”Era nata lentamente come un puntino invisibile, vicino al petto, poi a poco cresce e prende tutto il cuore. Certi giorni la senti che avanza e avanza con incredibile furore. Non basta tutto il corpo a contenerla. Sì, questa è la gelosia.
Morte di una dattilografa
racconto
di
Filippo Maria Sartori
In piedi sul pianerottolo davanti alla porta dell’ufficio la signorina Ersilia Fontana cercava freneticamente qualcosa nella sua borsetta. La sua mano si bloccò all’improvviso. Tirò fuori un voluminoso mazzo di chiavi, prese quella più lunga e la infilò nella serratura. Uno, due, tre, quattro giri. Sospinse il battente della pesante porta di legno ed entrò.
Le luci erano accese, ma l’ufficio era pervaso da un singolare silenzio. Non si udivano voci, né passi, né l’abituale ticchettio della Olivetti Lettera 22 della signorina Silvia, la dattilografa dell’avvocato, non si sentiva nemmeno squillare il telefono.
«Silvia?»
Fece due passi avanti e chiuse lentamente la porta dietro di sé.
«Silvia?»
Avanzò lungo il lucido corridoio di marmo pregiato e il rumore dei suoi tacchi rimbombò per tutte le stanze.
«Silvia?» chiamò ancora senza ottenere risposta.
Arrivò al bancone dietro il quale si affacciavano le scrivanie delle segreterie. Si guardò intorno, sul bancone giaceva la posta inevasa. Il suo tavolo era sempre in perfetto ordine, ma non si poteva dire lo stesso di quello di Silvia; lo guardò con una certa insofferenza esattamente nello stesso modo in cui guardava tutti i giorni la proprietaria di quella scrivania.
«Com’è possibile che non ci sia nessuno. E quella dove sarà sparita?»
Il suo sguardo si accigliò, no, no, no, non era così che ci si comportava. L’aveva detto all’avvocato che non era il caso di consegnare le chiavi dell’ufficio a una ragazza così giovane ed inesperta, chissà cosa avrebbe potuto combinare a loro insaputa e il buon nome dello studio, dove sarebbe andato a finire allora?
La porta dell’ufficio dell’avvocato si trovava lungo il corridoio, sulla sinistra, ed era chiusa, come sempre; decise che ci avrebbe dato un’occhiata, dopo aver provato a bussare naturalmente; in fondo l’avvocato poteva anche aver mandato la dattilografa a casa per qualche ragione ed essersi appisolato sulla sua poltrona. Il suo sguardo cadde sul telefono, forse era meglio provare a chiamare prima il suo interno.
Tirò su la cornetta e con sua grande sorpresa si rese conto che non dava alcun segnale. Muto. Muto come tutto quanto lì dentro, quel pomeriggio. Controllando il cavo del telefono vide che era staccato.
A questo punto con una risolutezza insolita oltrepassò il bancone e si diresse alla porta dell’avvocato e la spalancò, fece due passi e rimase impietrita.
Il commissario Vinciguerra la scrutava con uno sguardo acuto e penetrante senza dire una sola parola già da qualche minuto.
«Quindi lei ha aperto la porta e cosa ha visto per prima cosa?»
All’onesta signorina Ersilia non era mai capitato di aver a che fare con poliziotti, commissari o caserme.
Lei era la segretaria, anzi, l’assistente personale come lei si definiva, dell’avvocato Bonelli da ben venticinque anni e nella sua esistenza ordinata e precisa niente era mai fuori posto; nella sua visione della vita un cadavere era qualcosa di decisamente inelegante, qualcosa che crea disordine, che sconvolge, che turba, qualcosa in cui non si dovrebbe mai inciampare o vedere. E ora si trovava là, seduta dove solitamente i clienti si accomodavano, di fianco al corpo coperto da un lenzuolo di quella sfacciata ragazzina che aveva trascinato loro e lo studio in un caso di omicidio!
Si inumidì le labbra, si sistemò gli occhiali e senza esitazione rispose:
«Sangue, commissario.»
«Continui.»
«Ho fatto qualche passo, l’ufficio mi sembrava a posto, poi ho sentito che il mio piede scivolava, così ho guardato ed è stato allora che l’ho vista, Silvia, la sua testa, piena di sangue, avevo messo il piede proprio in mezzo alla pozza, oddio… sono corsa subito via, sono uscita dall’ufficio, volevo andarmene, ma poi mi sono ripresa dallo shock, sono rientrata e ho chiamato la polizia. Ecco tutto.»
