoi ricordi. Un sogno che le fece rivivere la sua storia, il suo passato, una parte di lei che andando in America non aveva più ritrovato in un modo così presente.

Queste sono alcune delle tante storie e analisi fatte da Oliver Sacks, un medico che non si limitò a visitare e trovare una terapia ma che cercò di ascoltare, sentire quello che avevano da dire i suoi pazienti, con gli occhi, con il corpo, con la tristezza, la felicità. Pazienti che, per la maggior parte di loro, era difficile poter dire che fossero presenti ma, nonostante tutto, si tentò qualsiasi cosa per far sì che ritrovassero loro stessi. Questi sono alcuni esempi di eroi, di eroine che ce l’hanno fatta. Hanno avuto bisogno di altri dal momento che non possiamo essere senza l’altro: molti di questi pazienti si sarebbero persi nel buio del mondo, se non avessero incontrato un medico così. La relazione è la miccia che ci porta a comprendere chi siamo, e ci mostra che la strada per scoprirci è tormentata ma mai impossibile.

Dostoevskij scriveva, in una lettera al fratello Michail:

 

 Fedor Dostoevskij

 

«Caro fratello, l’uomo è un mistero. Un mistero che dobbiamo decifrare, e anche se questo intento occuperà l’intera tua vita, non dire di aver perso tempo; io mi occupo di questo mistero perché voglio essere un uomo.»

L’uomo è un mistero, un mistero che è necessario conoscere, ricercare, scoprire. Per farlo, però, non possiamo contare solo su noi stessi, sulle nostre sole forze, abbiamo bisogno degli altri e abbiamo anche bisogno di sapere che l’uomo non è solo una cosa, non è solo memoria, o corpo, o pensiero, o emozioni, ma è tutto questo insieme. E ci sarà sempre un modo, anche nelle tragedie più grandi, per potersi ritrovare.

Maddalena Tommasi

 

 

 

23 ottobre 2022

 

 

 

 

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