”Il 2020 non è stato solo l’anno della Pandemia ma è stato anche l’anno più caldo del pianeta
NATURA: LA CULTURA RIGENERATIVA
PER CAMBIARE IL FUTURO
Il 2020 non è stato solo l’anno della Pandemia ma è stato anche l’anno più caldo del pianeta. L’ultima era glaciale è durata circa 2,6 milioni di anni, siamo riusciti a superarla grazie a un riscaldamento molto graduale, dovuto alle influenze naturali sul clima terrestre.
Questo ha reso possibile entrare nell’ Olocene, che si è protratto per dodicimila anni, fino al XX secolo, con temperature relativamente stabili che oscillavano solo di un grado centigrado sopra o sotto la media.
Integrità ambientale
Durante tutto questo periodo, le temperature, i modelli di precipitazione e gli ecosistemi terrestri ed oceanici si sono stabilizzati in modo favorevole al benessere della specie umana, tanto che i diecimila individui che vivevano in piccole tribù hanno potuto iniziare una vita sedentaria, evolversi in agricoltori e coloni fino a sviluppare le città con l’aiuto delle industrie e della tecnologia.
L’essere umano è riuscito a prosperare tanto che la popolazione, ad oggi, raggiunge la cifra di 7,7 miliardi di individui. Negli ultimi cinquant’anni però, abbiamo gravemente compromesso l’integrità ambientale del nostro pianeta, attraverso gli stili di vita post Rivoluzione industriale, l’uso sfrenato di combustibili fossili e la massiccia deforestazione.
Instabilità ambientale
L’instabilità metereologica, un disboscamento da 12 milioni di ettari l’anno, la diminuzione drastica di specie animali, lo scioglimento dei ghiacciai con conseguente innalzamento del livello del mare di oltre venti centimetri, ci suggeriscono che stiamo già vivendo la sesta estinzione di massa.
In soli cinquant’anni siamo giunti all’Antropocene , una nuova era geologica in cui le condizioni biogeochimiche non sono dominate da processi naturali, ma dall’impatto tangibile dell’attività umana, la quale, per la prima volta, è in assoluto il principale motore del cambiamento climatico di tutto il pianeta.
Molte persone rimangono inconsapevoli della portata e dell’intensità della distruzione in corso, e alcuni scelgono persino di ignorarla, ma ormai i suoi effetti si rivelano attraverso le estinzioni di specie, le tempeste, le ondate di calore, la siccità, gli incendi e, ovviamente, la pandemia.
Le sofferenze umane e le perdite economiche che ne conseguono sono sempre più frequenti e si sommano a secoli di disuguaglianza e violazioni di diritti umani, responsabili di disordini politici e sociali. Il nostro futuro, perciò, sarà modellato da chi scegliamo di essere in questo momento e da cosa sceglieremo di fare per migliorare la situazione.
La prima sfida è cambiare mentalità
Paradossalmente, il cambiamento sistemico richiede uno sforzo profondamente personale, le strutture sociali ed economiche, infatti, sono una proiezione del nostro modo di pensare.
Per molto tempo le società occidentali hanno privilegiato l’interesse personale sul benessere dell’insieme, ma è arrivato il momento di ampliare la nostra auto-comprensione, per capire meglio i nostri rapporti con gli altri e il rapporto con i sistemi naturali che ci permettono di vivere sulla Terra.
Nella maggior parte dei casi non si può controllare totalmente il contesto di una sfida, però si può cambiare il proprio comportamento al suo interno per diventare catalizzatori del cambiamento generale.
Prima di passare al “fare”, dobbiamo partire dall’ “essere”, dal nostro stato mentale e ciò che possiamo portare all’interno della missione. Questo perché provare a cambiare mantenendo la stessa mentalità che ci ha guidati fino a un determinato momento, non porterà grandi risultati.