«Mi ha detto prima, mi sembra, che il cavo del telefono fosse scollegato.»
«Ah, sì, è vero, è quello che mi ha fatto capire che qualcosa non andava, l’ho dovuto riattaccare io per chiamare aiuto.»
«Quando ha visto l’ultima volta la sua collega?»
«Prima di andare a pranzo, mi ha detto che sarebbe rimasta ancora un po’ a lavorare.»
«Aveva le chiavi?»
«Le abbiamo entrambe. La mattina l’avvocato non c’è mai e se una di noi due fosse malata, l’altra deve essere in grado di aprire l’ufficio, capisce?»
«Ma lei non sa se la sua collega è andata o no via per pranzo, giusto?»
«No, questo proprio non lo so.»
Il resto del pomeriggio lo passò seduta di fronte al commissario Vinciguerra a rivivere quel momento e a parlare della sua ormai defunta collega e della vita e delle attività nello studio legale.
Per molti anni era stata l’unica segretaria dell’avvocato Bonelli: lui soleva dire spesso che avrebbe potuto vivere senza amici, ma non senza la signorina Ersilia, si sentiva smarrito senza la sua organizzazione e precisione. Inoltre lei sapeva tutto, gli organizzava la vita nei minimi dettagli, gli ricordava gli appuntamenti e le sedute a cui doveva partecipare tutte le mattine in tribunale, organizzava la sua giornata dal lavoro al dentista, al compleanno della mamma novantenne da ricordare, gli assegni da firmare e più passavano gli anni più la signorina Ersilia era diventata indispensabile. Finché un giorno era arrivata Silvia, spuntata da dove non si sa, lei sospettava fosse una nipote di qualche amico di famiglia dell’avvocato, bella, giovane, molto più giovane di lei. Una mattina di pochi mesi prima era arrivata e passando davanti alla porta dell’avvocato aveva sentito delle risate, sì, sì, proprio delle risate! Inaudito! Poi la porta si era aperta e l’avvocato le aveva solo detto: «Signorina, questa è Silvia, la nostra nuova dattilografa.» Lei non aveva apprezzato la novità, non perché avesse qualcosa contro la nuova assunta, almeno all’inizio, ma perché l’avvocato non l’aveva nemmeno consultata per l’assunzione: e poi che bisogno c’era di una dattilografa? D’accordo, lo studio si era fatto una certa fama negli ultimi tempi e il lavoro era aumentato considerevolmente e lei non era più quella che dopo dodici ore di lavoro tornava a casa sentendosi fresca come una rosa, ma ce la faceva ancora, e davvero non capiva perché l’avvocato avesse assunto Silvia, a meno di non dovere un favore a qualcuno naturalmente. Da qui la teoria che Silvia fosse raccomandata.
Con il passare del tempo poi aveva notato che l’avvocato si permetteva certe confidenze con la nuova assunta, una cosa inconcepibile, intanto le dava del tu e poi c’erano state battute, pacche sulla schiena, sfioramenti di mano e un mazzo enorme di rose color rosa pallido per il compleanno della ragazza. A lei, invece, in venticinque anni raramente solo gli auguri, ma fino ad allora lei glielo aveva perdonato, in fondo era un uomo troppo occupato dal lavoro per pensare a simili frivolezze.
«Lei sa dove si trova l’avvocato Bonelli ora?»
La domanda del commissario la fece uscire dalle sue divagazioni di colpo, per un attimo non si ricordò nulla, nemmeno dov’era, talmente era persa nelle sue riflessioni.
«Non ne ho nessuna idea. Avrebbe dovuto trovarsi qui in ufficio, come tutti i giorni.»
«Non aveva appuntamenti oggi? Casi da discutere in tribunale? Clienti da visitare in carcere?’»
«In tribunale l’avvocato ci va tutte le mattine, il pomeriggio riceve i clienti in studio a meno che debba visitarne qualcuno in prigione, comunque glieli prendo io gli appuntamenti e per oggi pomeriggio non era segnato nulla in agenda, ho già controllato, ho provato anche a chiamarlo a casa dopo aver avvisato voi, in ogni caso, mi creda, l’avrei saputo se ne avesse avuto uno, di appuntamento intendo, sono sorpresa anche io di non vederlo qui.»
