Lo spazzacamino di mestiere pulisce la canna dei camini dalla fuliggine, e più generalmente interviene per il controllo e la manutenzione dell’impianto fumario

 “NEL MEZZO DEL CAM(M)IN DI NOSTRA VITA”

I RAGAZZI SPAZZACAMINI DEL PRIMO 900

 The chimney sweepers

Lo spazzacamino di mestiere pulisce la canna dei camini dalla fuliggine, e più generalmente interviene per il controllo e la manutenzione dell’impianto fumario. Il mestiere è nato alcuni secoli fa. In Italia, come nel resto dell’Europa, per fare questo mestiere si prendevano bambini e ragazzi dalle famiglie oppure mendicanti o orfani. La caratteristica che questi ragazzi dovevano possedere era l’essere molto magri al fine di entrare agevolmente nella canna fumaria e pulirla

Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza. Frontespizio miniato dallo stesso Blake Autore William Blake. (1794) W/p.d.

Il grande poeta e artista inglese William Blake ha dedicato due poesie, Songs of Innocence nel 1789 e Songs of Experience nel 1794. Sono capolavori pietosamente struggenti, a delle figurine che si aggiravano sui tetti della Londra vittoriana, piccole e magre, col capino rasato e i poveri vestiti neri di sporcizia. Erano i cosiddetti chimney sweepers, gli spazzacamini, bambini abbandonati dai genitori che per mantenersi facevano uno dei lavori più ingrati e insalubri, strizzandosi negli stretti condotti dei camini, pulendoli, raschiandoli, respirando fumo e fuliggine. Nella maggior parte dei casi, questi bambini sono morti cadendo attraverso i camini o per danni ai polmoni e altre malattie orribili dovute alla respirazione della fuliggine. Nella prima poesia, un giovane spazzacamino racconta un sogno di uno dei suoi compagni, in cui un angelo salva i ragazzi dalle bare e li porta in un prato soleggiato; nella poesia successiva, un oratore apparentemente adulto incontra uno spazzacamino bambino abbandonato nella neve mentre i suoi genitori sono in chiesa o forse hanno anche subito la morte dove la chiesa si riferisce allo stare con Dio.

La poesia di Songs of Experience è stata musicata nel 1965 da Benjamin Britten come parte del suo ciclo di canzoni Songs and Proverbs of William Blake.

Songs of Innocence di William Blake

In questa poesia, un ragazzo descrive quello che gli è successo: è stato venduto quando riusciva a malapena a parlare bene (“piangere” “sta per” spazzare, che significa spazzare e allo stesso tempo ha la connotazione di “pianto “). Il suo ragazzo Tom deve piangere perché i suoi ricci vengono rasati, ma è confortato dal suo amico. Tom fa un sogno in cui migliaia di ragazzi vengono rinchiusi in bare nere (i camini), ma vengono liberati da un angelo, dopodiché possono lavarsi e giocare liberamente al sole, con la promessa che Dio è un padre migliore del loro padre. Sebbene in realtà debbano essere tornati al lavoro, i ragazzi sono stati confortati, l’uno dall’altro e dal sogno, e accettano il loro destino.

Quando è morta mia madre ero molto giovane,
E mio padre mi ha venduto mentre ero ancora la mia lingua
Riuscivo a malapena a piangere ‘piangere! ‘piangere! ‘piangere! ‘piangere!’
Così spazzo i tuoi camini, e nella fuliggine dormo.

C’è il piccolo Tom Dacre, che ha pianto quando la sua testa,
Che si arricciava come la schiena di un agnello, era rasato: così ho detto,
“Zitto, Tom! Non preoccuparti, perché quando hai la testa scoperta,
Sai che la fuliggine non può rovinare i tuoi capelli bianchi. ”

E così era tranquillo; e quella stessa notte,
Mentre Tom stava dormendo, aveva una tale vista,
Che migliaia di spazzini, Dick, Joe, Ned e Jack,
Erano tutti rinchiusi in bare di nero.