Tornare alla saggezza innata
Per tornare alla saggezza innata della natura stessa, che sa rigenerare ed integrare qualsiasi cosa da sé, anche l’economia deve diventare “rigenerativa”, cioè in grado di operare in armonia con l’ambiente, minimizzare gli sprechi, riconvertire le risorse usate e reintegrare quelle esaurite[1].
Siamo arrivati al limite del nostro vivere individualistico e competitivo, tuttavia, lo scenario distopico che ci si prospetta davanti rende davvero difficile praticare il non attaccamento verso un nostalgico passato, soprattutto a causa della paura dell’ignoto.
L’evoluzione della società ha portato a un mutamento anche della sensazione di paura, secondo Z. Bauman “non esistono rifugi sicuri dove nascondersi. Nel mondo liquido-moderno i pericoli e le paure sono liquidi anch’essi (…), fluiscono, gocciolano, colano, trasudano… Non sono stati inventati muri capaci di fermarli, sebbene molti cerchino di costruirli”[2].
Il problema della crisi del pianeta è che si scontra con una serie di pregiudizi cognitivi innati, correlati all’apatia, perché da la sensazione di essere astratta, lontana, isolata anziché presentarsi come gli snodi cruciali di una narrazione sempre più incalzante.
Di fronte a un evento così avverso, la reazione innata della maggior parte delle persone è l’impotenza, la quale sta diventando una risposta irresponsabile perché, seppure a volte inconsapevolmente, è concretamente pericolosa.
Le vite che noi creiamo plasmeranno un futuro che non potrà essere annullato.
La crisi ambientale, pur essendo un’esperienza universale, non ci da la sensazione di essere un evento di cui facciamo parte, non ci da la sensazione di essere proprio un evento, nonostante i cataclismi, ma le generazioni future che guarderanno in retrospettiva si chiederanno dove eravamo come individui, perché siamo arrivati a tanto[3].
La realtà di un ambiente sempre più fragile, tanto da non riuscire più a sostenere la vita al suo interno, è dura da accettare.
Lo è ancora di più quando in gioco ci sono le proprie abitudini quotidiane e serve molto impegno non solo per modificarle, ma anche per comprendere quanto facciano la differenza.
Il termine “decisione” deriva dal latino “decidere” e significa “tagliare via”, quando decidiamo qualcosa stiamo decidendo anche di tagliare via i modi possibili in cui non lo facciamo.
Ogni decisione esige una perdita trascurabile, altre volte è insopportabile.
“Viviamo in una società che ha raggiunto traguardi materiali senza precedenti, siamo portati a definirci per ciò che abbiamo, dalle proprietà ai soldi, dalle opinioni ai like, ma a rivelare chi siamo è ciò a cui rinunciamo”.
Non possiamo mantenere lo stile di vita a cui siamo attaccati e contemporaneamente conservare il pianeta a cui siamo abituati, dobbiamo decidere a cosa rinunciare[4].
La società in cui viviamo ci ha abituati a ragionare automaticamente in ottica competitiva, per raggiungere obiettivi e soddisfare desideri si deve arrivare prima degli altri, tuttavia, se si ragionasse maggiormente in ottica collaborativa e di condivisione, sarebbe possibile sperimentare la positività di una maggiore abbondanza per tutti, in termini di risorse, possibilità e risultati.
Si riuscirebbe a creare il terreno fertile per una saggezza collettiva, in cui il piccolo contributo di ognuno è importante per il raggiungimento di un’impresa comune e in cui si potrebbe ridare spazio a un ottimismo che, considerando tutte le cattive notizie che ci piovono addosso, è sempre più difficile nutrire.
C Figueres e T. Rivett-Carnac, esperti di cambiamento climatico e co-fondatori dell’ organizzazione Global Optimism, portano alla ribalta un ottimismo “ostinato” in quanto siamo giunti a un momento in cui è necessario reagire e dimostrare attivamente, attraverso ogni decisione ed azione, che si è in grado di progettare un futuro migliore e andare avanti con determinazione.