In quel momento si sentì qualcuno che tentava di aprire la porta dello studio con le chiavi, quindi, dopo una serie di imprecazioni, la porta si aprì ed entrò l’avvocato il quale rimase lì, inebetito, immobile, in piedi a fissare due agenti in divisa che transitavano in quel momento in corridoio uscendo per la porta attraverso la quale lui era entrato; l’avvocato non si mosse di un millimetro, sembrava di diventato all’improvviso di sale mentre gli agenti lo urtavano per passare dalla porta. Il commissario gli era andato incontro, la signorina Ersilia dietro di lui.
«Avvocato, la … » ma non finì la frase perché il commissario la fulminò con gli occhi.
«Buongiorno avvocato. Sono il commissario Vinciguerra» disse tendendogli la mano.
L’avvocato sembrava incapace di emettere qualsiasi suono. Disse solo:
«Perché’? Che cosa è accaduto?»
Il commissario prese l’avvocato per il braccio e lo condusse a una delle poltroncine che si trovavano accanto alla porta d’ingresso e che fungevano da sala d’aspetto; lo fece sedere, quindi gli comunicò la notizia.
«Si tratta della sua impiegata, la signorina Silvia Mayer, la signorina Fontana ha trovato il corpo. È morta, l’hanno uccisa.»
In quel momento gli agenti di poco prima rientrarono in ufficio portando con loro una barella. Il commissario seguì con lo sguardo i suoi uomini, voleva dare all’avvocato qualche secondo di tempo per assimilare il fatto prima di proseguire con le domande.
L’avvocato fece scivolare le spesse lenti di tartaruga sul naso e si massaggiò gli occhi energicamente con i polpastrelli della mano destra. Si voltò verso il commissario e sembrò per un momento riprendere vita.
«Qualcuno ha avvertito la famiglia?» chiese.
«No, preferisce farlo lei?»
«Suo padre è un mio vecchio amico, io, non so… sì, sì, glielo dico io, è meglio. Lo chiamerò da casa.» Si alzò.
«Avvocato?»
«Mi dica.»
«Volevo solo sapere dove si trovava oggi pomeriggio. Vede, quando la signorina Fontana è arrivata, non sapeva dove lei fosse, dice che sulla sua agenda non erano segnati appuntamenti per oggi pomeriggio.»
«La signorina Ersilia ha ragione, avrei dovuto trovarmi qui, ma ho cambiato idea all’ultimo mentre uscivo di casa dopo pranzo, sono andato a fare una passeggiata, mi sentivo stanco, ultimamente ho lavorato parecchio e data la bella giornata…»
«D’accordo. Per ora vada, ma vorrei vederla in commissariato per la deposizione e per altre domande» disse allungandogli il suo biglietto da visita. In quel momento i due agenti passarono in senso inverso portando la barella e il suo carico doverosamente coperto da un lenzuolo. L’avvocato si fece da parte per farli passare, i suoi occhi seguirono la processione fin quando non uscì dalla porta, solo allora emise un sospiro profondo e mormorò:
«Dio!»
Il commissario Vinciguerra stava seduto nel vano della finestra del suo ufficio, al quarto piano della questura, fissando, almeno così sembrava, l’andirivieni della gente nella piazza sottostante mordicchiando in modo quasi ossessivo uno stuzzicadenti – tic che gli era valso il soprannome di Stecchino – quando era ancora una recluta. Sulla scrivania giacevano in ordine sparso una quantità innumerevole di fogli dattiloscritti, cartelline, appunti presi a mano, raccoglitori. Chi aveva a che fare con lui si domandava come faceva a trovare sempre quello che gli serviva al momento opportuno in mezzo a quel marasma.
«Commissario, il medico legale ha inviato i primi rilievi.»
Malerba, il suo giovane vice che un giorno avrebbe occupato il suo posto, era in piedi davanti alla porta con un fascicolo aperto in mano.
