Quand’ero bambino non mi spaventavano orchi, streghe o l’uomo nero
MEDICINA CANAGLIA
Quand’ero bambino non mi spaventavano orchi, streghe o l’uomo nero, ma gli uomini bianchi, i medici nei loro camici lindi. Aghi, siringhe, il terribile olezzo di disinfettante, entrare in un ambulatorio era come varcare la soglia di un antro spaventoso. Un giorno, avevo forse cinque anni, il dottore cercava d’abbassarmi la lingua con l’apposito, odioso strumento. Così gli rifilai un violento ceffone. Mia madre, costernata, mi rimproverò aspramente, si profuse in scuse, mi blandì, minacciò ritorsioni, ma non riuscì a piegarmi. Il medico rinunciò a guardarmi la gola.
Solo gradualmente imparai a riporre nei medici e nei farmaci un’ottimistica fiducia. Questa nuova fase durò finché l’esperienza non la mise in crisi. L’osservazione su me stesso e su altri cominciò a segnare con profondi dubbi quell’ingenuo sentimento. La vita mi mostrò che le mie idee di malanni e terapie galleggiavano sulla piatta superficie dei sintomi, mentre sotto si apriva immenso e ignoto l’oceano delle vere cause e dei rimedi. La medicina che avevo prima temuto e poi ammirato mi sembrava ora un apparato di formule ammalianti ma inette a curare e guarire, perché ignare della profondità della vita. Ammetto che la medicina possa in certi casi salvare la vita, alleviare disturbi e dolori, ma non è certo grazie a lei che possiamo ritrovare la salute. Detto ciò, lascio che ognuno scelga liberamente i medici e le terapie cui affidarsi.
Mi ha perciò colpito la vicenda di quella ragazza diciottenne e dei suoi genitori, lei morta di leucemia dopo aver rifiutato i trattamenti chemioterapici, loro condannati a due anni di reclusione per omicidio colposo, ritenuti colpevoli di aver condizionato ideologicamente la volontà della figlia, inducendola a seguire terapie ‘antiscientifiche’. Trovo sconcertanti le motivazioni della sentenza, secondo cui non si può ritenere che la ragazza abbia esercitato un suo diritto all’autodeterminazione, perché succuba dei genitori e delle loro convinzioni, e perché “non aveva, in ragione dell’età, la percezione della reale possibilità di morire, essendo forte di un senso di immortalità”.
Ancor più incredibile mi parve quella sentenza che alcuni mesi fa condannò all’ergastolo (con regime d’isolamento diurno) una dottoressa sarda, rea d’aver proposto terapie non convenzionali a tre suoi pazienti oncologici. L’accusa era di averli così indotti a disertare le sedute chemioterapiche, accelerandone presumibilmente la morte. Assunto logicamente fragilissimo, perché basato su supposizioni, ipotesi, probabilità statistiche. Soprattutto mi risultò incomprensibile l’accusa di omicidio volontario, aggettivo che avevo sempre associato all’intenzionalità. Sentenze per me oscure, ma che chiaramente colpiscono alla radice sia la libertà di scelta del paziente che quella del medico.
Quando a mia madre fu scoperto un cancro di massicce dimensioni al polmone sinistro, già con diffuse metastasi e quindi inoperabile, l’oncologo prospettò un ciclo chemioterapico. Privatamente mi disse che l’aspettativa di vita in un caso simile non superava i sei, otto mesi, forse meno se il male si fosse esteso ad altri organi. Mia madre rifiutò il trattamento non perché le difettasse “la percezione della reale possibilità di morire, essendo forte di un senso di immortalità”, ma perché aveva conosciuto persone che da quelle cure, invece di reali e duraturi benefici, avevano tratto solo ulteriori sofferenze. Così, seguendo metodi ‘antiscientifici’, visse ancora un anno e mezzo, senza dover sopportare i pesanti effetti collaterali delle chemio.
Questo non implica che le cosiddette ‘terapie alternative’ siano a priori migliori di quelle convenzionali. Non conosco a fondo le statistiche sui tempi di sopravvivenza, e se le conoscessi dubiterei dei loro criteri metodologici. Troppo forti sono gli interessi economici in gioco per illudersi che tali resoconti seguano criteri di assoluta onestà. Pensare che le grandi aziende farmaceutiche, coi loro bilanci faraonici, esercitino una forte pressione su apparati legislativi, laboratori di ricerca, OMS, università, riviste scientifiche, elaborazione dei dati ecc. non mi pare un’ipotesi inverosimile o un’infondata teoria della cospirazione. Trovo dunque ragionevole credere che le statistiche traccino un quadro generale coerente con il proposito di consolidare la fiducia nelle cure convenzionali.