L’ossessione di “trovare qualcosa di meglio” ha accompagnato le società per secoli ma ora è tempo di allontanarci dal binomio estrazione ed esaurimento di risorse per concentrarsi sulla capacità di rigenerazione “totale”.
Che cos’è la rigenerazione?
Nel mondo naturale, per rigenerazione si intende il processo di auto-guarigione della parte lesa di un organismo utilizzando il tessuto sano rimanente, un esempio sono i graffi e le ferite che si rimarginano.
Su scala più ampia, è la capacità di un sistema o di un biosistema di riprendersi da solo una volta che gli esseri umani hanno cessato di esercitarvi la pressione che avevano esercitato, un esempio sono le terre degradate che riprendono a “vivere” una volta smesso di sfruttarle.
La convergenza critica di cambiamento climatico, deforestazione, perdita di biodiversità, desertificazione e acidificazione degli oceani ci ha portato a un punto in cui non si può dipendere ingenuamente da questa capacità di naturale resilienza della Terra, abbiamo quasi distrutto la capacità di auto-rinnovamento della natura e in molti casi, il ripristino dell’ecosistema richiede l’intervento intenzionale dell’essere umano, ad esempio con la rinaturalizzazione per rimediare alla pressione distruttiva del pascolo o con la ripopolazione di animali.
La natura ha bisogno del nostro aiuto, non recupereremo tutto, molte specie sono già estinte e molti ecosistemi irreparabilmente danneggiati, ma possiamo creare un nuovo stato di salute con maggiore resilienza e questo è possibile solo attraverso l’impegno nel creare un nuovo modo di vivere e pensare.
Avvicinarsi alla mentalità rigenerativa
Cominciamo ad avvicinarci alla mentalità rigenerativa quando riconosciamo e interiorizziamo il semplice fatto che la nostra vita, la nostra stessa sopravvivenza fisica, dipende direttamente dalla natura.
Gli esseri umani non possono sopravvivere più di qualche minuto senza ossigeno, per più di una settimana senza acqua e per tre settimane senza cibo. Ogni respiro che facciamo, ogni goccia che beviamo e ogni boccone di cibo che mangiamo proviene dalla natura e ci collega profondamente ad essa[5].
È una semplice verità di base che spesso tendiamo ad ignorare o a dare per scontata e, in virtù di ciò, continuiamo a mantenere abitudini dannose. Non è solo la mera sopravvivenza, ma anche la nostra salute fisica ed emotiva a dipendere in gran parte dal mondo circostante, il contatto col quale è minacciato dal continuo aumento dei tassi di urbanizzazione e dal tempo che trascorriamo con i nostri dispositivi elettronici.
Disturbo da deficit della natura
La vita sedentaria in ambienti chiusi, spesso caratterizzata da luce naturale limitata, scarsa qualità dell’aria, muri e molte ore passate davanti a uno schermo, porta non solo all’obesità e alla perdita di forza fisica, ma anche a sensazioni di isolamento e depressione. Questi sintomi sono stati raggruppati e diagnosticati come “disturbo da deficit della natura”[6].
Questa espressione, coniata nel 2008 da R. Louv, pedagogista e ricercatore americano, indica una condizione di vita caratterizzata da un disagio psico-fisico, collegato alla perdita di quella connessione innata con la natura, retaggio di millenni di attività intrecciate a un rispetto sacro e profondo dell’ambiente, da parte dei nostri antenati.
Secondo Louv, questa disconnessione può inficiare anche la capacità delle persone di sentirsi vive. Per la maggior parte di esse, la parola “sostenibilità” è problematica perché significa stasi, sopravvivenza ed efficienza energetica in un contesto di depressione culturale, come dimostra la narrativa distopica che stimola un immaginario post-apocalittico.