«È morta per un unico colpo inferto con violenza alla testa, lobo parietale sinistro, nessun segno di lotta né di difesa, è morta all’istante. Il medico dice che dovrebbe essere successo tra mezzogiorno e le tre del pomeriggio. L’arma del delitto non si trova, dovrebbe essere un oggetto squadrato e pesante, tipo un posacenere di marmo e l’avvocato sostiene che in effetti ne manca uno sulla sua scrivania. Sono in corso ulteriori esami, ma per ora questo è quanto. La scientifica non ha rilevato segni di effrazione sulla porta e le finestre erano tutte chiuse dall’interno per cui credo che la vittima abbia aperto al suo assassino, forse lo conosceva, anche perché in quell’orario lo studio è chiuso ai clienti per la pausa pranzo. Non abbiamo trovato la sua copia delle chiavi dell’ufficio, cosa che spiegherebbe perché la signorina Fontana ha dovuto aprire con le sue quando è arrivata.»
Il commissario non si voltò neppure. «Cosa sappiamo di lei?»
«Silvia Mayer, madre italiana, padre di origine tedesca, ma trapiantato in Italia da anni. Sia la madre sia il padre lavorano nella sartoria che possiedono in piazza Mazzini, a quanto pare è una delle più famose in città e una delle migliori. Si tratta di una famiglia piuttosto benestante. L’avvocato e il signor Mayer si sono conosciuti quando erano bambini, le loro famiglie hanno sempre abitato vicino, anche se la famiglia Bonelli è molto più ricca, si dice che il nonno e il padre dell’avvocato abbiano fatto fortuna con il mercato nero durante la guerra. È stato il signor Mayer a raccontarmi tutto, aveva chiesto lui all’avvocato di assumere sua figlia visto che aveva appena terminato gli studi presso una scuola per segretarie. Era una brava ragazza, niente fidanzati, niente grilli per la testa, lo stipendio lo dava tutto in casa.»
«Sospetti?»
«Difficile, per ora. L’avvocato non ha un alibi, l’altra segretaria nemmeno nel senso che se n’è andata a pranzo a casa da sola a piedi, non abita lontano, ma nessuno l’ha vista, e comunque in entrambi i casi non ne vedo il movente, almeno per ora. Nessun altro sospettato al momento.»
«Malerba, lei continui ad indagare, senta gli amici e i parenti della vittima e perquisisca la sua camera a fondo. Detto questo, ha chiamato l’avvocato Bonelli? Gli vorrei fare un altro paio di domande.»
«Dovrebbe arrivare tra poco.»
In piedi sul pianerottolo davanti alla porta dell’ufficio la signorina Ersilia Fontana rifletteva.
L’ufficio era stato dissequestrato grazie al cielo e ora poteva rimettersi al lavoro e occuparsi di tutto ciò che era rimasto indietro. Il suo carico di lavoro sarebbe aumentato adesso che Silvia non c’era più, ma lei sarebbe tornata a fare tutto da sola come prima e questo pensiero la sollevava. Dirigendosi verso il suo tavolo pensò se sarebbe mai riuscita a far finta di nulla in tutti quei momenti in cui sarebbe dovuta andare nell’ufficio dell’avvocato per qualsiasi motivo – cosa che poteva accadere mille volte in una giornata; – oppure i suoi occhi si sarebbero automaticamente abbassati a fissare qual punto dietro l’angolo della scrivania in cui era apparso il volto della collega, con i capelli scarmigliati e pieni di sangue rappreso.
Chissà se l’avvocato ci avrebbe pensato. Forse alla fine avrebbero dovuto cambiare ufficio. Lei ovviamente l’avrebbe assistito a scegliere la sede più adatta e aiutato durante il trasloco ad organizzare tutto. Secondo la signorina Ersilia gli uomini in generale – e in particolare l’avvocato – tendevano a perdersi in un bicchier d’acqua e a combinar pasticci se non lì si guidava a dovere. Questo era il compito delle donne secondo lei.
Si sedette alla scrivania e si mise al lavoro.
L‘avvocato sembrava invecchiato di altri vent’anni nelle ultime quarantotto ore. Il commissario capì guardandolo negli occhi che la morte di Silvia l’aveva colpito troppo profondamente per trattarsi della morte di una semplice impiegata. Il sospetto aveva cominciato a girargli per la testa la prima volta che gli aveva parlato e il suo fiuto raramente sbagliava. Quella dell’avvocato era stata una reazione un po’ troppo emotiva secondo lui. Non ci mise molto a fargli dire la verità quella mattina.
