Il futurismo è stato la miccia del Novecento artistico

MA ESISTE UNA FILOSOFIA FUTURISTA?

di Marcello Veneziani


Emilio Sommariva: Ritratto fotografico di Filippo Tommaso Marinetti, intellettuale futurista (1913

L’evento culturale del tormentato corrente anno che volge alla fine non è ancora accaduto, ma non sono mancate le polemiche preventive. È la mostra sul futurismo, più il convegno e il catalogo che l’accompagneranno, il 2 dicembre, a ottant’anni esatti dalla morte del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti.

Il futurismo è stato la miccia del Novecento artistico, il primo movimento che ha messo a soqquadro l’arte, da cui sono scaturite avanguardie e movimenti; il primo fenomeno globale perché ha coinvolto Milano e Parigi, Mosca e New York. E il primo fenomeno totale di arte, per così dire, collettiva. Pittura e scultura, architettura e poesia, letteratura e politica, perfino moda e pubblicità, musica e cucina, un fenomeno totale e virale di arte che irrompe chiassosa e baldanzosa nella vita corrente e trae spunto dalla città, dalle officine, cercando di fondere acciaio e poesia, creatività e industria, amore e guerra.

C’è però un terreno che sembra restare escluso e incontaminato dall’onda futurista: non c’è una filosofia futurista, un pensiero compiuto che si ispiri al futurismo, al di là degli slogan e dei messaggi incendiari. Prima che la guerra mondiale risucchiasse nel suo gorgo interventista l’ardore futurista, ci fu una rivista che elaborò un pensiero parallelo all’arte futurista. Era Lacerba che nel biennio 1913-1914, con un’estrema propaggine nei primi mesi del 1915, pubblicò una serie di scritti di Giovanni Papini, a volte affiancato dal cofondatore l’artista Ardengo Soffici. In quelle pagine che poi Papini raccolse dopo la guerra col titolo “L’esperienza futurista”, edite da Vallecchi, si può parlare di un abbozzo veloce, come è nell’indole di quel movimento, di una filosofia futurista. Papini nel ’19, dichiara: “Non mi pento di essere entrato nel futurismo – non mi pento di esserne uscito”. E qui c’è tutto Papini, l’irrequieto, il funambolo, l’agitatore agitato. La domanda che si pone in partenza è quella a cui noi cerchiamo una risposta: “Il futurismo italiano ha fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pensare”. I verbi che scorrono sono tutti incendiari, come notai in un saggio e in un’antologia che intitolai appunto Anni incendiari (edita ancora da Vallecchi): bruciare le biblioteche, sradicare la cultura passata, preferire i selvaggi alle civiltà trascorse, far tabula rasa. Una coltissima barbarie. L’idea della tabula rasa e dello sradicarsi dal passato, era il rovescio eversivo del mito dell’uomo nuovo, del mondo nuovo e dell’ordine nuovo che univa in uno stesso “delirio”, Roma e Parigi, Mosca e New York e che attraversava l’americanismo, il comunismo e poi il fascismo. “Noi vogliamo preparare in Italia l’avvento di quest’uomo nuovo” che non ha bisogno di “grucce e consolazioni” e “non si spaventi del nulla e dei cieli vuoti”. Un uomo creativo, non ripetitivo, rivoluzionario, non legato all’anticume, artista totale anche nella vita (ma l’aveva già detto d’Annunzio).

Papini rivendica al suo libro giovanile e iconoclasta, Il crepuscolo dei filosofi, il ruolo di precursore del futurismo nell’opera di distruzione e d’assalto. A suo dire, il futurismo è accettazione completa della civiltà moderna; ma aggiunge, “Io son futurista perché Futurismo significa Italia- un’Italia più grande dell’Italia passata”. E qui c’è la curiosa aporia del futurismo, fenomeno globale e moderno ma legato all’amor patrio e al nazionalismo seppur proiettato sull’avvenire. Papini, che ama i paradossi, si spinge a scrivere che “il passato non esiste”. Su Lacerba Papini uccide pure il suo passato di collaboratore con Prezzolini de La Voce. A suo dire Lacerba fu un atto di liberazione dal mondo vociano, un atto parricida e futurista. Ma avverte pure che “il disprezzo per l’antico è antichismo” e con un testacoda alla Papini, le ultime pagine de L’esperienza futurista sono dedicate all’antichità del futurismo, quasi a rinvenire la sua vena passatista.

Antichità del futurismo è un’espressione chiave che ci permette di capire alcune cose: non solo il fatto che quell’avanguardia diventò col tempo archeologia, collezionismo, e fornì preziosi materiali ai detestati musei, accademie, gallerie. Ma ci permette di capire perché tanti anni dopo un irregolare della Nouvelle Droite francese, Guillaume Faye, scrisse un libro che fu un manifesto, intitolato appunto Archeofuturismo. Quella che poteva apparire una contraddizione, diventava per Faye una carta da giocare per coniugare tradizione e avvenire, e ripensare il futurismo in quella chiave, una sorta di rivolta contro il presente, nata dall’alleanza tra l’antico e il futuro. Una proposta che parte da Nietzsche, passa da Heidegger e approda a Debord e al situazionismo. “Bisogna riconciliare Evola e Marinetti”, scrive Faye, ossia ricucire quella frattura tra il giovane Evola nel suo breve passaggio dal futurismo e poi dal dadaismo e l’anziano fondatore del futurismo.

Dadaismo

Evola nasce con l’arte da futurista e dadaista e dopo il passaggio filosofico da idealista magico e nietzschiano, diventa pensatore della Tradizione con la T maiuscola; è il prototipo perfetto dell’archeofuturismo. Ma è singolare notare che sia Papini, sia Evola sia da ultimo Faye, quando devono passare dall’arte al pensiero si rivolgono alla tradizione, che per Papini sarà la tradizione cristiana e nazionale. Insomma, il pensiero futurista, se va fino in fondo, oltrepassa la dimensione innovatrice e barbarica, libertaria e iconoclasta, per incontrarsi e in definitiva risolversi in un pensiero che approda agli antipodi. Appena si pensa di fondare una filosofia futurista, l’idea stessa di fondazione evoca i fondamenti e rifugge lo spirito trasgressivo e selvatico.

Chi resta allora a pensare il futurismo? Forse l’unica, importante opera di pensiero futurista, che riassume lo spirito guerriero e insieme il paesaggio delle macchine e delle fabbriche, è l’Operaio di Ernst Junger, che Evola fa conoscere in Italia in una versione ridotta. L’operaio, o il milite del lavoro, come preferiva dire Delio Cantimori, è il vero soldato del futuro, il nuovo eroe della modernità che attraversa la linea di fuoco del nichilismo fino a capovolgerne il senso. Quell’opera, uscita nel 1932, è l’esito delle “tempeste d’acciaio” (titolo di un’altra sua memorabile opera incentrata sulla Prima guerra mondiale) e disegna la figura di questo titano che cavalca la tigre della modernità. Modernismo reazionario, verrà definito da Herf. Ma il suo cuore avventuroso è futurista. È ancora possibile la fabbrica e l’acciaio nell’era del silicio e dello smartphone? Il futurismo va rifondato, altrimenti sa troppo di archeologia industriale e déjà vu. Il nuovo invecchia in fretta.

La Verità – 25 ottobre 2024

https://www.marcelloveneziani.com/articoli/ma-esiste-una-filosofia-futurista/

 

 

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