Morella è un racconto di Edgar Allan Poe. Il testo fu scritto nell’aprile del 1835 e pubblicato nella raccolta Racconti del grottesco e dell’arabesco del 1840.

Trama

L’io narrante racconta di aver conosciuto Morella molti anni addietro, per caso; ne fu subito profondamente attratto, anche se gli ardori che lo presero « non erano quelli di Eros », e la sposò. La donna, erudita, trasmette il proprio sapere al marito. Ama in particolare gli studi filosofici e teologici, con una preferenza marcata per l’antica letteratura mistica tedesca, probabile retaggio dell’educazione ricevuta in Germania. Il protagonista non è però sulla stessa lunghezza d’onda; mentre Morella si identifica con le sue letture mistiche, egli sente sovente « uno spirito proibito destarsi in lui », che Morella cerca di spegnere sul nascere con « qualche grave e singolare parola ». A poco a poco, l’inquietudine e l’orrore che gli procurano il pensiero e i discorsi di lei vanno aumentando e turbandolo nell’intimo, cosicché quando la moglie si ammala e poi peggiora progressivamente, attende con ansia la sua morte. Chiamato l’uomo al suo capezzale, Morella gli comunica di sapere che lui l’ha aborrita e che, nonostante stia per morire, vivrà. Gli lascia « un pegno di quell’affetto – ah! così poco! – che egli ha provato per lei », nella creatura portata in grembo. Nel momento in cui Morella spira, la piccola vede la luce. Inizialmente viene amata e ricoperta di ogni attenzione, anche se il padre la tiene all’oscuro della figura materna e non le permette di avere alcun contatto con il mondo esterno. A mano a mano che la bambina cresce, però, le sue fattezze e il suo spirito – sorprendentemente sviluppato in una persona della sua età, ed esperto dei rapporti umani, malgrado la reclusione imposta dal protagonista – ricalcano in modo sempre più preciso la defunta Morella. L’uomo si sente nuovamente invaso da una profonda sensazione di orrore, del tutto simile a quella che gli suscitava la moglie. Quando la figlia compie dieci anni, stremato dall’inquietudine, vede nel battesimo « un mezzo di liberazione dai terrori della sua sorte ». Non ha ancora pensato a come chiamare la bambina e, dinanzi al prete, un’inspiegabile ragione lo porta a pronunciare il nome di Morella. Allora l’infante si agita convulsamente, il suo volto assume « il pallore della morte » e, cadendo, dice: « Eccomi! ». Il protagonista finisce preda della follia, la seconda Morella muore; quando la porta alla tomba per seppellirla, nota che le tracce della prima Morella sono scomparse. Il suo riso amaro e prolungato chiude il racconto.

Fonte Wikipedia. 

Morella

Racconto 

di 

EDGAR ALLAN POE

Se stesso, da se stesso, solo UNO eternamente, e singolo.

(PLATONE – Convivio, 211, XXIX)

Consideravo la mia amica Morella con un sentimento in cui si mescolava il più profondo e al tempo stesso singolarissimo affetto. L’avevo conosciuta per caso molti anni prima, ma la mia anima, al nostro primo incontro, aveva appreso ad ardere di fuochi sino ad allora sconosciuti; non erano però i fuochi di Eros, e amaro e tormentoso al mio spirito era il graduale convincimento di non essere in grado di definire in modo alcuno il loro insolito significato, o di regolarne la misteriosa intensità. Tuttavia ci vedevamo spesso, e il destino ci legò insieme all’altare; ma mai io le parlai di passione, o pensai all’amore. Morella però scansava la società, e attaccata soltanto a me mi rendeva felice.

Era una felicità che rapiva, una felicità di sogno.

La sua erudizione era profonda. Le sue doti psichiche erano di ordine non comune, le sue facoltà mentali titaniche. Io sentivo questo, e sotto molti aspetti divenni suo alunno. Ben presto tuttavia mi accorsi che, forse causa la sua educazione presburghese, ella mi poneva dinanzi molti di quegli scritti mistici che di solito vengono considerati semplicemente come le scorie della primitiva letteratura tedesca. Per motivi che non sapevo immaginare, questi scritti rappresentavano il suo studio costante e favorito; e che col passar del tempo divenissero a mia volta la mia occupazione principale, è da attribuirsi al semplice ma efficace influsso dell’abitudine e dell’esempio.