«Eravamo fidanzati, ma non lo sapeva nessuno. Io ero comunque il suo datore di lavoro e poi c’era la questione della differenza di età, volevamo affrontare i problemi uno alla volta, ma stavamo aspettando il momento giusto, vede, mia madre… una visione all’antica… molto gelosa di me… figlio unico, non avrebbe mai approvato.»
«Immagino che sua madre sia piuttosto anziana.»
«Sì, ma continua ad occuparsi del patrimonio di famiglia, s’immagini, ha più di novant’anni e guai a chi glielo ricorda, per farla breve, mi avrebbe diseredato, piuttosto che a me avrebbe lasciato tutto a qualche ente di carità. Vede, commissario, io ho sempre fatto tutto quello che mia mamma voleva, sempre, ma questa volta… ecco, avevo deciso di fare a modo mio, ma sapevo che avrei scatenato le sue ire.»
«Insomma stavate aspettando…» cominciò il commissario.
«Il momento opportuno, ecco, non vorrei sembrarle cinico ora, ma, insomma, non vivrà in eterno, no?»
«È sicuro che non lo sapesse nessuno?»
L’avvocato fece un cenno come per dire:
«Per quello che ne so io…» Poi aggiunse d’improvviso: «L’avete trovato? L’anello?»
L‘omicidio era finito su tutte le prime pagine dei giornali, ovviamente.
Era un suo compito comprare all’avvocato i quotidiani del giorno insieme ad alcune pubblicazioni di natura giuridica ogni mattina prima di salire in ufficio e di farglieli trovare sulla scrivania; dopo l’omicidio, aveva preso l’abitudine di comprare una copia di qualsiasi giornale, settimanale o mensile che parlasse dell’accaduto. La sera, prima di addormentarsi, leggeva tutti quanti gli articoli, dalla prima all’ultima riga, studiava tutti i dettagli e le ipotesi riportate. Non si addormentava finché non aveva scorso tutte le pagine.
Provava a dedurre come sarebbero proseguite le indagini, se alla fine avrebbero arrestato qualcuno, se sarebbe dovuta comparire in tribunale e già si immaginava davanti al suo armadio di mogano scuro a scegliere il tailleur più adatto all’occasione, rosa antico o crema, da abbinare ad un cappellino alla moda, di quelli con la veletta ovviamente e ad un giro di perle. Sarebbe stata perfetta.
«Adesso, mio caro Malerba. facciamo il punto della situazione.»
Malerba e il commissario avevano passato la mattinata persi nell’esame accurato di tutta la documentazione del caso Mayer, avevano riletto il rapporto finale dell’autopsia, i resoconti della scientifica e le relazioni degli investigatori su tutte le persone coinvolte nel caso, compresi i genitori, gli amici e i compagni di scuola della vittima.
«Non avendo trovato indizi né riscontri oggettivi che ci aiutino ad avvicinarci al o ai colpevoli bisogna partire da un altro punto di vista, battere un’altra strada. Non sempre la strada più breve tra due punti è una linea retta.»
Il commissario rivolse uno sguardo interrogativo al suo vice, Malerba capì che si aspettava una risposta da lui. Esitò un attimo prima di rispondere:
«Il movente?»
«E bravo Malerba!» Il commissario sbatté la pratica che aveva in mano sulla scrivania «Il movente. E ora mi dica: quali sono i motivi fondamentali per cui si uccide? Escludendo ovviamente quelli politici che al momento non ci interessano.»
«Possono sembrare tanti, ma, secondo me e per la mia esperienza, alla fine rientrano in poche categorie.»
«Sentiamo» disse il commissario allungandosi e, contemporaneamente, incrociando le braccia dietro la testa.
«Il primo è sicuramente quello economico, il denaro, questioni di eredità o di affari, il più delle volte.»