E venne un angelo che aveva una chiave brillante,
E aprì le bare e le liberò tutte;
Poi giù per una pianura verde saltando, ridendo, corrono,
E lavati in un fiume e risplendi al sole.

Poi nudo e bianco, tutte le loro borse lasciate indietro,
Si alzano sulle nuvole e si divertono al vento;
E l’angelo ha detto a Tom, se fosse un bravo ragazzo,
Avrebbe Dio per suo padre e non vorrebbe mai la gioia.

E così Tom si svegliò; e ci siamo alzati nell’oscurità,
E siamo arrivati con le nostre borse e le nostre spazzole al lavoro.
Sebbene la mattina fosse fredda, Tom era felice e caldo;
Quindi, se tutti fanno il loro dovere, non devono temere danni.

 

“Una fuliggine di malinconia”

La fuliggine ecco la causa del ricorso ai bambini per la pulizia della canna dei camini che per la loro stretta dimensione li richiedeva al posto degli adulti.

La fuliggine o nerofumo è indicato col nome di particolato carbonioso, (nella letteratura tecnica anche indicato con il termine inglese di soot) è una polvere nera (essenzialmente carbonio incombusto amorfo, più tracce di altri composti) che si può ottenere come sottoprodotto della combustione incompleta di una qualsiasi sostanza organica. In base agli studi più recenti si può affermare che il particolato carbonioso può essere considerato dannoso sia per l’ambiente sia per la salute umana.

«”fuliggine” è un termine che oggi suona un po’ ricercato: è normalmente distante, appartiene ad un tempo perduto e che forse sa di festa, sa di camino acceso a Natale e di caldarroste sul fuoco (e non ci evoca i chimney sweepers). Per secoli, invece, questa sostanza volatile prodotta dalla combustione della legna nei focolari domestici e non solo, è stata compagna costante e quotidiana della vita umana e delle fatiche del lavoro, depositandosi sulle cose col suo nerume vellutato, incastrandosi nelle rughe dei volti, nelle linee delle mani, sotto le unghie, marcando con la sua spietata leggerezza il tempo che passa e le stagioni che si ammassano. Ad esempio, è più che plausibile che l’atrio, grande stanza il cui nome giunge fino a noi dall’atrium romano, sia scaturito dal latino ater, cioè atro, nero di fuliggine — in quanto in origine stanza del fuoco.

La parola ‘fuliggine’ ha un suono nebbioso, misterioso, insieme scuro e sottile. La sua origine è nella latina fuligo che nasce da una radice protoitalica, col significato di ‘fumo’. Sebbene sia una parola concreta, legata alle faccende domestiche d’un tempo e ad un vivere che esiste sempre meno, possiamo incontrarla nella casa di campagna, e allora rimproveriamo i bambini per aver fatto un gran pasticcio con la fuliggine, o chiederemo una mano agli amici per pulire il camino se non vogliamo mangiare pane e fuliggine a pranzo.

Ma non solo: come può accadere poeticamente con le parole che significano le cose più semplici, anche se avviate sulla china dell’oblio, possiamo menarla verso lidi più astratti e freschi, meno battuti; e allora deploreremo l’amico il cui giudizio è obnubilato da teorie fuligginose e bislacche, cercheremo di osservare la situazione con distacco senza farci soffocare dalla fuliggine della paura, noteremo come su un ricordo si sia depositata una fuliggine di malinconia, e ci viene da svenire a quello sguardo intenso e nero come la fuliggine.» 

Altri camini, altri spazzacamini ma di una gemma preziosa, la tanzanite. Siamo nel 2008

Hanno tra gli otto e i tredici anni. A vederli sparire sottoterra vengono i brividi: le gallerie dentro cui si infilano sono cunicoli stretti e fragili che potrebbero crollare da un momento all’altro. Basta un improvviso cedimento del terreno, un attimo di disattenzione o un movimento sbagliato per restare intrappolati a centinaia di metri di profondità. E finire inghiottiti dal buio, per sempre. Eppure, i baby-minatori non sembrano preoccupati per la loro sorte: sanno di aver poco da perdere e in ogni caso non hanno alternative che scendere negli abissi, per sopravvivere. È un lavoro sporco e pericoloso il loro. Un mestiere duro e imprevedibile, come lo sono i preziosi frammenti di tanzanite che si celano nel ventre della terra. 

