Dall’armonia di Fidia, alla misura di Leonardo, fino alla tensione dei Bronzi di Riace
L’UOMO VITRUVIANO: IL CORPO COME GEOMETRIA DELL’UNIVERSO
Dall’armonia di Fidia, alla misura di Leonardo, fino alla tensione dei Bronzi di Riace
Redazione Inchiostronero
Il corpo umano riflette l’anima di un’epoca. Tra misura, tensione e bellezza, questo saggio attraversa Leonardo, Fidia e i Bronzi di Riace per raccontare l’evoluzione dell’ideale umano nell’arte
Premessa all’ideale umano
Il corpo umano è, da sempre, uno degli oggetti privilegiati della rappresentazione artistica. Non solo per la sua bellezza o per la sua centralità biologica, ma perché esso è il luogo simbolico dove la cultura di un’epoca si riflette e si misura. Parlare del corpo significa parlare di ciò che una civiltà considera importante: l’ordine, il caos, il potere, la moralità, il divino, il limite, la libertà.
Nel corso della storia occidentale, il corpo è stato di volta in volta ideale di perfezione geometrica, manifestazione di equilibrio etico, oppure campo di tensione drammatica. Questo saggio propone un viaggio attraverso tre momenti emblematici in cui il corpo viene posto al centro del pensiero artistico e filosofico: l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, le statue di Fidia nel cuore della Grecia classica, e i misteriosi Bronzi di Riace, ritrovati nei nostri mari ma provenienti da un’antichità eroica e irrequieta.
Questi tre esempi non sono solo opere d’arte: sono modelli di visione del mondo. Nell’Uomo Vitruviano, il corpo è misura dell’universo, simbolo dell’armonia tra mente, natura e architettura. Nelle statue di Fidia, è riflesso del divino, incarnazione dell’ideale greco di bellezza e virtù. Nei Bronzi di Riace, il corpo si fa tensione, gesto trattenuto, forza esplosiva: non più simbolo di ordine, ma presenza viva, ambigua, potente.
Le tre sezioni che compongono il saggio non seguono soltanto un ordine cronologico, ma tracciano un arco concettuale: dalla perfezione astratta alla solennità etica, fino alla drammatizzazione dell’identità corporea. In fondo, ogni epoca ha scolpito se stessa nel corpo che ha immaginato come “ideale”.
Quello che emerge non è solo la trasformazione di un’estetica, ma la mutazione profonda di una visione dell’essere umano. Il corpo, da figura della misura, diventa figura del dubbio. E proprio in questa tensione, ancora oggi, trova la sua inesauribile forza espressiva.
L’Uomo Vitruviano: il corpo come geometria dell’universo
L’armonia tra uomo, natura e sapere nella visione rinascimentale di Leonardo da Vinci

C’è un uomo inscritto in un cerchio e in un quadrato, sospeso in una posizione che sembra semplice, ma è in realtà carica di significati profondi. Questo disegno, realizzato da Leonardo da Vinci intorno al 1490, è noto come L’Uomo Vitruviano. Esso rappresenta molto più di uno studio anatomico: è la visualizzazione di un’idea che attraversa secoli di pensiero e che pone il corpo umano come simbolo dell’ordine universale. È una sintesi tra arte, scienza, filosofia e architettura, una delle più riuscite della cultura occidentale.

L’idea di proporzione perfetta

Leonardo si ispira direttamente al trattato De Architectura dell’architetto romano Vitruvio, vissuto nel I secolo a.C., il quale sosteneva che un edificio perfetto dovesse rispecchiare le proporzioni ideali del corpo umano. Vitruvio, nel terzo libro della sua opera, afferma che «come un tempio si basa su proporzioni armoniche, così anche il corpo dell’uomo è regolato da una simmetria proporzionale». La testa, le mani, i piedi, l’altezza totale: ogni parte ha un rapporto preciso con il tutto (cfr. Vitruvio, De Architectura).