«Proviamo a vedere se è questo il caso. Silvia Mayer non è di famiglia ricca, benestante sicuramente, ma è figlia unica e i Mayer non hanno altri parenti, non era sposata, viveva con i genitori, percepiva uno stipendio medio che devolveva in casa. Il movente dei soldi sarebbe forse prevalso se fosse stata sequestrata, ma non è cosi e comunque di solito le vittime di sequestro hanno un tenore di vita molto più agiato. È vero che si era fidanzata con uomo molto più ricco e vecchio di lei, ma in questo caso di chi dobbiamo sospettare? Della madre novantenne dell’avvocato, una donna sicuramente molto lucida, ma inferma e che si muove su una sedia a rotelle? E l’anello di fidanzamento scomparso? Sappiamo che Silvia è morta tra mezzogiorno e le tre, orario in cui lo studio è chiuso per cui non avrebbe mai aperto a un cliente nuovo o a un perfetto sconosciuto e comunque chi ha rubato l’anello sapeva della sua esistenza, probabilmente qualcuno a cui la vittima ha rivelato la lieta novella nonostante il divieto del suo fidanzato. Non avrebbe di certo parlato del fidanzamento con una persona qualsiasi. L’anello potrebbe aver scatenato la cupidigia di qualcuno, certo. Ora proviamo a sondare qualche altra tipologia di movente.»
«L’amore? Mio nonno diceva sempre che dove non c’è gelosia non c’è amore. Si può uccidere per gelosia, appunto o perché l’amato o l’amata ci ha lasciati e non si riesce ad affrontarne la realtà o ancora perché ci ha traditi. Parlo del delitto d’onore.»
«E qui abbiamo non solo un fidanzato più vecchio e più ricco, ma anche un fidanzato senza alibi.»
«E se si trattasse di un ammiratore respinto?» chiese Malerba senza però nessuna palese convinzione.
«E non credi che la vittima si sarebbe confidata comunque con qualcuno o perché lusingata dal corteggiatore in questione o perché magari spaventata? Alla mamma o a un’amica l’avrebbe raccontato di sicuro, ma la cosa non è uscita fuori. Abbiamo più volte interrogato tutti e setacciato ogni angolo della sua vita senza trovare nulla di significativo. Cosa ci rimane a questo punto?»
«La paura? Il rancore? La vendetta?»
Il commissario allargò le braccia.
«Finora non è emerso nulla della vita di questa ragazza che faccia pensare a una di queste eventualità. Paura? Di cosa? Quali inconfessabili segreti aveva a parte il recente fidanzamento? Rancore? Di chi? E perché? La sua cerchia di conoscenze non era molto ampia.»
Malerba ci tenne a precisare: «Abbiamo controllato gli alibi di tutti e chiaramente non tutti ne sono provvisti, ma anche se qualcuno non ce l’ha non ha comunque un movente plausibile. Lei cosa propone, commissario?»
«Bisognerebbe cercare l’anello. È l’unico indizio che abbiamo. Purtroppo nessun Pm firmerebbe un mandato di perquisizione con quello che abbiamo. Per ora dobbiamo navigare a vista e aspettare, Malerba, aspettare. Il mio istinto mi dice che succederà dell’altro…»
E infatti, successe dell’altro, ma forse non quello che il commissario si aspettava.
Fu una notizia da prima pagina. Gli articoli descrivevano nella prima metà quello che era successo e nella seconda provavano a supporre i motivi che avevano portano ad un tale gesto; ovviamente, la maggior parte di tali articoli affermava che il motivo principale fosse il senso di colpa. Insinuavano elegantemente, insomma, che l’assassino di Silvia Mayer fosse lui e, naturalmente, la prova, l’unica, secondo i giornali, era il biglietto lasciato dal suicida e recapitato la mattina seguente sulla scrivania del commissario titolare dell’inchiesta.
Avevo trovato la felicità, e ora che l’ho persa non posso più vivere. È colpa mia se Silvia è morta, commissario. Addio.
Queste erano le poche righe che l’avvocato Bonelli aveva scritto una sera seduto alla sua scrivania prima di chiudere l’ufficio, salire sul terrazzo dell’edificio e lanciarsi di sotto.
Il commissario sapeva nel suo intimo che l’avvocato scrivendo quelle parole non intendeva certo accusarsi dell’omicidio della sua amata, non si uccide qualcuno che si ama così tanto senza nemmeno un’apparente ragione; dal momento in cui aveva scoperto che l’anello di fidanzamento era scomparso l’avvocato si era convinto, nonostante il commissario cercasse di farlo ragionare, che Silvia fosse stata vittima di una rapina e che quindi la colpa fosse sua, perché non era in ufficio quando avrebbe dovuto esserci e perché credeva fermamente che l’avessero uccisa per colpa di quello stupido anello. Il commissario intuiva tutto ciò, ma il Pm incaricato delle indagini gli ordinò di considerare il caso chiuso e lui non poté fare altrimenti.