“SE QUESTE SONO LE IMMAGINI DOMINANTI, E NON ABBIAMO UN INSIEME DI IMMAGINI EQUILIBRANTI DI UN GRANDE FUTURO, ALLORA È MEGLIO STARE ATTENTI A CIÒ CHE IMMAGINIAMO”. [7]
Postmodernismo e depressione
La correlazione tra postmodernismo e depressione, e la profonda trasformazione che quest’ultima ha subito nel mondo occidentale, si deve ad A. Ehremberg, sociologo francese contemporaneo.
Alla base di questa condizione ci sarebbe il “senso di insufficienza” rispetto alle incalcolabili opportunità del nostro contesto attuale, con conseguente incapacità di scegliere e di agire.
L’ incessante corsa all’ autoesaltazione e al dimostrare di essere all’altezza delle aspettative degli altri vanno oltre i risultati sintomatici di tristezza e sofferenza morale tipici della depressione, ma sono sensazioni più profonde e subdole che portano l’individuo a sentirsi inadeguato e a provare angoscia, inadeguatezza e incapacità[8].
Questa condizione può amplificarsi a causa della “paura cronica della rovina ambientale”, definita da alcuni esperti come eco-ansia, o ansia climatica.
Essa è una risposta sana e costruttiva a una minaccia reale, infatti una misura della salute mentale è la capacità di rispondere adeguatamente alla realtà dal punto di vista emotivo, ma può sfociare in malessere psicologico fino ad arrivare ad attacchi di panico.
Trauma climatico nella psiche collettiva
Secondo C. Hickman, docente di psicologia all’Università di Bath, il trauma climatico sulla psiche collettiva rende la maggior parte delle persone incapaci di agire per influenzare il cambiamento nella scala necessaria per limitare la crisi in corso.
Questo a causa di tutta una serie di micro-negazioni, anche in chi accetta le terribili previsioni future, che sostanzialmente portano a tenere a mente la crisi continuando, però, ad agire i comportamenti che la intensificano.
Bisogna sviluppare, perciò, una “compassione spietata” per noi stessi e per gli altri, intesa come attivismo interno che, pur assumendosi la responsabilità del presente, riconosce l’estremo disagio nell’affrontare la crisi e ci lavora sopra per costruire una “speranza radicale”, la convinzione che un’azione significativa, anche se piccola, può fare la differenza.[9]
Una crisi dispiega varie emergenze e le nostre decisioni rivelano chi siamo. Per attivare la volontà è necessario il coinvolgimento, la terra andrebbe considerata come una casa non solo a livello intellettuale ma proprio viscerale.
Verso un Antropocene rigenerativo
Agire in maniera rigenerativa vuol dire prenderci cura di noi stessi e degli altri, riconnetterci con la natura, lavorare insieme per risanare, riciclare, condividere ciò che usiamo e fare in modo che ne resti in abbondanza per il futuro.
È necessario un cambio di cultura partendo da noi stessi, in quanto per recuperare le energie bisogna riempirsi l’anima regolarmente e consapevolmente, essere in grado di accorgersi quando si è esausti per rigenerarsi e tornare ad essere in grado, poi, di affermare e rafforzare la propria capacità rigenerativa nei confronti degli altri e, in senso sempre più esteso, nei confronti dell’ambiente circostante.
Una mentalità rigenerativa è più efficace se perseguita con coerenza, per questo è importante coltivare una forte disciplina mentale unita a uno spirito gentile.
Rigenerare l’immaginario
Per sostenere una cultura rigenerativa dobbiamo rigenerare anche il nostro immaginario, comprendere che, oltre a ottenere ciò che vogliamo e ciò di cui abbiamo bisogno dai nostri simili, abbiamo la responsabilità di rinnovare noi stessi e di aiutare gli altri a raggiungere livelli di maggiore energia e comprensione.