Secondo Vitruvio, l’essere umano può essere inscritto perfettamente sia in un cerchio – simbolo del cielo, dell’infinito, dell’eternità – sia in un quadrato – simbolo della materia, della terra, della stabilità. Leonardo prende queste indicazioni e le trasforma in immagine, ma va oltre. Non si limita a illustrare una teoria, ma la verifica, interrogandosi su quanto la struttura del corpo umano corrisponda effettivamente a quelle forme ideali (cfr. Kemp, 2005).
Il disegno è accompagnato da note scritte a specchio, in cui Leonardo annota con precisione le proporzioni del corpo: ad esempio, l’altezza totale è pari a otto teste, la distanza tra le braccia aperte è uguale all’altezza, e così via. Ogni misura diventa simbolo, e il corpo si trasforma in uno strumento per leggere il mondo.
Contesto culturale: l’Umanesimo e la riscoperta dell’uomo
Per comprendere appieno la portata del disegno vitruviano, è necessario inserirlo nel contesto del Rinascimento italiano,(1) e in particolare dell’ambiente culturale della Firenze del Quattrocento, dove si respirava un nuovo spirito umanista. L’uomo tornava al centro dell’universo, non più come creatura peccatrice, ma come essere dotato di intelletto, capace di misurare, comprendere e persino imitare l’ordine divino.
In questo clima fiorivano le accademie neoplatoniche, come quella fondata da Marsilio Ficino, dove si discutevano testi antichi e si cercava un’armonia tra cristianesimo e filosofia greca. Il disegno di Leonardo, sebbene realizzato a Milano, riflette pienamente questo spirito: l’idea che l’uomo, attraverso la conoscenza, possa elevarsi e ritrovare la propria collocazione nel cosmo.
Anche altri artisti e teorici dell’epoca cercarono di applicare le proporzioni vitruviane: Leon Battista Alberti, nel suo De re aedificatoria, e Francesco di Giorgio Martini, che realizzò un proprio disegno vitruviano alcuni anni prima di Leonardo (cfr. Barone, 2011). Tuttavia, solo Leonardo seppe dare alla teoria una forma così visivamente potente e duratura. Altri come Piero della Francesca, nel suo De prospectiva pingendi, esplorarono la matematica della visione, ma senza arrivare a un’immagine tanto essenziale e universale.
Simbolismo del cerchio e del quadrato
L’inscrizione del corpo umano in un cerchio e in un quadrato non è solo un esercizio geometrico. Ha un valore simbolico profondo. Il cerchio, nella tradizione platonica, rappresenta il divino, l’eterno, ciò che non ha inizio né fine. Il quadrato, invece, è la terra, la realtà concreta, la razionalità. L’uomo vitruviano è l’essere che unisce questi due mondi, che sta al centro di una tensione tra spirito e materia, tra cielo e terra.
Il fatto che le mani e i piedi dell’uomo tocchino sia i vertici del cerchio che quelli del quadrato, suggerisce che l’essere umano è ponte tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo dei sensi e quello delle idee. In Leonardo riaffiora un pensiero neoplatonico, dove il corpo umano è immagine dell’“anima del mondo” che connette le sfere superiori e quelle inferiori. Il disegno può così essere letto anche come una meditazione sulla natura dell’anima incarnata.
In un’epoca in cui l’ordine cosmico era pensato in termini matematici, come nella musica delle sfere di origine pitagorica, Leonardo propone il corpo umano come spartito armonico, dove ogni parte ha un posto, una misura, un senso.
Leonardo: scienza e arte in equilibrio

Il genio di Leonardo sta nel suo approccio sperimentale e nell’incredibile capacità di collegare discipline tra loro lontane. Per comprendere meglio l’anatomia umana, eseguì dissezioni su cadaveri, studiò la struttura dei muscoli, dei tendini, del cuore, e ne tracciò con minuzia il funzionamento. Le sue tavole anatomiche, oggi conservate in vari codici, mostrano una precisione scientifica straordinaria (cfr. Walker e Kemp, 2012).
Leonardo osserva, misura, calcola, ma allo stesso tempo rappresenta. Le sue linee non sono solo tecniche: hanno eleganza, ritmo, proporzione. In lui arte e scienza non sono separate, ma parti di un’unica visione integrata della realtà. L’Uomo Vitruviano è l’emblema di questo approccio: è disegno, ma è anche esperimento; è bellezza, ma anche verifica.