La tanzanite è un gemma rara e preziosa.
Si trova in miniere profonde e pericolose.
Dove centinaia di bambini scavano senza sosta.
Nella speranza di uscire dal tunnel

Tanzanite

«Questa pietra splendente può cambiare la vita – spiega un giovane lavoratore della miniera – il problema è che per trovarla bisogna rischiare la vita tutti i giorni». Siamo nel villaggio di Mererani, vicino ad Arusha, nel nord-est della Tanzania, l’unica regione al mondo che dispone di giacimenti di zoisite, ovvero tanzanite, una gemma rara e pregiata dai sorprendenti rilessi blu e viola. Un’autentica ricchezza naturale scoperta alla fine degli anni Sessanta; un tesoro minerario d’inestimabile valore che viene portato alla luce, giorno dopo giorno, da una miriade di piccole imprese locali, affiancate dalla multinazionale sudafricana Afgem che dal governo di Dar es Salaam ha ottenuto in esclusiva lo sfruttamento dei giacimenti più ricchi.

Tanzanite

Qui, fino a trent’anni fa, pascolavano le mandrie dei masai. Poi la savana è stata trivellata come una gruviera e le colline sono state sfregiate da strade polverose e squallide distese di baracche. Al posto dei pastori ora ci sono i minatori. Migliaia di minatori, tra loro tantissimi ragazzini. Vengono da ogni parte del Paese in cerca della pietra luccicante e sognano di accumulare ricchezze principesche nelle miniere di Mererani.

Anello Tiffany del valore di 10MILIONI e 500 mila euro

Sul mercato mondiale delle pietre preziose, la quotazione della tanzanite viene appena dopo quella dei diamanti – e prima di rubini, zaffiri e smeraldi – non a caso gli esemplari più scintillanti si trovano nelle migliori gioiellerie di Parigi, New York e Londra. Il colosso dell’oreficeria Tiffany l’ha fatta diventare un segno distintivo dei vip. Solo negli Usa il suo giro d’affari sfiora i cinquecento milioni di dollari l’anno. Ma ai piccoli minatori della Tanzania arrivano solo le briciole del business: il loro guadagno medio è di due dollari al mese.

Secondo stime delle organizzazioni umanitarie, tra i 1.500 e i 3000 baby-minatori sono impiegati nelle miniere tanzaniane, oltre 400 di loro si calano ogni mattina nelle gallerie sotterranee di Mererani. Qui i bambini sono molto richiesti, ed è facile intuire il perché: lavorano anche tredici ore al giorno, senza protestare né scioperare; riescono a infilarsi nei tunnel più stretti e fanno da rapida spola tra gli uomini in profondità e i rifornimenti in superficie. Il tutto per una manciata di soldi, perché la gran parte di questi baby minatori non ha famiglia né casa, ed è disposta a qualsiasi sacrificio pur di mangiare. «Vivono in condizioni disperate, esposti ad ogni genere di violenza e abuso – racconta Alida Vanni, la fotoreporter che ha scattato le immagini di questo servizio – sono costretti a calarsi nelle grotte senza alcuna protezione, senza stivali né guanti.

Arrivano fino a trecento metri di profondità con una precaria torcia sulla fronte, che potrebbe spegnersi da un momento all’altro: mi hanno raccontato di ragazzini dimenticati in fondo alle miniere e di altri uccisi dall’esplosione delle mine». Ma questi sono drammi destinati a restare sepolti nelle viscere profonde dell’Africa.» 

Bambini in miniera

Ma quanti sono i bambini che ancora oggi lavorano nel mondo? Sono 152 milioni: la metà impiegati in mestieri duri e pericolosi.