Di fatto, la gente si fida, benché ogni anno nel mondo nove milioni di persone muoiano di cancro, spesso con margini di sopravvivenza molto ridotti e pur avendo ottemperato ai protocolli della medicina ufficiale. Non mi risulta che i medici curanti vengano per questo processati e condannati. Li scagiona il fatto che quella strage avviene in modo formalmente corretto, seguendo le linee guida. E i ripetuti fallimenti non impediscono alla medicina di celebrare i suoi progressi nella lotta al cancro e di denigrare ogni altra via di cura come frode e ciarlataneria. Se una persona ottiene benefici o guarigioni con metodi ‘eccentrici’, lo spiega col caso, la suggestione, l’eccezione inesplicabile. Se invece muore, lancia accuse di omicidio a chi gli ha proposto cure non ortodosse.
La medicina vede nel tumore un corpo estraneo, un nemico, e nella terapia una guerra. E se qualcuno sopravvive per qualche mese in più pensa d’aver “sconfitto il cancro”. Ma vi sono molti ricercatori che denunciano il carattere effimero di questi successi. I meno inclini a credere alle vittorie sul cancro sembra siano le banche e gli istituti di assicurazione. È nota la loro contrarietà a concedere mutui e polizze ai malati oncologici anche dopo l’ipotetica ‘guarigione’. Riluttanza che non dipende da ragioni emotive ma da fredde e obiettive percentuali sulle aspettative di vita. Alcuni, meno cinici, hanno invocato il “diritto all’oblio” per questi malati, vittime del pragmatismo contabile.
“Io non sono il mio tumore” recitava una campagna condotta per sensibilizzare gli istituti di credito. A parte l’aspetto utopico di tale proposito (tutti sanno che le banche non hanno un cuore) resta il fatto che “io sono il mio tumore” e non posso dimenticarlo. Attraverso di lui esprimo l’intima relazione tra il mio ambiente interno e quello esterno, tra il mondo e la mia psiche. “Io sono il mio raffreddore, il mio diabete, il mio mal di cuore” ecc. Ogni malattia è un confronto o un conflitto con sé stessi. È una conseguenza di fatti oggettivi ma è anche un mistero soggettivo, che si radica in un Tutto visibile solo in minima parte.
Così, dovremmo rispettare ogni cura che apporti benefici al malato, anche se lo fa in modi che non comprendiamo. Non dobbiamo porre la medicina ufficiale su un piedistallo intoccabile. Che motivo avrebbe questa venerazione? Si dice che gli errori dei medici siano la terza causa di decessi al mondo. Penso che ciò si riferisca a una responsabilità basata su imperizie nella diagnosi o nella terapia. Ma se allargassimo il nostro raggio d’osservazione e mettessimo nel conto le rituali cure che, pur scrupolosamente rispettate, non hanno evitato ai malati una morte prematura, la nostra medicina potrebbe aggiudicarsi un funesto primato, superando cancri e infarti, le più catastrofiche pestilenze e le più sanguinose guerre.
Trovo quindi non solo disumano ma anche assurdo che, nel caso della diciottenne morta di leucemia, si dica: “i genitori le hanno negato il diritto di vivere”. Neppure la persona più sana del mondo gode di un tale diritto. Non lo concede la natura, come potremmo garantirlo noi? Ci sforziamo di proteggere la nostra salute, ci asteniamo dal nuocere a qualcuno, ecco tutto. Potremo al massimo stabilire il diritto del malato d’esser curato, ossia il dovere di curarlo. Ma non v’è legge che assicuri la guarigione, né tantomeno la vita. Neppure esiste una medicina assoluta, custode di verità e poteri salvifici. Vi sono bravi medici, che si prodigano per il bene dei loro pazienti, e cattivi medici che trattano i malati senza umanità, come numeri e ‘casi clinici’. E su loro, come un’ombra sinistra, la grande lobby del farmaco, madre di una medicina canaglia che specula sulla sofferenza umana.