Eredità antica: un filo che parte da lontano

Il concetto di proporzione armonica ha origini ben più antiche. Gli Egizi utilizzavano griglie modulari per assicurare coerenza nelle rappresentazioni pittoriche. I Greci teorizzarono la bellezza attraverso la matematica. Policleto, nel suo Canon, fissò le proporzioni ideali del corpo maschile attraverso rapporti numerici che furono alla base della scultura classica. Vitruvio, a sua volta, riprese queste idee e le applicò all’architettura.
Leonardo è l’ultimo anello di questa catena, e forse il più consapevole. Con lui, la conoscenza antica non viene solo imitata, ma reinterpretata. Egli è erede del pensiero classico, ma anche anticipatore del pensiero moderno.
Attualità del Vitruviano: un’icona del presente
Oggi l’Uomo Vitruviano è ovunque: compare nei manuali scolastici, nei loghi di istituzioni sanitarie, persino in app come Apple Health. È stato scelto come simbolo dell’Unione Europea e reinterpretato da artisti contemporanei in chiave tecnologica, post-umana, persino ironica. La sua forza visiva è tale da resistere a ogni epoca.
Ma il suo valore più profondo sta nel richiamo all’equilibrio, alla necessità di ritrovare una misura tra individuo e ambiente, tra progresso e umanità. In un’epoca che spesso separa il corpo dalla mente, e l’uomo dalla natura, Leonardo ci ricorda che tutto è relazione, tutto è proporzione.
Cosa ci può ancora insegnare l’Uomo Vitruviano
L’Uomo Vitruviano continua a interrogarci perché non è una risposta, ma una domanda visiva. Ci chiede di pensare all’uomo non come centro egoico del mondo, ma come interfaccia tra opposti: natura e tecnica, razionalità e immaginazione, terra e cielo. In un’epoca frammentata, dominata dalla specializzazione e dalla velocità, Leonardo ci propone un modello di conoscenza integrata, profonda, armonica.
Forse è proprio questa la sua eredità più preziosa: l’idea che capire il corpo significhi capire il mondo, e che per progettare il futuro serva prima sapere chi siamo, come siamo fatti, e dove ci collochiamo nell’universo.
Fidia e l’ideale classico: bellezza, ordine e divinità nel corpo umano
La perfezione morale del corpo come fondamento estetico e politico nella Grecia classica

Se l’Uomo Vitruviano rappresenta l’apice rinascimentale del pensiero antropocentrico, il suo presupposto ideale affonda le radici nella cultura greca del V secolo a.C., e in particolare nell’opera di Fidia, il massimo scultore dell’età classica. In un mondo dove il bello era considerato anche il buono, e dove l’arte era chiamata a educare, ispirare e rappresentare l’ideale della polis, il corpo umano era più di un soggetto artistico: era un simbolo morale, religioso, persino politico (cfr. Pollitt, 2005).
Fidia e l’età d’oro di Atene

Fidia visse e operò nel cuore del V secolo a.C., durante quello che la storiografia ha definito il “secolo di Pericle”(2), un periodo in cui Atene raggiunse il culmine della sua potenza militare, politica e culturale. Questo momento storico vide la nascita di una concezione dell’arte come strumento per la formazione etica e civica del cittadino. In tale contesto, l’artista non era un creatore isolato, ma un mediatore tra l’umano e il divino, tra la bellezza e la verità.

Pericle, stratega e uomo di stato, affidò a Fidia la direzione dei grandi lavori di ricostruzione dell’Acropoli di Atene dopo le devastazioni delle guerre persiane. A lui si devono le decorazioni scultoree del Partenone, compresa la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos, alta circa dodici metri, posta al centro del tempio. Altrettanto famosa fu la statua di Zeus a Olimpia, realizzata per il tempio dedicato al dio presso il santuario panellenico: un’opera talmente imponente e ammirata da essere annoverata tra le sette meraviglie del mondo antico (cfr. Pausania, Periegesi della Grecia).