Oltre a raccogliere ciò di cui abbiamo bisogno dalla natura, è nostra responsabilità ed è nostro interesse proteggere e migliorare la vita su questo pianeta. Per farlo, dobbiamo modificare la direzione del nostro agire dall’ego alla natura.
Quando si considera un’azione dobbiamo chiederci se contribuisce attivamente a fa prosperare l’essere umano e la natura come unico sistema integrato su questo pianeta, il cambiamento della mentalità deve manifestarsi nelle azioni.
Gli obiettivi personali ed ambientali sono interconnessi, si rafforzano a vicenda ed entrambi hanno bisogno della nostra attenzione[10]. Ci piace identificarci come persone sensibili alle libertà civili, alla giustizia economica, alle discriminazioni, al benessere degli animali, ma sono più identità di protezione se poi, realmente e concretamente non facciamo nulla per apportare il nostro contributo.
Serve un’azione collettiva per apportare miglioramenti alla qualità di vita globale, ma ogni singolo deve dare un contributo costruttivo per metterla in moto.
Creare un antropocene rigenerativo
Un Antropocene rigenerativo non verrà da sé ma possiamo cercare di crearlo di proposito, per far sì che l’umanità possa finalmente esercitare un’influenza vitale sugli ecosistemi del pianeta.
Possiamo scegliere la rigenerazione come principio costruttivo per la nostra vita in generale e per le nostre attività, possiamo ripristinare la resilienza della Terra e delle comunità umane e allo stesso tempo guarire le nostre anime.
Nessuno di noi può avere il controllo totale su quale percorso il mondo sceglierà di intraprendere per il futuro, ma ognuno può impegnarsi individualmente a cambiare qualcosa, non possiamo più permetterci la debolezza di sentirci impotenti e dare per scontato che affrontare il cambiamento climatico sia una responsabilità esclusiva dei governi nazionali e locali o delle aziende.
Questa è una missione che riguarda tutti ed ognuno deve assumersene la responsabilità sia individualmente che collettivamente. È tempo di onorare il passato, lasciarlo andare e affrontare l’incertezza del futuro con tutto il coraggio possibile[11].
Riferimenti bibliografici e sitografici
- Bauman, Paura liquida, Roma, Editori Laterza, Roma, 2009.
- Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi Editore, Milano, 2010.
- Figueres, T. Rivett-Carnac, Scegliere il futuro. Affrontare la crisi climatica con ostinato ottimismo, Edizioni Tlon, 2021.
- S. Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda Editore, 2019.
- Louv, L’ultimo bambino dei boschi. Come riavvicinare i nostri figli alla natura, Rizzoli, Milano, 2006.
- Louv, The Nature Principle. Human restoration and the end of Nature deficit disorder, Highbridge Co, 2011.
- national geographic.com
- theguardian.com
- [1] Figueres, T. Rivett-Carnac, Scegliere il futuro. Affrontare la crisi climatica con ostinato ottimismo, Edizioni Tlon, 2021.
[2] Z. Bauman,Paura liquida, Roma,Editori Laterza, Roma, 2009.
[3] J. S. Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda Editore, 2019.
[4] Ibidem
[5] C. Figueres, T. Rivett-Carnac, 2021, Op. Cit.
[6] Cfr. R. Louv, L’ultimo bambino dei boschi. Come riavvicinare i nostri figli alla natura, Rizzoli, Milano, 2006 e The Nature Principle. Human restoration and the end of Nature deficit disorder, Highbridge Co, 2011.
[7] R. Louv in Connecting With Nature Boosts Creativity and Health (nationalgeographic.com)
[8] A. Ehrenberg,La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi Editore, Milano, 2010.
[9] ‘Hijacked by anxiety’: how climate dread is hindering climate action | Environmental activism | The Guardian
[10] C. Figueres, T. Rivett-Carnac, 2021, Op. Cit.
[11] C. Figueres, T. Rivett-Carnac, 2021, Op. Cit.
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