Il dossier di Save the Children: 1 su 10 sono vittime di sfruttamento. Sarebbero il 9° Paese più popoloso del Pianeta. Una piaga anche italiana con 500 casi di irregolari tra bambini e adolescenti.

 

 

«Nel mezzo del cammin di nostra vita» la Nigredo dell’Alchimia

“Una fuliggine di malinconia”

Il camino degli spazzacamini è una sorta di via per un difficile cammino che con un gioco di parole ci conduce ai primi tre versi dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri:

    • «Nel mezzo del cammin di nostra vita
    • mi ritrovai per una selva oscura,
    • ché la diritta via era smarrita.»

Nel mezzo del cammin di nostra vita costituisce l’incipit del primo canto dell’Inferno e, per estensione, dell’intero poema.

Guido da Pisa, uno dei più antichi commentatori del Poema dantesco interpreta il verso «Nel mezzo del cammin di nostra vita» come riferimento al sonno poiché dormiamo circa metà della vita. Con ciò egli rimarca l’aspetto onirico dell’ispirazione dantesca, quasi di positiva trance.

La «selva oscura» del secondo verso va intesa, secondo Dante, come momento di confusione interiore («la diritta via era smarrita», v. 3), proprio nella fase mediana della sua vita, in cui ha inizio la descrizione della sua visione mistica della Commedia; il «nostra» è indice dell’esemplarità di tale esperienza.

L’idea della vita come cammino proviene da San Paolo: camminiamo nella via della fede «... dum sumus in corpore peregrinamur a Domino / per fidem enim ambulamus et non per speciem» (2 Cor. 5, 6-7). Nel Convivio, Dante riprende questa idea quando indica il pericolo per l’anima di perdere la strada del bene (IV XII, 15-18), come è infatti accaduto a lui all’interno di questa visione poetica (secondo Guido da Pisa un “sonno mistico”), immaginata nel Venerdì Santo del 1300.

La selva è la strada «erronea di questa vita» di cui parla nel Convivio (IV XXIV, 12). Il poeta nel mezzo del cammin di nostra vita all’improvviso prende consapevolezza della condizione negativa in cui è entrato quasi inconsapevolmente, e che è anche la condizione di corruzione dell’intera umanità. Il motivo personale e quello universale continuano costantemente a sovrapporsi in tutto l’itinerarium dell’opera, e ne indicano la prospettiva cosmica, legata alle sorti degli uomini nel loro complesso.

Ma per i filosofi non escluso lo stesso Dante, il «cammin di nostra vita» è quello intrapreso nella Grande Opera di Alchimia, la prima di tre (o quattro) nota come Opera al Nero o Nigredo.

La Nigredo, termine latino che significa colore nero o nerezza, denota in alchimia la fase al Nero della Grande Opera, cioè il passo iniziale nel percorso di creazione della pietra filosofale, quello della putrefazione e decomposizione. Ed ecco che si ripresenta l’argomentata fuliggine avversa ai giovani spazzacamini del primo 900 per trovarvi un’assurda analogia, un legame occulto. Ed è il primo momento, il più cruciale, simboleggiato da un corvo nero, in cui occorre “far morire” tutti gli ingredienti alchemici, macerandoli e cuocendoli a lungo in una massa uniforme nera.

Davide e Golia Caravaggio (1597), autore di numerose opere intrise di riferimenti alle tre iniziazioni alchemiche, di cui la prima simbolizza la morte dell’ego.

Il nero contiene inoltre un rimando all’etimologia stessa del termine Alchimia, in quanto antica scienza sacerdotale egizia, di cui uno dei significati è «terra nera» (al-kimiya) come quella inondata dal Nilo.