La funzione della scultura: il corpo come archetipo civico e divino
La scultura, per i Greci, non era un’arte da fruire in forma privata. Era pubblica, educativa, religiosa. Le statue venivano collocate nei templi, nelle agorà, nei teatri, nei santuari, nei luoghi di culto o commemorazione. Il corpo umano, scolpito, serviva da modello ideale cui aspirare, da manifestazione visibile di valori condivisi. Non era, in alcun modo, un ritratto individuale o naturalistico.
Le opere di Fidia, pur nella loro monumentalità, non cercavano il realismo fisico, bensì l’astrazione spirituale. Esse incarnavano una bellezza assoluta, solenne, distante dal quotidiano, in grado di ispirare rispetto, devozione, identificazione. La statua diventava così un veicolo di significati: esprimeva virtù, ordine, autorità, saggezza, equilibrio. Era un’educazione alla cittadinanza attraverso la forma umana (cfr. Boardman, 1996).
Kalokagathìa: l’ideale del corpo virtuoso
Nel pensiero greco, soprattutto a partire dal V secolo, la bellezza corporea non era disgiunta dalla virtù morale. L’ideale dell’uomo bello e buono, espresso dal termine kalokagathìa (kalòs = bello, agathòs = buono), permeava la cultura ateniese. L’atleta, il cittadino, il guerriero, il legislatore: tutti erano concepiti come figure nelle quali l’equilibrio fisico doveva riflettere un equilibrio interiore.
Fidia, attraverso le sue statue di dei ed eroi, offre una trasfigurazione estetica di questo ideale. I corpi sono proporzionati, armoniosi, statici eppure vitali. Il volto è sereno, il gesto contenuto, l’espressione solenne. Non si tratta di emozione o soggettività: si tratta di forma universale, capace di parlare a chiunque attraverso la bellezza.
Il corpo perfetto non è solo simbolo di potere o di fertilità, ma espressione di ordine cosmico e razionale. È il corpo che comunica la sapienza del logos, la misura (metron), la centralità della polis. È un corpo-idea.
Proporzione e canone: la matematica della bellezza
Anche se Fidia non lasciò trattati teorici, fu vicino a Policleto, scultore di Argo, che elaborò un sistema di proporzioni corporee noto come Canon. Questo trattato, oggi perduto ma ricostruito grazie alle fonti antiche, definiva le regole per una bellezza ideale basata su rapporti matematici tra le parti del corpo. Il suo Doriforo è considerato l’incarnazione perfetta di quel canone (cfr. Carpenter, 1960).
Il principio era semplice e al tempo stesso profondo: la bellezza nasce dalla simmetria, dall’equilibrio, dalla proporzione. Il corpo umano diventa così un progetto geometrico, un sistema razionale che può essere misurato e replicato. Questa idea anticipa, per molti versi, la visione di Leonardo, che secoli dopo con il Vitruviano avrebbe cercato gli stessi rapporti tra parte e tutto.
Pathos trattenuto e maestà morale
Un altro elemento distintivo dello stile di Fidia è il pathos trattenuto. Le sue figure non mostrano emozioni intense, non sono teatrali né drammatiche. In ciò si differenziano radicalmente dalla futura scultura ellenistica, che invece esaspererà movimento, espressione e realismo. Fidia, invece, incarna la sophrosyne, la misura, la temperanza, che Platone considerava una delle virtù fondamentali dell’anima.
Il corpo, anche quando rappresenta un dio in posizione dinamica, mantiene sempre un’imperturbabile dignità, una compostezza che riflette un modello etico. Guardare una statua di Fidia significava confrontarsi con un ideale morale, oltre che estetico. Non stupisce che queste opere fossero considerate capaci di educare l’anima attraverso la bellezza (cfr. Pollitt, 2005).
La figura dell’artista: tra mito e funzione civica
Fidia fu celebrato dai suoi contemporanei, ma anche invidiato. Accusato di empietà e appropriazione indebita, venne incarcerato e morì in disgrazia, come spesso accadde ad artisti geniali che sfiorarono il potere. Tuttavia, la sua figura sopravvisse nei secoli come modello dell’artista demiurgo, colui che dà forma all’invisibile.
