Dischi in vinile, un’esperienza tattile unica

MUSICA ANALOGICA O DIGITALE?

di Cristiano Luchini 

Come chi morde una pigna ne assapora ogni fibra e irregolarità, così l’ascoltatore del vinile gode del suono


Why I listen to vinyl records: musica analogica o digitale? La perfezione digitale, nel suo tentativo di eliminare ogni impurità, rischia di escludere anche connessioni più profonde.

Why I listen to vinyl records. L’altro giorno, nel tragitto tra il panificio e il supermercato sotto casa, mi sono trovato a riflettere su un interessante parallelo: da una parte il pane fresco, con la sua crosta che respira, dall’altra il suo equivalente confezionato sottovuoto. È proprio in questo contrasto che ho colto l’essenza della differenza tra la musica analogica, che vive e vibra nell’aria, e quella digitale, come sospesa in una bolla, isolata dal mondo circostante.

Quando parliamo di “massa sonora” nei dischi in vinile, ci riferiamo a quella presenza caratteristica del rumore di fondo, quel sottofondo fatto di delicati crepitii e fruscii che accompagnano la musica. Lungi dall’essere semplici imperfezioni, questi elementi costituiscono una vera e propria placenta sonora che nutre e avvolge l’essenza stessa della musica. È proprio questo rumore di fondo, questa massa sonora, che aggiunge una dimensione tattile all’esperienza d’ascolto, donando al suono una consistenza quasi palpabile, viva.

Un’esperienza tattile unica

Il vinile non si limita a riprodurre musica: crea un’esperienza intima e tangibile. I solchi impressi sul disco sono come una tela su cui la musica viene dipinta, e quando la puntina li attraversa, dà vita a un paesaggio sonoro denso di sfumature e texture. La massa sonora, quel caratteristico rumore di fondo, riempie l’ambiente circostante, rendendo la musica avvolgente e calorosa, come un abbraccio sonoro. In questa prospettiva, quelli che tecnicamente potrebbero essere considerati limiti del vinile nella riproduzione delle frequenze alte e basse diventano tratti distintivi che ne arricchiscono l’intimità tattile.

Certo, i bassi potrebbero non raggiungere profondità estreme e gli acuti potrebbero non essere cristallini come nel digitale, ma sono proprio queste caratteristiche a conferire al suono una presenza fisica inconfondibile. Come la superficie irregolare di un mobile fatto a mano, il suono del vinile possiede una ricchezza tattile che i formati digitali faticano a eguagliare. Il suono digitale, nella sua precisione cristallina, privo di quella placenta sonora, può talvolta apparire distante, come se osservassimo un paesaggio attraverso un vetro. Gli manca quel tocco di intimità che solo il vinile sa regalare.

Un organismo vivente

La massa sonora del vinile crea uno spazio di risonanza condiviso, un ambiente dove l’ascoltatore viene naturalmente coinvolto nel flusso musicale. Come chi morde una pigna ne assapora ogni fibra e irregolarità, così l’ascoltatore del vinile ne coglie ogni sfumatura sonora; il digitale, invece, è come mordere il metallo: perfetto, ma privo di quella viva imperfezione che rende unica l’esperienza. È proprio questa differenza di texture che arricchisce l’esperienza d’ascolto. La massa sonora del vinile si comporta come un organismo vivente: una placenta che nutre e sostiene la musica, permettendole di respirare e di fondersi con chi ascolta. Qui sta la vera magia dell’analogico: nelle sue imperfezioni, nella sua tangibilità, nella sua capacità di trasformare l’ascolto in un’esperienza profondamente coinvolgente.

Immagine di proprietà di Crono.news.

Il viaggio analogico

Questa sensazione diventa particolarmente evidente quando metto sul piatto “Light As A Feather” degli Azymuth, quel gioiello funk-jazz brasiliano del 1979. Tra le note di “Jazz Carnival”, lo spazio si dispiega attraverso micro-vibrazioni e quella che ho imparato a chiamare massa sonora. I lievi fruscii della superficie del vinile creano piccoli varchi sonori in cui posso immergermi, respirando all’unisono con la musica. La batteria di Ivan Conti vibra nell’aria della stanza, mentre il Fender Rhodes di José Roberto Bertrami occupa uno spazio fisico in cui anch’io esisto come ascoltatore.

Come l’acqua in un vaso, ogni vibrazione genera onde che si propagano nello spazio, creando un dialogo continuo tra il centro e la periferia, tra la sorgente sonora e l’aria circostante. Quando invece ascolto in streaming “Euphoria” di Labrinth, un esempio di R&B psichedelico del 2019, percepisco una differenza sostanziale. Nonostante la produzione impeccabile, avverto una certa distanza. Quel respiro, quello spazio in cui potersi calare, semplicemente non c’è. I suoni arrivano perfetti ma ermetici, come se fossero racchiusi in una teca invisibile.

Nostalgia?