In tutto ciò, se non erro, poco aveva che vedere la mia ragione. Le mie convinzioni, o io dimentico me stesso, non erano affatto dettate dall’ideale, né era possibile rintracciare sia nelle mie azioni sia nei miei pensieri anche la minima sfumatura del misticismo di cui leggevo, a meno che io non m’inganni grandemente. Persuaso di ciò, mi abbandonai implicitamente alla guida di mia moglie e penetrai col cuore risoluto negli intrichi dei suoi studi, e in seguito, allorché, meditando assiduamente su pagine proibite, io sentivo accendersi dentro di me uno spirito proibito, Morella soleva porre la sua fredda mano sulla mia, e frugare tra le ceneri di una filosofia morta qualche strana, singolare parola, il cui misterioso significato s’imprimeva bruciante nella mia memoria. Allora, per ore ed ore, io indugiavo al suo fianco, inebriandomi della musica della sua voce, sino a quando, a un tratto, la sua musicalità si soffondeva di terrore: allora un’ombra cadeva sulla mia anima, e io impallidivo e rabbrividivo interiormente a quegli accenti troppo ultraterreni. Allora la gioia si tramutava improvvisamente in orrore, e il supremamente bello di faceva ributtante, così come Hinnon divenne Gehenna.

É inutile che io ricordi qui la natura esatta di quelle disserzioni che, provocate dai volumi di cui ho detto, formarono per tanto tempo quasi l’unico argomento di conversazione tra Morella e me. Da coloro che son dotti in ciò che potrebbe essere definita morale teologica esse saranno prontamente comprese, mentre i profani non riuscirebbero a intenderle o quasi. L’avventato panteismo di Fichte; la palingenesi modificata dei Pitagorici, e soprattutto le dottrine intorno all’IDENTITÀ proposte da Schelling, erano solitamente i punti di discussione che presentavano la maggiore bellezza al temperamento immaginativo di Morella. Questa identità che viene detta personale, è definita giustamente dal Locke, io credo, come consistente nella sanità di mente di un essere razionale.

E poiché per persona noi intendiamo un’essenza intelligente dotata di ragione, e dal momento che vi è una consapevolezza che sempre accompagna il pensiero, è questa consapevolezza che ci fa essere tutti quel che noi chiamiamo NOI STESSI, distinguendoci con ciò dagli altri esseri pensanti, e donandoci la nostra identità personale. Ma il PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS, il concetto di quell’identità CHE IN MORTE É O NON É PERDUTA PER SEMPRE, è sempre stato per me una considerazione del più alto interesse, non tanto per la sconcertante ed eccitante natura delle sue conseguenze, quanto per il modo strano ed esagitato con cui Morella ne faceva parola.

Ma era ormai venuto il tempo in cui il mistero dell’atteggiamento di mia moglie mi opprimeva come un sortilegio: non riuscivo più a sopportare il tocco delle sue esili dita, né il tono sommesso della sua musicale favella, né lo sfavillio dei suoi occhi malinconici. Ella comprendeva tutto ciò, ma non si ribellava; sembrava essere conscia della mia debolezza o della mia follia, e sorridendo chiamava questo Destino.

Sembrava anche consapevole della causa a me sconosciuta di questa graduale alienazione del mio affetto, ma non mi fece mai cenno o spiegazione della natura di questa causa. Ma era sempre donna, e di giorno in giorno si struggeva. In breve una macchia vermiglia si fissò inesorabile sulle sue guance, le vene azzurre sulla sua pallida fronte risaltarono dolorosamente; a volte mi sentivo sciogliere di pietà, ma subito incontravo lo sguardo dei suoi occhi carichi di significato, e allora la mia anima si ritraeva angosciata e stordita dello stordimento di chi si chini a fissare un cupo insondabile abisso.

