Noi ebrei dovremmo essere e rimanere portatori e difensori dei valori spirituali. Ma dovremmo anche restare perennemente consapevoli del fatto che questi valori spirituali sono e sono sempre stati il fine comune di tutta l’umanità

Albert Einstein

Tutti li Zudei che de presente se attrovano abitar in diverse contrade de questa città, debbano abitar uinidi, e la Sera siano serrate a ore 24 per quattro Custodi Cristiani a ciò deputati e pagati da loro Giudei a quel prezzo che parerà conveniente al Collegio Nostro…”.

Con queste parole il Senato della Serenissima ordinò il 29 marzo 1516 l’istituzione del ghetto, dove il popolo ebraico residente a Venezia, rimase segregato per quasi tre secoli, fino all’arrivo di Napoleone che l’abolì nel 1797. Prima del confino degli ebrei nel ghetto, una piccola comunità di circa 1300 individui era presente in città fin dal XII secolo. Dal XIII secolo ebbero residenza stabile presso l’Isola di Spinalonga, (chiamata così forse per la sua forma allungata a lisca di pesce) che da allora, avendo molti abitanti Giudei, cambiò il proprio nome in Zudèca, poi divenuta Giudecca.

Così, circa settecento ebrei di origine tedesca e italiana, vennero segregati in un’area isolata della città. Una zona malsana, prossima alle carceri e al convento di San Girolamo, i cui religiosi avevano l’incarico di seppellire i giustiziati. Nacque così il primo ghetto della storia. Il “serraglio dei Giudei” era circondato da canali, con due ponti soltanto. Chiusi quelli non si entrava né si usciva. In quel fazzoletto di terra c’era stata una fonderia dove si “gettava” il metallo fuso. Il “getto”, nome con cui veniva indicata, diventò “ghetto”. Questa l’origine della parola. Quando l’isola del Ghetto Novo venne destinata agli ebrei, essa era già in parte abitata; gli inquilini furono costretti ad abbandonare le case per far posto ai nuovi venuti e le pigioni furono aumentate di un terzo. Si munirono di cancelli i ponti sul rio di San Girolamo e sul rio del Ghetto chiusi di notte e controllati da guardiani pagati dagli stessi ebrei. Altri guardiani pattugliavano i canali in barca.

Al ghetto ci si arrivava lasciandosi alle spalle il ponte delle Guglie, con quei suoi obelischi bianchi che svettavano alteri e meritavano uno sguardo a ritroso, ci si ritrovava così sulla sponda del canale di Cannaregio. Il canale era sempre animato: arrivava il vaporetto che sbuffava e sbatteva contro le palizzate del molo producendo un tonfo sordo; per poi ripartire lasciandosi dietro qualche onda e uno sciabordio che durava poco. Poco più avanti c’era un angusto Sotoportego, un passaggio stretto e buio che bisognava cercare e sapere che c’era, altrimenti non lo si vedeva. Imboccandolo, d’istinto si abbassava il capo per non incontrare il soffitto: quel gesto involontario, attraversando il confine tra quel fuori e quel dentro, era il simbolo della lunga e straordinaria storia che stava proprio in quel varco fra un mondo e l’altro. Perché in quel punto preciso un tempo c’erano i cancelli del ghetto, che la sera si chiudevano e la mattina si aprivano, sempre presidiati dalle guardie: fuori c’era il mondo di tutti, dentro c’era quello degli ebrei.

Ma da dove e quando erano arrivati gli ebrei in città? Nella storia della diaspora europea e della presenza ebraica nella Penisola, l’esperienza del Ghetto di Venezia è qualcosa di unico e inimitabile. Gli ebrei prima dell’espulsione dai domini spagnoli, risiedevano in Sicilia già dal Medioevo, erano poi presenti in Puglia e a Roma. La componente ebraica nazionale è quindi sempre stata molto variegata, una componente che si arricchì con l’arrivo dei provenzali e degli ashkenaziti dal Nord Europa. La singolarità dell’esperienza ebraica a Venezia è legata però a un fenomeno che non è veneziano, ma italiano: i cristiani non potevano prestare denaro a interesse e gli ebrei vennero spinti a poco a poco a fare un mestiere che ad altri era proibito, sebbene ai tassi imposti dalla Repubblica, diventando a tutti gli effetti, tra il 1300 e il 1600, i banchieri d’Italia.

