”Pensate un po’: una ragazza di Boston che versa lacrime sul menu!
Era un giorno di marzo.
Non cominciate, in nessun caso, un racconto a questo modo. Non è possibile immaginare inizio peggiore. È privo di fantasia, piatto, arido e con tutta probabilità serve solo a menare in can per l’aia. Ma in quest’ultimo caso e ammissibile. Giacché il successivo capoverso, cui sarebbe spettato il compito di aprire il racconto, è troppo stravagante, troppo incredibile, per buttarlo in faccia al lettore così, senza nessuna preparazione.
Gena stava piangendo sul suo menu.
Pensate un po’: una ragazza di Boston che versa lacrime sul menu! Per trovare una spiegazione, vi si concederà di supporre che le aragoste fossero finite, o che la fanciulla avesse giurato di astenersi dai gelati per tutta la Quaresima, o che avesse ordinato cipolle, o che fosse reduce da una matinée di Hakett. Dopo di che, essendo tutte codeste teorie totalmente errate, avrete la bontà di permettermi di continuare la storia. Quel signore che annunciò che il mondo era un’ostrica che egli avrebbe aperto con la spada, fece più impressione di quanta non ne meritasse. Non è difficile aprire un’ostrica con una spada. Ma avete mai visto nessuno provarsi ad aprire la terreste bivalva con l’aiuto di una macchina da scrivere? Vi aspettate di vedergliene aprire una dozzina, e crude, a quel modo?
Gena era riuscita ad aprire le valve con quell’idoneo strumento, quanto basta per cogliere una briciola del freddo mondo mucoso che vi era racchiuso. Di stenografia ne sapeva poco, non più di una diplomata stenografa appena abbandonata al mondo da una scuola di commercio. E dunque, non sapendo stenografare, non poteva fare ingresso nella splendida galassia degli impiegati di concetto. Era una libera dattilografa, e andava in cerca di sparsi lavori di copiatura.
L’impresa più brillante, l’impresa trionfale, nella battaglia di Gena con il mondo, era stato il patto stipulato con il Ristorante Familiare di Mizrahì. Il ristorante stava a porta a porta con il rosso edificio di mattoni in cui ella alloggiava, in una camera ammobiliata. Una sera, dopo aver cenato con le cinque portate della mensa comune, da 40 cents(servite con la medesima prestezza con cui si lanciano cinque palle contro il birillo a testa di negro) Gena si portò a casa il menu. Era scritto in modo quasi affatto illeggibile, né inglese né tedesco, e così distribuito che, a non farci attenzione, c’era il caso di cominciare con stuzzicadenti e budino di riso, e di finire con il brodo e il giorno della settimana. Il giorno successivo Gena mostrò a Mizrahì un cartoncino ben ordinato su cui era bellamente scritta a macchina la lista delle vivande, tutte al loro posto giusto in ordine cattivante, da hors d’oeuvrea «non si risponde dei cappotti e degli ombrelli».
Mizrahì diventò istantaneamente cittadino naturalizzato. Prima di andarsene, Gena lo aveva indotto ad un accordo. Gli avrebbe fornito liste delle vivande scritte a macchina per i ventun tavoli del ristorante – una nuova lista per la cena ogni giorno e, ogni qual volta lo richiedessero mutamenti o esigenze di decoro, liste nuove anche per la colazione e il lunch.
In cambio Mizrahì avrebbe mandato tre pasti al giorno alla stanza di Gena, per mano di cameriere possibilmente ossequioso, ed ogni pomeriggio le avrebbe fornito una brutta copia a matita di quel che il Destino aveva in serbo per i clienti di Mizrahì dell’indomani. Dell’accordo derivò mutua soddisfazione. I clienti di Mizrahì ora conoscevano il nome del cibo che mangiavano, anche se la natura di esso li lasciava talora perplessi. E Gena ebbe cibo durante un freddo, tetro inverno, il che era per lei la cosa più importante.
E poi il calendario mentì, e disse che la primavera era arrivata. La primavera viene quando viene. Le gelide nevi di gennaio ancora coprivano diamantine le strade che tagliavano la città. Gli organetti a mano ancora suonavano La bella vecchia estate, con la intensa espressività decembrina. Gli uomini cominciarono a firmare cambiali a trenta giorni per acquistare abiti pasquali. I portieri spensero il vapore. E quando queste cose accadono, si può star certi che la città è ancora nella morsa dell’inverno.
Un pomeriggio Gena rabbrividiva nella sua elegante camera a pensione; «casa riscaldata; pulizia accurata; accessori; vedere per apprezzare». Non aveva alcun lavoro da fare, oltre le liste per Mizrahì. Gena sedeva sulla sua scricchiolante sedia a dondolo di vimini, e guardava fori della finestra. Sul muro, il calendario continuava a gridarle: «È arrivata primavera, Gena – è arrivata primavera, ti dico. Guardami un po’, lo dicono i miei segni. E tu, leggiadra figura primaverile, perché guardi con tanta malinconia fuori dalla finestra?».
