Mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantavano i Giganti. Ora invece le canzoni cantate da Chris Martin diventano l’inno del concerto evento per le vittime dell’attentato di Manchester: Viva la Vida, Fix You e Don’t look back in anger.
Ma purtroppo non sarà l’ennesimo concertone spolverato di buoni sentimenti a cambiare le cose. Per carità, nulla di personale contro Ariana Grande e tutte le star che si sono raccolte attorno a lei, due sere fa a Manchester, per dire no al terrore. Ma sono ormai da più di trent’anni, dai tempi dei Live Aid un concerto rock tenutosi il 13 luglio 1985 per aiutare il Terzo Mondo. dove grazie a quei concerti riuscì a raccogliere 150 milioni. E l’Africa è ancora lì, con tutti i suoi drammi e le sue miserie, E le schitarrate in difesa dell’ambiente, che le multimilionarie star della canzone pontificano squadernando ipocrisia e melassa. E il buco nell’ozono – se ne faccia una ragione Bono Vox – non si rammenda grazie a una canzonetta. Ma se quelli degli anni Ottanta potevano essere derubricati come scemi di guerra in tempo di pace, quelli di Manchester hanno fatto un ulteriore passo avanti. Questi sono scemi di guerra in tempo di guerra. Ma non lo sanno. E continuano a ostentare il solito armamentario da hippie in naftalina. La solita e retorica idea che bisogna mettere i fiori nei cannoni al posto dei proiettili, ma i fiori poi li depongono sui luoghi dei massacri, e sulle tombe dei martiri di questa guerra oscena e bastarda.
La musica è cambiata ma i musicisti non l’hanno sentita. «He will win love» hanno salmodiato tutti i cantanti che, uno dopo l’altro, si sono succeduti sul palco. Le solite sbrodolanti parole: tolleranza, amore universale, fratellanza. Parole bellissime, certo, ma ahinoi fuori moda, non adatte a questi tempi.
L’arena inglese era la rappresentazione di un Occidente che gioca con le parole, che testardamente non sfoglia il dizionario per andare a leggere il loro reale significato. Che le usa da sempre come un balsamo per anestetizzare le coscienze e le proprie paure. Chi non vorrebbe parlare solo di amore e tolleranza, piuttosto che di odio e guerra, infilando la testa nella trincea del politicamente corretto? Ma ogni tanto bisogna guardare in faccia la realtà, bella o brutta che sia.
Sarebbe bastato fare una panoramica, guardare una delle belle inquadrature aeree del prato dell’Old Trafford Cricket Ground. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa radunati in un “anello di acciaio” con i mitra spianati in mano, metal detector agli ingressi, droni ed elicotteri nel cielo plumbeo d’Inghilterra. Ci si sarebbe accorti che quella non era una festa, era un funerale, un funerale blindato della retorica del peace & love, un festival danzante sull’orlo del precipizio.
L’illusione pacifista sopravvive solo circondata da un cordone di militari che nei mitra hanno pallottole e non boccioli di rosa. Perché siamo in guerra. E bisogna dirlo. E se necessario pure cantarlo.
Marco Buggio
6 Giugno 2017 a 16:28
Penso, la musica non ferma l’orrore ne placa la follia dell’uomo.
Ma abbiamo ancora la forza per ascoltare vecchi long playing di pace dei Beatles o nuovi mp3 di canzoni urlate al vento, questo perchè la nostra democrazia ci ha portato a poterle udire.
Sinceramente non sento un limite e uno stato di paura imposto, sono ancora libero di poter affrontare la vita, la musica nonostante siamo in guerra, alternativa e diversa da quelle storiche ma purtroppo lo siamo.
Vedere militari ad un concerto per la sicurezza, ricorda una frase di Ghandi quando gli dissero che lo avrebbero difeso con le pistole “non voglio essere difeso da te, perchè non sarai tu a difendermi ma la tua pistola, e questo non va bene.”
Non è cambiato nulla, da allora ma almeno abbiamo la libertà di ascoltare la musica, senza paura e senza fucili spianati.