In età imperiale romana, le sue statue furono copiate, studiate, emulate. Durante il Rinascimento, il nome di Fidia divenne sinonimo di perfezione classica, e le sue opere, pur perdute, furono cercate con passione dagli artisti italiani. Michelangelo, Raffaello e anche Leonardo si confrontarono, direttamente o indirettamente, con il modello greco incarnato da Fidia.
Eredità e attualità di Fidia
Oggi, parlare di Fidia significa riflettere su un’idea di bellezza che non è semplicemente visiva, ma strutturale e spirituale. È una bellezza che nasce dalla forma, ma conduce alla verità. Nell’epoca dell’estetica istantanea, delle immagini che si consumano in pochi secondi, il corpo armonico di Fidia è una forma di resistenza culturale. Un richiamo alla lentezza, alla misura, alla profondità.
Anche nel pensiero architettonico contemporaneo, l’idea che il corpo umano debba restare parametro progettuale ha origine qui. L’arte, la medicina, la danza, il design, tutti risentono, consapevolmente o meno, dell’eredità lasciata da Fidia e dall’estetica classica.
Cosa ci può ancora insegnare Fidia
In un’epoca in cui il corpo è spesso veicolo di consumo, esibizione o manipolazione tecnologica, Fidia ci ricorda che il corpo può essere ancora un linguaggio di equilibrio, di dignità, di bellezza non urlata. Le sue statue ci parlano di una bellezza che nasce dalla coerenza tra forma e idea, tra visibile e invisibile.
L’arte classica, lungi dall’essere antiquata, conserva una forza silenziosa ma persistente. Ci chiede: cosa significa essere umani? Come si può rappresentare il corpo senza ridurlo a superficie? Possiamo ancora pensare a una bellezza che abbia valore etico e non solo estetico?
Fidia, forse più di ogni altro artista dell’antichità, ha offerto una risposta scolpita nella pietra: la bellezza è misura, e nella misura si cela la libertà.
I Bronzi di Riace: tra potenza e dismisura
L’eroismo scolpito nella carne e il superamento dell’ideale classico
Nel 1972, due statue in bronzo emersero dai fondali marini nei pressi di Riace Marina, in Calabria. Da allora, quelle due figure maschili, nude, alte quasi due metri, muscolose, perfette eppure diverse, sono diventate simbolo di una bellezza enigmatica, antica eppure moderna, che continua a interrogare storici dell’arte, archeologi e pubblico. I Bronzi di Riace, datati tra il 460 e il 430 a.C., appartengono a un momento di transizione fondamentale: tra il cosiddetto stile severo e il pieno classicismo.
Eppure, il loro aspetto non si lascia contenere facilmente in categorie. Non sono “fedeli” all’ideale classico della misura, né esprimono quella compostezza che troviamo nelle opere di Fidia. Sono, piuttosto, corpi eroici, carichi di tensione, singolarmente umani e mitici al tempo stesso. Per questo, alcuni studiosi hanno ipotizzato che le statue anticipino alcuni tratti dell’ellenismo, pur appartenendo ancora cronologicamente al periodo classico (cfr. Moreno, 1998).
Un ritrovamento che riscrive l’arte greca
I Bronzi furono ritrovati per caso da un sub amatoriale, e la loro scoperta ha avuto un impatto enorme sugli studi della scultura greca. A differenza delle statue marmoree, i bronzi greci sono rarissimi: la maggior parte fu fusa nei secoli per ricavare armi o utensili. Le due statue di Riace sono tra i pochissimi esemplari originali giunti fino a noi. La loro conservazione, la qualità formale, la resa anatomica straordinaria, ne fanno un unicum.
Identificazioni certe non ce ne sono. Si è ipotizzato che si tratti di guerrieri, eroi o re mitici: Tideo e Anfiarao, Aiace e Achille, oppure di personaggi generici di un gruppo scultoreo. Uno degli studiosi più attenti, Paolo Moreno, ha proposto che potessero far parte di un’opera realizzata da Pitagora di Reggio, o da Alkamenes, allievo di Fidia.