La stanza di Gena stava sulla parte posteriore della casa. Dalla finestra ella poteva vedere il compatto muro posteriore dello scatolificio della strada accanto; ma il muro era chiarissimo cristallo; e quel che Gena vedeva era un viottolo erboso, ombrato di olmi e ciliegi, orlato di lampioni e di rose cherokee. I veri nunzi della primavera sono troppo sottili, sfuggono all’occhio e all’orecchio. Per taluni occorre il fiorire del croco, o il corniolo che costella i boschi, o la voce della cutrettola – o magari un grossolano annuncio quale può essere la congedante stretta di mano dell’ostrica con grano saraceno – prima che possano accogliere la Dama in verde nei loro petti inerti. Ma per gli eletti della vecchia terra, giungono diretti, teneri messaggi della nuovissima sposa, che dicono che essi non saranno orfani, a meno che così non vogliano.
La precedente estate Gena era andata in campagna e s’era innamorata di un campagnolo.
(Quando scrivete una storia, mai tornare indietro in questo modo. È una goffaggine, spegne ogni interesse. Avanti deve andare, avanti).
Gena passò due settimane a Hornstra Farms. E lì apprese ad amare Williem, il figlio del vecchio Hughes, contadino. Contadini sono stati amati, sposati, e trasformati in erba in assai meno tempo. Ma il giovane Klaidi Hughes era agricoltore moderno. Aveva il telefono nella stalla, e sapeva calcolare con esattezza quale effetto avrebbe avuto il prossimo raccolto canadese sulle patate seminate con la luna nuova.
In quell’ombroso viottolo adorno di lamponi, Klaidi l’aveva corteggiata, e l’aveva conquistata. Insieme si erano seduti ed avevano intrecciato una corona di bocche di leone per i suoi capelli. Egli aveva esaltato senza ritegno l’effetto dei gialli boccioli contro le sue trecce brune; e su quelle Gena aveva lasciato la ghirlanda, ed era tornata a casa col grande cappello di paglia che pendeva oscillante dalla sua mano.
Dovevano sposarsi in primavera, ai primissimi segni della primavera, aveva detto Williem. E Gena era tornata in città per battere sui tasti della sua macchina da scrivere.
Un colpo battuto alla porta disperse le immagini di quel giorno felice. Un cameriere aveva portato la rozza brutta copia della lista delle vivande per il giorno dopo, nella scrittura angolosa del vecchio Mizrahì.
Gena sedette alla macchina da scrivere, introdusse un cartoncino tra i rulli. Era svelta a lavorare. Generalmente, in un’ora e mezzo le ventuno liste erano bell’e pronte.
Quel giorno i cambiamenti erano più numerosi del solito. Più leggeri i brodi; eliminato il maiale dalle entrées, e reperibile solo con rape tra gli arrosti. Il grazioso spirito della primavera pervadeva l’intero menu. Agnelli che poco tempo innanzi avevano capriolato per le verdeggianti colline, venivano utilizzati unitamente a salsa di capperi. Il canto delle ostriche, non ancora ridotte al silenzio, era già diminuendo con amore. La padella pareva restare inattiva dietro alle benefiche sbarre della griglia. Cresceva la lista dei pasticci; erano spariti i budini più grevi; la salciccia, avvolta nel suo drappo, protraeva una amabile contemplazione della morte in compagnia del grano saraceno e del dolce ma moribondo succo d’acero.
Le dita di Gena danzavano come zanzare sopra un fiume estivo. Ella percorse le successive portate, dando a ciascuna voce la giusta collocazione, dopo averne considerato la lunghezza con occhi attenti. Sopra al dessert cominciava la lista delle verdure. Carote e piselli, asparagi su pane tostato, gli eterni pomodori, e grano e succotash, fave, cavolo… e… Gena stava piangendo sul suo menu. Dalla profonda angoscia scaturirono lacrime nel suo cuore e le salirono agli occhi. Si abbassò la sua testa sul tavolino della macchina da scrivere, e la tastiera accompagnò con un secco-crepitio i suoi umidi singhiozzi. Da due settimane non aveva ricevuto nessuna lettera da Williem, e la voce che le stava davanti sulla lista delle vivande era: bocche di leone – bocche di leone con non so che uova – ma che importano le uova! Bocche di leone erano quelle, con i cui aurei fiori Klaidi l’aveva incoronata regina d’amore e sposa futura – bocche di leone, nunzi della primavera, dolorosa corona dei suoi affanni, memorie di giorni più felici.
Signora, vi sfido a sorridere quando vi toccasse una prova come la seguente: le rose Maréchal Niel che Percy vi portò la sera in cui gli deste il vostro cuore, quelle rose vi siano servite come insalata con salsa francese alla tavola comune di Mizrahì.