Dovrò dunque dire che attendevo con un desiderio ansioso, divorante, il momento del trapasso di Morella? Eppure è vero, ma il fragile spirito si avviticchiò al suo abitacolo di creta, per molti giorni, per molte settimane e tediosi mesi, sino a che i miei nervi tormentati ottennero il dominio della mia mente, e il ritardo mi infuriò, e con cuore demoniaco maledissi i giorni, le ore, gli amari momenti che sembravano allungarsi senza fine mentre la sua dolce vita declinava così come si allungano le ombre nello smorire del giorno.

Ma una sera d’autunno, mentre i venti sostavano immoti nel cielo, Morella mi chiamò al suo capezzale. Una incerta foschia avvolgeva tutta la terra, e dalle acque si levava un caldo riflesso, e tra le opulente foglie della foresta autunnale un arcobaleno era certamente caduto dal firmamento.

– Questo è il giorno dei giorni, – mi disse allorché mi avvicinai a lei; – il giorno fra tutti, sia per vivere che per morire. É un giorno bellissimo per i figli della terra e della vita… ma quanto più per le figlie del cielo e della morte!

La baciai sulla fronte, ed ella proseguì:

– Sto per morire, e tuttavia vivrò.

– Morella!

– Non sono mai venuti i giorni in cui tu mi avresti potuto amare, ma colei che in vita hai aborrito, in morte adorerai.

– Morella!

– Ti ripeto che sto per morire, ma in me vi è il pegno di quell’affetto, oh, ben misera cosa! che tu hai provato per me, Morella. E quando il mio spirito si sarà dipartito, la creatura vivrà: la tua creatura e la mia, la creatura di Morella. Ma i tuoi giorni saranno giorni di dolore, di quel dolore che è il più duraturo dei sentimenti, così come il cipresso è il più annoso degli alberi. Infatti le ore della tua felicità sono terminate, giacché la gioia non si raccoglie due volte in una vita, come si raccolgono invece due volte nello spazio di un anno le rose di Pesto. Tu pertanto non innalzerai più al tempo versi teani, ma ignorando il mirto e la vigna recherai indosso a te il tuo sudario sulla terra, come fanno i musulmani che si recano alla Mecca.

– Morella! – esclamai, – Morella! Come puoi tu sapere questo? –

Ma ella distolse il suo viso e lo affondò nel guanciale, e così morì, mentre un lieve tremito le agitava le membra; e io non udii più la sua voce.

Come però aveva predetto, la sua creatura, alla quale nel morire aveva dato luce e che non respirò se non quando la madre ebbe cessato di respirare, la sua creatura, una bambina, visse. E questa crebbe stranamente di statura e d’intelletto, ed era l’immagine perfetta di colei che era scomparsa, e io l’amai di un amore tanto fervido quale non credo possa essere sentito da un altro abitante di questo pianeta.

Ma ben presto il paradiso di un così puro affetto si oscurò e su di esso si addensarono nubi di afflizione, di orrore, di amarezza. Ho detto che la bambina cresceva stranamente in statura e intelligenza. Strana in verità era la rapida crescita delle sue forme corporee, ma terribili, oh, terribili erano i pensieri tumultuosi che si affollavano entro di me mentre io osservavo lo sviluppo del suo essere mentale. Come poteva essere altrimenti allorché io di giorno in giorno scoprivo nei concetti della bambina i poteri adulti e le facoltà della donna? Allorché le lezioni dell’esperienza erano proferite dalle labbra dell’infanzia?

Allorché di ora in ora vedevo scintillare nel suo sguardo pieno, speculativo, la saggezza e le passioni della maturità? Quando, ripeto, tutto ciò divenne manifesto ai miei sensi smarriti, quando non mi fu più possibile celare questo alla mia anima, né scacciare tale realtà dalla ragione che tremava di accoglierla, è da stupire che nel mio spirito prendessero a insinuarsi sospetti di carattere pauroso, sconvolgente, o che i miei pensieri tornassero atterriti a rimuginare i misteriosi racconti e le audaci teorie della sotterrata Morella?