Un corpo fuori misura
Una delle osservazioni più interessanti venne fatta subito dopo il ritrovamento da Enzo Pugliese Carratelli, che sottolineò come quei corpi, sebbene risalenti a un periodo che ancora valorizzava la misura e l’armonia, apparissero “fuori scala”, portatori di una tensione che anticipa l’ellenismo”. In effetti, la loro altezza supera i due metri, la muscolatura è esasperata, le vene e i tendini sono evidenziati con grande realismo, il volto ha un’espressione concentrata, intensa, quasi inquietante.
Questo realismo spinto, unito a una forte idealizzazione, li rende ibridi tra l’umano e il divino. I Bronzi non esibiscono la serenità del corpo classico, ma una forza trattenuta, una bellezza che è anche aggressività, potenziale di movimento, minaccia. Si ha la sensazione che stiano per agire, che l’equilibrio sia solo apparente.
Differenze con l’ideale classico
Rispetto alla scultura classica di Fidia o Policleto, i Bronzi mostrano un accento sull’individualità: non incarnano un tipo universale, ma sembrano avere una personalità distinta, pur rimanendo anonimi. Le loro teste sono diverse, così come le barbe, le acconciature, le proporzioni facciali. Non sono intercambiabili. Questo rompe con la logica del canone classico, che cerca la ripetibilità della forma perfetta.
Inoltre, non vi è traccia della kalokagathìa: questi corpi non sembrano affatto legati a un ideale morale. Sono belli, sì, ma non per educare: sono belli per dominare, per impressionare, per affermare potenza. In questo senso, si avvicinano più al mondo dei miti epici che a quello della polis democratica.
Non a caso, sono stati letti anche come “riti del potere” scolpiti nella carne”: modelli celebrativi più che educativi. Corpi-immagine, monumenti della forza e della conquista, piuttosto che della misura e dell’etica.
La presenza del pathos
Un’altra differenza rilevante sta nell’espressività. Mentre le statue di Fidia comunicano calma e solennità, i Bronzi di Riace mostrano una tensione emotiva interna. Gli sguardi sono concentrati, le labbra socchiuse, i volti hanno qualcosa di tragico. Gli occhi, originariamente in pasta vitrea, sembrano scrutare con intensità. È un’umanità inquieta, che guarda oltre, pronta a combattere o a difendersi.
Questo accento sul pathos, sull’intensità emozionale, avvicina i Bronzi non solo all’ellenismo, ma anche alla tragedia greca. Si potrebbe dire che essi rappresentino non l’uomo ideale, ma l’uomo in azione, colto nel momento in cui la tensione tra volontà e destino è massima.
Un’anticipazione dell’ellenismo
Molti studiosi hanno osservato che i Bronzi di Riace anticipano alcuni tratti della scultura ellenistica: l’enfasi sul dettaglio, la resa psicologica, il dinamismo potenziale. Tuttavia, non vanno letti come veri e propri “ellenistici ante litteram”. La loro struttura è ancora saldamente ancorata alla tecnica classica: il contrapposto è presente, le proporzioni sono studiate, ma tutto è portato all’estremo, spingendo ogni elemento al limite.
Come afferma Moreno (1998), “si tratta di un realismo eroico, non naturalistico”: ogni dettaglio serve a esaltare un’immagine ideale, ma non più universalmente valida. Si celebra l’individuo, non il tipo; l’eroe, non il cittadino.
Il corpo come campo di tensione
I Bronzi di Riace, più che rappresentare un equilibrio raggiunto, incarnano una tensione: tra bellezza e forza, tra vita e morte, tra umano e divino. Sono statue ambigue, potenti e silenziose, perfette e inquietanti. La loro nudità non è pacifica, ma esposta al giudizio, alla sfida, al confronto.
In un certo senso, rappresentano la crisi dell’ideale classico: un momento in cui l’ordine non basta più, e l’arte inizia a confrontarsi con l’individuale, il drammatico, il corporeo. Questo li rende moderni, quasi contemporanei.
Cosa ci dicono oggi i Bronzi di Riace
Nel nostro presente, in cui il corpo è spesso strumento di esposizione o consumo, i Bronzi di Riace ci pongono domande complesse. Non sono “armonici” come i corpi di Fidia, né simbolici come l’Uomo Vitruviano. Sono materia viva, memoria scolpita, identità senza nome.