Tuttavia, non è la questione etica il fulcro del problema, ma una dottrina della conoscenza che si fa giurisprudenza e che pone l’essere ‘antiscientifici’ tra i crimini punibili per legge. Questo “ius non scriptum” potrebbe col tempo farsi consuetudine. La scienza diventa così una sorta di sacra gnosi, un corpus di dogmi metafisici, da razionale tentativo di spiegare i fatti assurge a dottrina di salvezza, rivelazione di verità indiscutibili. Scienza togata e clericale. Così, il dubbio, il dissenso, si trasformano in reati e i tribunali in severi sorveglianti dell’ortodossia. Lo Stato ci obbligherà a credere nell’efficacia irrinunciabile della chemioterapia, nelle virtù di un vaccino, nel riscaldamento globale ecc. come la Chiesa imponeva di credere alla Parola di Dio.
La stessa creazione ad hoc di emergenze sanitarie o climatiche tende a massificare il consenso intorno a un’interpretazione univoca della realtà, quale emerge dal Verbo scientifico. Ma la credibilità di una simile ‘scienza’ crolla nel momento in cui dubitarne è considerato un crimine. È infatti evidente che l’epiteto di ‘antiscientifico’ non dipende più da un criterio razionale ma da uno stigma di carattere religioso. Individua e colpevolizza un atteggiamento eretico, un’apostasia. E già si vede all’orizzonte una società in cui sarà permesso ogni atto e dottrina contro natura mentre l’agire e il pensare ‘contro scienza’ verranno perseguiti col rigore di una nuova Inquisizione. È dunque facile prevedere un aumento di sentenze repressive e pedagogiche come quelle citate – “unum castigabis, centum emendabis“, colpirne uno per educarne cento, avrebbe detto Mao Tse-Tung.
In realtà, la Cassazione accenna al rispetto dell’autodeterminazione – ovvero della libertà di cura – ma ritiene che la circostanza in questione ne esuli perché la ragazza si fidò dei genitori, senza avere reale nozione del problema. Dunque, si ammettono scelte che escano dai postulati della medicina ufficiale se si dimostra che derivano da un pensiero autonomo, consapevole e maturo. In tal caso anche un minore potrebbe rifiutarsi di sottoporsi alla chemio e optare per l’omeopatia, la medicina di Hamer o i fiori di Bach. A patto però che conosca a fondo la letteratura a riguardo, le implicazioni metodologiche, il rapporto tra rischi e benefici ecc. Questa reductio ad absurdum può apparire paradossale ma in realtà semplifica il problema.
A nessuno infatti potremo mai riconoscere la libertà di autodeterminarsi e di scegliere liberamente una cura se condizione necessaria ne è una piena consapevolezza teorica. L’unica decisione permessa sarà di cedere a esperti legalmente certificati la nostra facoltà di decidere, piegandosi agli Ordini della ‘Scienza’. Del resto, è quello che già fanno tutti coloro che si sottopongono alla chemioterapia. Si affidano alla medicina ufficiale, e non sono certo meno succubi dei medici di quanto quella ragazza lo fosse dei suoi genitori. Dunque, per coerenza, ogni volta che uno di loro muore dopo aver seguito i protocolli sanitari, dovremmo accusare i medici di circonvenzione d’incapace, d’aver plagiato il paziente, di avergli negato il diritto di vivere.
V’è però un altro aspetto che mi lascia particolarmente perplesso. La sentenza afferma che la ragazza non era libera di scegliere perché “non aveva, in ragione dell’età, la percezione della reale possibilità di morire”. Mi chiedo come possano dei giudici leggere così chiaramente nell’animo umano. Vi sono bimbi perfettamente consapevoli del dover morire e decrepiti centenari che ancora si illudono e non vedono la morte come una probabilità reale. Per altro, che la coscienza della morte sia presupposto di libertà – come diceva Montaigne – è concetto filosofico e non giuridico. Per esser liberi non è indispensabile sentirsi morituri ogni volta che si opta per questa o quella cura.
Si nega che questa ragazza avesse la capacità di scegliere razionalmente perché aveva in sé un forte “senso di immortalità”. Perciò, d’ora in avanti, chiunque mostri una fede così palesemente antiscientifica dovrà esser interdetto, perché incapace d’intendere e di volere. Non importa se la nostra civiltà nasce dall’opera di filosofi, artisti, statisti, scienziati, fermamente convinti d’essere immortali. Chi ancora crederà nella vita eterna e in altre fole – come le medicine alternative – sarà affidato alla tutela di una scienza obiettiva che sceglierà per lui. Per il suo bene.