All’interno del ghetto arrivarono ad abitarci fino a 5mila persone e gli edifici, che non potevano espandersi in ampiezza, lo fecero in altezza. Le case, uniche in città, raggiunsero i sette-otto piani (contro i tre quattro abituali). Ma durante il giorno uscivano e a Rialto, il cuore economico della Serenissima, in alcune giornate si vedevano più berrette gialle (che erano costretti a indossare i mercanti ebrei) che berette nere, dei colleghi cristiani. Il mercante più famoso fu proprio il ricco usuraio Shylock, reso immortale dal Mercante di Venezia, l’opera teatrale di William Shakespeare ambientata proprio nel XVI secolo, ma che in realtà non è mai esistito. Ma sarebbe potuto esistere solo là, unico luogo al modo di allora dove un ebreo avrebbe potuto ricoprire quel ruolo. Per gli ebrei, oltre all’obbligo spesso disatteso del berretto giallo, c’era la proibizione dei rapporti sessuali con i cristiani. E anche questo veniva spesso ignorato. Il rabbino Leone Modena (1571 – 1648), una delle figure più importanti dell’ebraismo italiano, era un assiduo frequentatore di cortigiane. Ma anche un giocatore d’azzardo compulsivo che frequentò molto probabilmente il Ridotto(1) il primo casinò della Storia, fondato nel 1638, ovvero dieci anni prima della sua morte.

Sempre il rabbino Modena si contraddistinse per la sua Historia de’ riti hebraici, un testo divulgativo per spiegare l’ebraismo ai non ebrei. Il libro, scritto probabilmente su invito dell’ambasciatore britannico a Venezia, sir Henry Wotton, che voleva donarlo al suo re, Giacomo I, fu stampato in edizione integrale a Parigi nel 1637 e un anno dopo a Venezia, con i tagli voluti dall’Inquisizione. Leone lasciò il segno anche nella storia della musica perché stampò una raccolta di salmi e canti da sinagoga, musicati dall’allora celeberrimo Salomone Rossi. Una sua allieva, Sara Copio Sullam, esperta in teologia, filosofia e lingue e raffinata poetessa, nella sua casa in Ghetto Vecchio diede vita a uno dei salotti letterari più celebrati del Seicento, frequentato da veneziani e da persone che arrivavano apposta per conoscerla. Nel 1621 Baldassare Bonifacio(2) l’accusò ingiustamente di non credere all’immortalità dell’anima. Sara rispose con un famoso Manifesto, a difesa di sé stessa, ma anche di tutto l’ebraismo.

Il breve Manifesto è opera attentamente strutturata, nell’intento di respingere accuse infondate, su verità che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione:

“L’Anima dell’uomo, Signor Baldassare, è incorruttibile, immortale e divina, creata e infusa da Dio nel nostro corpo in quel tempo che l’organizzato è reso abile nel ventre materno a poterla ricevere e questa verità è così certa, infallibile e indubitata appresso di me, come credo sia appresso ogni Ebreo e Cristiano”.

Ora a Venezia i cancelli non ci sono più, ma la parola che racconta questa storia è diventata segno universale di segregazione e disprezzo. Eppure quella della città lagunare è anche, forse soprattutto, una storia di vita, di incontri, di comunicazione malgrado quei cancelli. Il ghetto è innanzitutto un variegato microcosmo dove convivono ebrei dalle provenienze più diverse.

Erano chiusi, ma non per questo bloccati.

 

NOTE

(1)Il Ridotto” come veniva semplicemente chiamato e il più importante era quello di Palazzo Dandolo a San Moisè. Al suo interno vi erano molti tavoli in fila, in ognuno dei quali era seduto un gentiluomo che teneva il banco con zecchini e ducati, e che aspettava i giocatori. Potevano giocare i nobili o chiunque portasse una maschera, la baùta, molto usata a Venezia per poter partecipare a feste, schiamazzi e altro, senza rivelare la propria identità. La fama del Ridotto si sparse in tutta l’Europa, tanto che gli stranieri più facoltosi che passavano per Venezia correvano a visitarlo; fra gli altri, anche Federico IV re di Danimarca nel 1708. Cliente fisso ne fu Giacomo Casanova. Al Ridotto si giocava alla Bassetta, al Faraone e a tutti quei giochi d’azzardo nei quali i frequentatori si accanivano, sperperando intere fortune e arrivando perfino a privarsi di effetti personali, quali orologi, anelli, collane, tabacchiere. La regola generale del Ridotto era quella di giocare nel massimo silenzio; interi patrimoni cambiavano di proprietà, facendo diventare ricchissimo qualche giocatore o riducendone sul lastrico qualche altro, ma il tutto avveniva freddamente, silenziosamente.

(2) È noto per il “De archivis liber singularis“, pubblicato a Venezia nel 1632, che rappresenta una vera e propria pietra miliare della storia archivistica moderna. Nel 1636 istituì a Padova l’Accademia dei Nobili Veneziani.

 

BIBLIOGRAFIA

“Storia del ghetto di Venezia”  (2001) Riccardo Calimani. Editore: Mondadori.

“Venezia e il ghetto – Cinquecento anni del «recinto degli ebrei” (2016) Donatella Calabi.  Bollati Boringhieri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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