La loro forza sta proprio in questa ambivalenza: ci attraggono perché non si lasciano definire. Non sono archetipi, ma figure aperte, sospese tra passato e futuro, tra mito e realtà. Sono immagini del corpo come campo di battaglia, come luogo in cui si concentrano desiderio, forza, storia.
In un mondo che cerca costantemente di normare il corpo, i Bronzi di Riace restano inclassificabili, eccedenti, liberi. E per questo, irriducibilmente umani.
Conclusione
Nel corso di questo saggio abbiamo osservato tre rappresentazioni del corpo umano che, pur appartenendo a epoche diverse, non sono semplici raffigurazioni artistiche: sono mappe simboliche, visioni del mondo scolpite nella carne. L’Uomo Vitruviano, le statue di Fidia e i Bronzi di Riace non sono figure immobili, ma idee in movimento, ciascuna delle quali racconta un diverso rapporto tra l’essere umano e l’universo, tra arte e conoscenza, tra immaginazione e realtà.
Leonardo da Vinci, con il suo Uomo inscritto nel cerchio e nel quadrato, ci ha consegnato un’immagine perfetta dell’equilibrio tra corpo e cosmo, tra misura geometrica e aspirazione intellettuale. L’essere umano è visto come centro razionale del mondo, in grado di comprenderlo e riprodurne le leggi attraverso l’osservazione e la mente. L’arte diventa così scienza visiva, ponte tra idealità e realtà.
Fidia, invece, ci ha offerto l’immagine dell’uomo divinizzato, in cui la bellezza del corpo rispecchia una bellezza morale. Il corpo armonico delle sue statue è specchio di un’etica pubblica, di un ordine civile e religioso che governa la polis. La scultura è pedagogia, celebrazione, sacralità della forma. In Fidia, la perfezione è norma, modello, archetipo.
Con i Bronzi di Riace, però, qualcosa si incrina. Il corpo non è più solo misura o archetipo: è tensione, forza, identità individuale. Quei due guerrieri, con i loro muscoli tesi e i volti scolpiti dal tempo, portano con sé un’ambiguità nuova. Sono più umani e più inaccessibili, più veri e più mitici. In essi la forma diventa carne, la bellezza diventa energia. Non rappresentano un ideale condiviso, ma una sfida: cosa siamo disposti a vedere in un corpo? Potere, fragilità, desiderio, guerra?
Guardando queste tre immagini oggi, ci rendiamo conto che parlare del corpo non significa mai parlare solo di anatomia o di estetica. Significa parlare di noi, di come ci pensiamo, ci progettiamo, ci idealizziamo o ci temiamo. Il corpo, in fondo, è la nostra storia visibile.
In un tempo che oscilla tra iper-esposizione fisica e smaterializzazione digitale, queste tre visioni del corpo ci ricordano che ogni forma è una domanda: Chi siamo? Cosa vogliamo rappresentare? E, soprattutto, cosa siamo disposti a riconoscere come umano?

Approfondimenti del Blog

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Bibliografia finale unica
- Barone, M., Il corpo e l’armonia: da Vitruvio a Leonardo, Laterza, 2011.
- Boardman, J., Scultura greca classica, Einaudi, 1996.
- Carpenter, R., La scultura greca, Il Saggiatore, 1960.
- Gombrich, E. H., La storia dell’arte, Phaidon, 1950.
- Kemp, M., Leonardo, Einaudi, 2005.
- Moreno, P., I Bronzi di Riace: il Maestro di Olimpia e i Sette a Tebe, Electa, 1998.
- Pausania, Periegesi della Grecia, Mondadori, 2007.
- Plutarco, Vite parallele – Pericle, BUR, 2008.
- Pollitt, J. J., L’arte e l’estetica nell’antica Grecia, Einaudi, 2005.
- Vitruvio, De Architectura, a cura di P. Gros, Einaudi, 1997.
- Walker, M. B. e Kemp, M., Leonardo da Vinci: The Mechanics of Man, Getty Publications, 2012.