Crepuscolo delle icone: il declino dei simboli e la trasformazione del mito moderno
MARIANNE FAITHFULL E IL CREPUSCOLO DELLE ICONE
Antonello Cresti
Essere un’icona del proprio tempo significa incarnarne lo spirito, assorbirne le contraddizioni, brillare nel fulgore della propria epoca e, inevitabilmente, affrontarne il tramonto. Da divinità pop a figure incerte, le icone contemporanee oscillano tra gloria e caduta, in un ciclo perpetuo di ascesa e declino. Ma cosa resta di loro quando il mondo cambia e il tempo le supera?
Essere un’icona del proprio tempo significa incarnarne lo spirito, con tutte le sue luci e ombre. Marianne Faithfull e Françoise Hardy erano questo: non solo talenti artistici, ma figure che portavano sulle spalle il peso e il fascino di un’epoca. Come dei veri e propri monumenti viventi. La loro autenticità risiedeva nel loro vissuto, nelle loro cadute e nei loro trionfi, in una biografia che era specchio del mondo che le circondava. Ogni ruga, ogni cicatrice, ogni successo e ogni disfatta si intrecciavano alla Storia, diventando parte di un immaginario collettivo che andava ben oltre la loro persona. Erano il riflesso di una cultura che sapeva ancora riconoscere il valore della profondità.
Oggi, invece, ci troviamo in una modernità liquida, come direbbe Bauman, dove le icone non sono più radicate nella storia, ma galleggiano nella superficie effimera dei social. Non si costruiscono attraverso un percorso, ma emergono in modo improvviso, spesso artificiale, e altrettanto rapidamente svaniscono, sostituite da un volto nuovo, da un nuovo prodotto da consumare. Non esiste più il tempo necessario alla sedimentazione di un mito, perché il mito è diventato un algoritmo che premia la ripetizione, l’adattabilità, l’assenza di complessità. L’icona non nasce più dalla realtà vissuta, ma da un set ben allestito, dalla capacità di vendersi come perfetta, replicabile, conforme a uno standard prestabilito.
Nella modernità liquida, come la definiva Zygmunt Bauman, le icone non si radicano più nella storia, ma galleggiano sulla superficie effimera dei social media, costruite e distrutte con la velocità di un trend virale. Ecco alcuni esempi di successi effimeri che incarnano questa realtà:

(la giovanissima influencer del lusso)
- Lil Tay, una bambina canadese di appena nove anni, è diventata virale per il suo personaggio di “rapper più giovane del mondo”, ostentando ricchezze e un linguaggio provocatorio su Instagram e YouTube. Il suo successo era interamente costruito dai genitori e dal fratello, rivelando quanto le icone di oggi siano spesso prodotti studiati a tavolino. Dopo il boom, la sua figura è scomparsa improvvisamente dalla scena.

Salt Bae (l’artefice della bistecca virale)
- Il macellaio turco Nusret Gökçe, noto come “Salt Bae”, ha trasformato un singolo gesto – il modo teatrale di spargere il sale sulla carne – in un fenomeno virale. Ha aperto ristoranti di lusso e attirato celebrità, ma col tempo la sua fama è scemata, mostrando quanto il culto dell’icona moderna sia legato a momenti fugaci.

The Island Boys (la fama da TikTok senza sostanza)
- Due fratelli gemelli con capelli eccentrici e tatuaggi vistosi hanno guadagnato milioni di visualizzazioni con una canzone improvvisata e ripetitiva su TikTok. La loro fama è esplosa rapidamente, ma altrettanto velocemente sono stati dimenticati, senza un reale talento o un’eredità artistica su cui basarsi

Rebecca Black (l’ascesa e la caduta di “Friday”)
- Nel 2011, Rebecca Black è diventata un fenomeno globale con la canzone Friday, definita da molti “la peggior canzone mai scritta”. Il suo successo non era basato sulla qualità, ma sulla viralità ironica. Dopo l’ondata di notorietà, la sua carriera musicale è rimasta nell’ombra, confermando l’instabilità delle icone digitali.

Meme Influencer (da “Cash Me Outside” a “Chewbacca Mom”)
- Bhad Bhabie (nata come meme con la frase “Cash me outside” in un talk show) è riuscita a monetizzare la sua fama temporanea diventando una rapper, mentre altri, come “Chewbacca Mom” (la donna che rideva con la maschera di Chewbacca), sono stati travolti dall’attenzione momentanea e poi dimenticati.
Questi esempi dimostrano che le icone contemporanee spesso nascono da momenti fortuiti, costruiti per intrattenere e catturare l’attenzione, ma privi di una reale profondità culturale o storica. In un’epoca in cui la viralità determina la rilevanza, il crepuscolo arriva molto più in fretta di quanto non accadesse per le icone del passato. (f.d.b.)
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Nietzsche parlava di nichilismo come la condizione di una società che ha perso i suoi valori più profondi. E come potremmo non vederlo nel passaggio da Faithfull a Taylor Mega, dalla Hardy a Michelle Comi? L’icona non è più una testimone del tempo, ma un riflesso vacuo di un presente senza spessore. Non è un faro che illumina un’epoca, ma un ologramma proiettato su uno schermo, privo di peso, privo di storia. Un tempo, la sofferenza, la passione e la ribellione erano parte integrante del mito di un’artista. Oggi, ogni segno di imperfezione deve essere cancellato, ogni eccesso deve essere calcolato, ogni provocazione è solo una strategia di marketing.
Spengler direbbe che siamo nella fase crepuscolare della cultura: ciò che prima era creazione oggi è spettacolo, ciò che era arte è diventato intrattenimento. È il declino inevitabile di una civiltà che ha smesso di cercare significati più grandi e si accontenta della gratificazione immediata. L’icona contemporanea non incarna più l’epoca nel senso profondo del termine, ma ne riflette soltanto la superficialità. La cultura non produce più simboli, ma solo immagini da consumare. L’arte non aspira più all’eternità, ma al massimo a qualche migliaio di like.
Inutile illudersi: viviamo nel regno dei simulacri, dove non c’è più bisogno di una sostanza, basta l’immagine. Una immagine scadente, senza profondità. Come una saponetta da vendere. Non si diventa icone per ciò che si rappresenta a più livelli di lettura, ma per la capacità di esistere come prodotto visivo. Baudrillard lo aveva previsto: il simulacro ha sostituito la realtà, e oggi non c’è più alcuna distinzione tra l’essere e l’apparire. Un tempo l’immagine nasceva dalla sostanza, oggi la sostanza è un fastidio, un orpello inutile che rallenta la corsa alla visibilità.
E così, nel passaggio dalle muse tormentate e luminose degli anni passati alle influencer del nostro presente, assistiamo a un’involuzione culturale mascherata da progresso. La leggerezza non è più quella grazia elegante di una Hardy che sussurra il proprio tempo con voce lieve e penetrante, ma una superficialità piatta, industrializzata, replicabile all’infinito. Non è un’estetica nuova, è la fine dell’estetica.
Non ci sono più storie da raccontare, perché il racconto è stato sostituito dall’algoritmo, e il talento dalla strategia. Nulla resta, nulla si sedimenta. Il tempo stesso sembra aver perso la sua profondità, schiacciato in un eterno presente di immagini che si bruciano alla velocità dello scroll. Guardarsi intorno oggi è come fissare il riflesso di uno specchio rotto: frammenti di un passato ancora riconoscibile, ma che non si ricomporrà più.