La Nigredo rappresenta la fase in cui la materia deve essere decomposta, affinché ritorni al suo stadio primitivo, cioè alla condizione del caos originario da cui ha avuto origine tutta la creazione: dapprima occorre infatti distruggere gli elementi, perché si possano ricomporre successivamente in una sintesi superiore. Solve et coagula era appunto il motto degli alchimisti, indicante le operazioni da compiere, di cui lo scioglimento e la decomposizione costituisce necessariamente il primo passaggio ineludibile. La solutio o liquefazione consentiva infatti di ridurre la materia alla sua essenza indifferenziata, che era identificata con il mercurio filosofico, ma si poteva operare anche tramite separazione, cioè suddivisione nei suoi componenti, o calcinazione, ossia riduzione in cenere sul fuoco.

A livello macrocosmico la Nigredo è governata da Saturno, pianeta della pesantezza e della gravità associato ai colori scuri e tenebrosi, e tra i metalli al piombo. Nell’alchimia cristiana consiste nel sacrificio di Cristo sulla croce, il cui Corpo viene distrutto e il suo Sangue disperso; in particolare il «Golgota», che significa propriamente «luogo del teschio», diventò un’immagine ricorrente per descrivere la Nigredo alchemica.

Nella Divina Commedia, la fase della Nigredo corrisponde al passaggio di Dante e Virgilio attraverso l’Inferno. Nella teoria umorale è collegata alla malinconia, quindi alla bile nera, fra le quattro stagioni all’inverno, fra le età della vita alla vecchiaia. 

Ecco che si chiude il cerchio sulla malinconia ricordando ciò che è stato detto sul ragazzo spazzacamino verso la conclusione del capitolo iniziale, per riflettere su questo misterioso umore che assale l’iniziato alla Grande Opera.

«… e allora deploreremo l’amico il cui giudizio è obnubilato da teorie fuligginose e bislacche, cercheremo di osservare la situazione con distacco senza farci soffocare dalla fuliggine della paura, noteremo come su un ricordo si sia depositata una fuliggine di malinconia, e ci viene da svenire a quello sguardo intenso e nero come la fuliggine.»

V.I.T.R.I.O.L. è un acrostico di un celebre motto dei Rosacroce, che significa «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase continuava alle volte con le parole «Veram Medicinam», a indicare che la pietra è anche il «vero rimedio» per ogni malattia, in tal caso l’acrostico diventava V.I.T.R.I.O.L.U.M.

L’espressione stava a indicare l’esigenza di scendere nelle viscere della terra, cioè negli anfratti oscuri dell’anima, per conseguire l’iniziazione, operando quella trasmutazione della materia nello spirito che avrebbe permesso di conseguire l’immortalità e riportare alla luce la sapienza, attraversando le diverse fasi dell’Opera alchemica, cioè Nigredo, Albedo, Rubedo.

Una volta varcato la Porta d’ingresso dell’interno della terra è come entrare da galeotto in un ergastolo e il vestito cambia, nel senso che vi si esce da “morti” (la morte dell’Ego). Ma c’è di più perché non si è più come prima, ed è il ragazzo spazzacamino a sua insaputa che prende il posto suo. Non si contano i camini da ripulire dalla fuliggine. Ecco un mistero che può spiegare com’è che gli alchimisti e occultisti in genere hanno il modo di mantenere in vita le loro corporeità e funzioni mentali per svolgere l’eventuale ruolo di maestri per trasmettere il loro insegnamento esoterico.

E quando l’ Albedo spunterà in uno di loro, cosa ne sarà del “corpo a prestito” di uno di quei ragazzi spazzacamino? Uno dei tanti «Agnelli» di cui si parla nell’Apocalisse di Giovanni.

«Poi vidi ritto, in mezzo al trono e ai quattro esseri viventi e in mezzo agli anziani, un Agnello come ucciso, il quale aveva sette corna e sette occhi, che sono i sette Spiriti di Dio mandati per tutta la terra.» (Ap 5,6)

Anche quel ragazzino spazzacamino sempre coperto di fuliggine si domanda continuamente quando sorgerà in lui l’Alba della Primavera? Ma infine arriverà per lui il momento preparato da uno di quei «sette Spiriti di Dio mandati per tutta la terra».

E per il giovane spazzacamino Fausto Cappini ci volle una forte scarica elettrica per farla spuntare in lui.