Why I listen to vinyl records. Non si tratta di semplice nostalgia. È la differenza tra abitare una stanza che respira e osservare attraverso un vetro blindato. La perfezione digitale, nel suo tentativo di eliminare ogni impurità, rischia di escludere anche connessioni più profonde. Nel mondo analogico, le piccole imperfezioni diventano porte d’accesso, inviti a esistere in simbiosi con la musica. L’analogico crea spazi di vibrazione condivisa.

Forse è proprio questo che cerco nell’ascolto: uno spazio dove la musica e io possiamo respirare all’unisono, dove le imperfezioni diventano fessure attraverso cui penetrare nel suono. Come un benevolo simbionte che si nutre del rumore di superficie e degli spazi vuoti, trovo il mio habitat naturale nelle imperfezioni dell’analogico. Cerco quella risonanza fisica, quella vibrazione tangibile che trasforma l’ascolto in esperienza vissuta.

Cristiano Luchini

 

 

 

 

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Quando parliamo di “massa sonora” nei dischi in vinile, ci riferiamo a quella presenza caratteristica del rumore di fondo, quel sottofondo fatto di delicati crepitii e fruscii che accompagnano la musica. Lungi dall’essere semplici imperfezioni, questi elementi costituiscono una vera e propria placenta sonora che nutre e avvolge l’essenza stessa della musica. È proprio questo rumore di fondo, questa massa sonora, che aggiunge una dimensione tattile all’esperienza d’ascolto, donando al suono una consistenza quasi palpabile, viva.

Un’esperienza tattile unica

Il vinile non si limita a riprodurre musica: crea un’esperienza intima e tangibile. I solchi impressi sul disco sono come una tela su cui la musica viene dipinta, e quando la puntina li attraversa, dà vita a un paesaggio sonoro denso di sfumature e texture. La massa sonora, quel caratteristico rumore di fondo, riempie l’ambiente circostante, rendendo la musica avvolgente e calorosa, come un abbraccio sonoro. In questa prospettiva, quelli che tecnicamente potrebbero essere considerati limiti del vinile nella riproduzione delle frequenze alte e basse diventano tratti distintivi che ne arricchiscono l’intimità tattile.

Certo, i bassi potrebbero non raggiungere profondità estreme e gli acuti potrebbero non essere cristallini come nel digitale, ma sono proprio queste caratteristiche a conferire al suono una presenza fisica inconfondibile. Come la superficie irregolare di un mobile fatto a mano, il suono del vinile possiede una ricchezza tattile che i formati digitali faticano a eguagliare. Il suono digitale, nella sua precisione cristallina, privo di quella placenta sonora, può talvolta apparire distante, come se osservassimo un paesaggio attraverso un vetro. Gli manca quel tocco di intimità che solo il vinile sa regalare.

Un organismo vivente

La massa sonora del vinile crea uno spazio di risonanza condiviso, un ambiente dove l’ascoltatore viene naturalmente coinvolto nel flusso musicale. Come chi morde una pigna ne assapora ogni fibra e irregolarità, così l’ascoltatore del vinile ne coglie ogni sfumatura sonora; il digitale, invece, è come mordere il metallo: perfetto, ma privo di quella viva imperfezione che rende unica l’esperienza. È proprio questa differenza di texture che arricchisce l’esperienza d’ascolto. La massa sonora del vinile si comporta come un organismo vivente: una placenta che nutre e sostiene la musica, permettendole di respirare e di fondersi con chi ascolta. Qui sta la vera magia dell’analogico: nelle sue imperfezioni, nella sua tangibilità, nella sua capacità di trasformare l’ascolto in un’esperienza profondamente coinvolgente.

Immagine di proprietà di Crono.news.

Il viaggio analogico

Questa sensazione diventa particolarmente evidente quando metto sul piatto “Light As A Feather” degli Azymuth, quel gioiello funk-jazz brasiliano del 1979. Tra le note di “Jazz Carnival”, lo spazio si dispiega attraverso micro-vibrazioni e quella che ho imparato a chiamare massa sonora. I lievi fruscii della superficie del vinile creano piccoli varchi sonori in cui posso immergermi, respirando all’unisono con la musica. La batteria di Ivan Conti vibra nell’aria della stanza, mentre il Fender Rhodes di José Roberto Bertrami occupa uno spazio fisico in cui anch’io esisto come ascoltatore.

Come l’acqua in un vaso, ogni vibrazione genera onde che si propagano nello spazio, creando un dialogo continuo tra il centro e la periferia, tra la sorgente sonora e l’aria circostante. Quando invece ascolto in streaming “Euphoria” di Labrinth, un esempio di R&B psichedelico del 2019, percepisco una differenza sostanziale. Nonostante la produzione impeccabile, avverto una certa distanza. Quel respiro, quello spazio in cui potersi calare, semplicemente non c’è. I suoni arrivano perfetti ma ermetici, come se fossero racchiusi in una teca invisibile.

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