Per tutti, per tutti, tranne che per il commissario Vinciguerra, l’avvocato aveva ucciso la sua fidanzata.
Per tutti tranne il vero colpevole, ovviamente.
La signorina Silvia Mayer era morta assassinata, l’avvocato Bonelli si era suicidato, il commissario Vinciguerra fu trasferito altrove e passò a miglior vita in uno scontro a fuoco con dei malavitosi qualche anno dopo, il giovane Malerba fu dichiarato deceduto da un medico del pronto soccorso dopo un incidente stradale mentre – dieci anni dopo – andava fuori città con la sua famiglia; l’unica a morire nel suo letto fu la signorina Ersilia, circa vent’anni dopo i fatti narrati. Sola, come era sempre stata, non essendosi mai sposata e non avendo avuto quindi né figli e neanche nipoti né altri parenti. La signorina Ersilia lasciò solo poche righe di testamento redatte poco prima che l’avvocato Bonelli morisse. Rosa, la portinaia dello stabile dove viveva, l’unica che si era preoccupata della signorina quando aveva cominciato a invecchiare, l’unica a esserle in un certo qual modo amica, fu nominata esecutrice testamentaria. Così, una domenica mattina di novembre, si trovò a impacchettare e imballare tutte le cose della defunta signorina Ersilia Fontana.
«Accidenti, a questo cassetto!» Rosa stava sudando e imprecando nel vano tentativo di aprire il cassetto di sinistra del tavolo da toeletta; non aveva trovato la chiave e ora cercava di aprirlo forzandolo. Giacché i tentativi risultavano vani, tornò a casa, prese un cacciavite del marito e tornò di sopra: facendo leva il cassetto cedette. C’erano solo due oggetti, abbandonati, messi lì e dimenticati da chissà quanto tempo; Rosa sapeva che la signorina era un tipo preciso ed ordinato, molto metodico, una persona che riponeva ciascun oggetto al suo posto, che detestava più di ogni altra cosa al mondo il disordine e la sciatteria e per questo rimase di stucco vedendo questi due oggetti, il cui posto non era certo quello, riposti così, senza nessuna cura. E poi la signorina Ersilia non fumava e non aveva mai fumato quindi cosa ci faceva un posacenere lì? Per non parlare di quel bellissimo anello, sicuramente d’oro, sicuramente di grandissimo valore, con una meravigliosa pietra blu intenso, liscia e ovale, montata al centro. Rosa rimase seduta per terra, ansimante e stanca con quella meraviglia tra le mani, una cosa che in vita sua aveva visto solo al dito delle signore per bene dello stabile, sui rotocalchi al dito di attrici famose, un oggetto che aveva sognato mille volte a occhi aperti e a occhi chiusi prima di rassegnarsi alla modestia della sua vita da portinaia.
Rimase lì, a osservarlo, senza avere il coraggio nemmeno di indossarlo. Alla fine la decisione fu presa: si fece scivolare l’anello nella tasca del grembiule, prese il posacenere, lo lavò, lo pulì dalle incrostazioni e lo mise in uno degli scatoloni. Quando finì il suo lavoro e chiuse tutte le imposte e la porta della casa della signorina Ersilia l’anello era ancora nella tasca del suo grembiule. Quando tornò a casa per preparare la cena al marito, l’anello era ancora là. Durante la cena davanti alla televisione della piccola cucina, l’anello era sempre al suo posto, in tasca. Quando l’annunciatrice segnalò l’inizio del quiz televisivo, l’anello non si era mosso di un millimetro. Ogni tanto si infilava la mano in tasca e sognava, sognava di poterlo sfoggiare al dito, di mostrarlo alle amiche che rimanevano con un palmo di naso, immaginava di essere invitata a balli sontuosi e ricevimenti regali. Suo marito a un certo punto le aveva chiesto:
«Non stai bene Rosa? Mi sembri strana» ma lei lo rassicurò e lui tornò a voltarsi verso lo schermo luminescente della televisione di casa senza sospettare quale segreto nascondesse sua moglie nella tasca del grembiule.