Lo spazzacamino in Valle Vigezzo

«Quello che vedete è la statua dedicata a Faustino Cappini, originario di Re, nella piemontese Valle Vigezzo. Cinque anni di età. Morì a Torino, fulminato da un filo dell’alta tensione nel momento in cui sporse la mano e gridò “spazzacaminooo” per mostrare così al padrone di casa (e forse anche al suo padrone-sfruttatore) che era giunto in cima alla canna fumaria e quindi concluso la sua opera.

Museo dello Spazzacamino

La foto di Faustino (scattata nel secolo scorso da Aurelio Tanzi), si conserva nel Museo dello spazzacamino, creato a Santa Maria Maggiore (Vigezzo), e che è la testimonianza di una terribile, secolare storia di semi schiavitù che ha coinvolto, più nel Ticino che al di qua delle Alpi, centinaia e centinaia di bambini di famiglie indigenti soprattutto della Svizzera italiana» 

L’alchimia del mistero del Terzo Sale, il Caput Mortuum

In alchimia il sale è uno dei Tre Principi, presenti sia nel cosmo sia nell’uomo: una triade mistica, composta dal sale, dal mercurio e dallo zolfo. Benché si presenti come una polvere bianca, inerte, il sale è uno dei grandi misteri e simboli dell’iniziazione. Nella tradizione alchemica esso era l’emblema di un patto sacro che non poteva mai essere rescisso, simile a quello che il neofita stringeva con la sua scuola o il suo maestro. «Il patto di sale» di cui parla l’Antico Testamento potrebbe avere un significato diverso da quello che gli viene di solito attribuito. Il Nuovo Testamento è meno evasivo al proposito: in Matteo, infatti, «sale della terra» sono gli eletti, ossia gli iniziati e non, come si tende oggi a pensare, quanti sono poco più che semplici contadini. Nei secoli lontani gli eletti sedevano al posto d’onore, «più in alto del sale», perché avevano conquistato il sale che avevano dentro di sé. Come si spiegherebbe altrimenti tutta l’importanza che nei convivi medievali veniva attribuita al salinum, ossia alla saliera? […]

Gli alchimisti ponevano talora a emblema del sale il più semplice di tutti i sigilli: un minuscolo quadrato o un piccolo rettangolo. Con quelle quattro linee che descrivono uno spazio vuoto – come lo spazio fra l’Aria e l’Acqua – intendevano delineare i misteri dei quattro elementi o disegnare una bara? Il reverendo Brewer, un colto collezionista di idee curiose, totalmente ignaro di esoterismo, ci ricorda la consuetudine, tuttora esistente, di porre una manciata di sale nella cassa del morto.

C’è forse un nesso fra il sale e la morte? Un altro sigillo del sale – usato con frequenza nei gruppi alchemici rosacrociani – era un cerchio tagliato a metà da una linea orizzontale Θ. Quel sigillo deriva dalla theta maiuscola di Thanatos, che in greco significa «morte».

In numerosi testi alchemici il sale rappresenta il processo mentale, che è un processo di morte. Il sale è il residuo dell’attività spirituale che avviene nella nostra testa: come nelle triade alchemica, è la scoria che resta quando la vita è volata via, è il cranio, il caput mortuum, la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro. È la cenere del pensiero.

Quando la testa – o la sua attività spirituale che chiamiamo mente – raggiunge il punto in cui non è più in grado di capire, in cui l’ordine dell’universo sembra frantumarsi, allora produce lacrime salate.

Ed ecco il punto d’incontro dell’Alchimia con l’Apocalisse di Giovanni, grazie al caput mortum la polvere bianca residua dopo l’estrazione dell’oro, la cenere del pensiero, idealmente di quel giovane spazzacamino Fausto Cappini di cinque anni nell’alchimista. Morì a Torino, fulminato da un filo dell’alta tensione nel momento in cui sporse la mano e gridò “spazzacaminooo”.

Gaetano Barbella

 

 

 

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