Sottrassi alla curiosità del mondo un essere che il destino mi costringeva ad adorare, e nella inflessibile reclusione della mia casa sorvegliavo con disperata angoscia tutto ciò che si riferiva alla mia diletta. E più gli anni passavano, e io studiavo, giorno per giorno, il suo volto austero, dolce, eloquente, e meditavo sul rapido maturare delle sue forme, giorno per giorno scoprivo nuovi punti di rassomiglianza tra la creatura e la madre, tra la malinconica e la morta. E d’ora in ora quelle ombre di somiglianza s’incupivano e si facevano più piene, più definite, più conturbanti, più spaventosamente terribili nel loro aspetto. Che il suo sorriso fosse identico a quello della madre ancora potevo sopportarlo; ma subito rabbrividivo a quella troppa perfetta IDENTITÀ. Che i suoi occhi fossero come gli occhi di Morella potevo sopportarlo; ma ecco che troppo spesso essi scandagliavano le profondità del mio spirito con lo stesso intenso sconvolgente significato degli occhi di Morella. E nel contorno dell’alta fronte, nei riccioli dei serici capelli, nelle fragili dita che si affondavano in essi, nei tristi accenti musicali della sua voce, e soprattutto, oh, soprattutto nelle frasi e nelle espressioni della morta sulle labbra dell’amata e della viva, io trovavo alimento a un pensiero e a un orrore divoranti, a un verme che NON VOLEVA morire.

Trascorsero così due lustri della sua esistenza, ma sino ad allora la mia figliuola era rimasta senza nome sulla terra. “Bambina mia” e “amor mi” erano gli appellativi suggeritimi di solito dall’affezione paterna, mentre il rigido isolamento delle sue giornate precludeva ogni altro rapporto. Il nome di Morella era morto con lei nel punto della sua morte. Della madre io non avevo mai parlato alla figlia; era impossibile che ne parlassi. In realtà durante il breve periodo della sua esistenza la giovane creatura non aveva ricevuto dal mondo esteriore sensazione alcuna se non quelle consentitele dai ristretti limiti della sua solitudine. Ma alla fine la cerimonia del battesimo si offrì alla mia mente turbata e agitata come una pronta liberazione dai timori angoscianti del mio destino. Però dinanzi al fonte battesimale esitai prima di proferire il nome. E molti appellativi saggi e belli, di tempi antichi e moderni, della mia terra e di terre straniere, si affollarono alle mie labbra insieme a molti dolci nomi gentili, felici, buoni. Che cosa mi spinse dunque a evocare la memoria della donna sepolta? Quale demone mi incalzò a proferire quelle sillabe che, allorché soltanto le ricordavo, solevano far rifluire in torrenti purpurei il mio sangue dalle tempie al cuore?

Quale maligno spirito parlò dai recessi della mia anima quando tra le aeree navate, nel silenzio della notte, io bisbigliai all’orecchio dell’uomo di Dio le sillabe: “Morella”? Quale essere peggiore di ogni infernale abitante nell’abisso contorse i tratti della mia creatura, li soffuse dei toni della morte, mentre, trasalendo a quel suono di lettere appena percettibili, ella volse i vitrei occhi dalla terra al cielo e cadendo prostrata sulle lastre della nostra cripta avita rispose:

“Eccomi”?

Distinte, freddamente, calmamente distinte, caddero quelle poche semplici lettere entro il mio orecchio e di lì come piombo fuso schizzarono sibilando nel mio cervello. Gli anni, molti anni, potranno passare, ma la memoria di quell’attimo, mai! Né io ignorai certo i fiori e la vigna, ma la cicuta e il cipresso mi addugiarono notte e giorno. Né più tenni calcolo del tempo o del luogo, e le stelle del mio destino svanirono dal firmamento, e la terra si incupì, e le sue creature mi passarono davanti, simili a vane ombre, e tra tutte queste io ne vedevo una sola: Morella. I venti dell’etere soffiavano entro le mie orecchie un unico suono, e le increspature del mare mi mormoravano senza posa: – Morella. – Ma ella morì, e con le mie proprie mani io la calai nella tomba, e risi di un lungo amaro riso quando, nella cappella funebre dove avevo deposto la seconda, non trovai più alcuna traccia della prima Morella.

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