Se Giulietta avesse visto a quel modo buttati i suoi pegni d’amore, quanto prima avrebbe cercato le erbe letee del buon speziale.
Ma quale strega è la primavera. Occorreva inviare un messaggio alla grande fredda città di pietra e di ferro. E non vi era nessuno che potesse recarlo, se non il piccolo audace corriere dei campi con la sua ruvida veste verde e l’aria dimessa. È un vero soldato di ventura, questa bocca di leone, questo dent de lion come lo chiamano gli chefs francesi. In fiore, intrecciato alla chioma brunetta della dama, gioverà alle imprese d’amore; acerbo, non ancora fiorito, finisce bollito in pentola, e reca il messaggio della sua sovrana signora.
Gena respinse le lacrime. Bisognava scrivere quelle liste. Ma ancora prese nel suo tenue, aureo sogno di bocche di leone, per qualche poco diteggiò distrattamente i tasti della macchina, mentre. Il cuore e la mente indugiavano in un viottolo campestre, al fianco di un giovane campagnolo. Ma presto ella ritornò ai duri selciati di Manhattan, e la macchina da scrivere cominciò a sussultare e scuotersi come un autocarro di crumiri.
Alle sei il cameriere le portò il pranzo e si portò via i suoi menusscritti a macchina. Quando Gena si pose a mangiare scostò con un sospiro il piatto di bocche di leone unitamente al suo fastigio ovario. Come il fiore caro e brillante all’amore era stato trasformato nella oscura massa di una ignobile verdura, così le sue speranze estive erano avvizzite ed erano perite. Shakespeare affermò che l’amore può nutrirsi di sé stesso; ma Gena non poteva persuadersi a mangiare quelle bocche di leone che avevano adornato della loro grazia il primo banchetto spirituale del suo cuore leale e amoroso.
Alle sette e mezzo la coppia della stanza accanto cominciò a leticare; l’uomo della stanza di sopra si diede a tentare un do del suo flauto; la fiamma del gas si abbassò un poco; tre vagoni di carbone cominciarono a scaricare – l’unico suono di cui il fotografo sia geloso; i gatti sulle palizzate dei cortili cominciarono a ritirarsi lentamente verso Mukden. Da questi segni Gena sapeva che era tempo di darsi alla lettura. Trasse fuori Il Chiostro e il Focolare, il miglior libro del mese tra quelli che nessuno leggeva, mise i piedi sul baule, e cominciò a vagabondare insieme a Gerard.
Squillò il campanello alla porta. La padrona andò ad aprire. Gena lasciò Gerard e Danys bloccati su di un albero da un orso e si mise ad ascoltare. Oh sì; anche voi l’avreste fatto, proprio come lei!
Poi nell’atrio, da basso, risuonò una voce robusta e Gena balzò alla porta lasciando il libro sul pavimento e agevolmente concedendo all’orso il primo round.
Avete indovinato. Gena raggiunse il pianerottolo sulle scale mentre il suo campagnolo saliva tre gradini per volta per mieterla e farne covone, senza lasciare più nulla per gli spigolatori.
«Ma perché non hai scritto, perché?», esclamò Gena.
«Boston è una citta piuttosto grande», disse Williem, «sono venuto qui una settimana fa e ti ho cercato al vecchio indirizzo. Seppi che tu te ne eri andata di giovedì. Era un particolare consolante: sempre meglio che di venerdì. Ma non mi ha impedito di darti la caccia, con la polizia e in tutti i modi possibili».
«Ma io ti ho scritto», disse Gena con impeto.
«Mai ricevuto».
«E allora come hai fatto a trovarmi?»
Il giovane campagnolo sorrise di un sorriso primaverile.
«Questa sera sono entrato per caso in quel ristorante familiare, qui accanto», disse. «Non so chi lo sappia, né mi importa; ma in questa stagione io amo un piatto di una certa verdura. Feci scorrere l’occhio lungo la lista scritta a macchina in così bell’ordine, cercando qualcosa del genere. Quando arrivai sotto a cavolo, girai la sedia e chiamai a gran voce il proprietario. Lui mi disse dove abitavi».
«Ricordo», sospirò Gena felice, «sotto a “cavolo” c’era “bocche di leone”».
«In qualunque punto del mondo riconoscerei quella W matta che va fuori linea», disse Hughes.
«Ma in “bocche di leone” non ci sono K», disse Gena, sorpresa.
Il giovanotto trasse la lista dalla tasca e indicò una riga. Gena riconobbe la prima carta che aveva battuto a macchina quel pomeriggio. Nell’angolo destro in alto, nel punto in cui era caduta una lacrima, c’era ancora la macchia raggiata. Ma dove doveva trovarsi il nome della pianterella prativa, la tenace memoria degli aurei boccoli aveva consentito alle sue dita di toccare strani tasti.
Tra il cavolo rosso e i peppers ripieni, c’era scritto:
MIO CARISSIMO KLAIDI, CON UOVA SODE.