Un viaggio tra stelle lontane e cellule primordiali, alla scoperta di cosa significa davvero essere vivi — e forse, unici — nell’universo.

NEL SILENZIO DELLE STELLE: FRANK DRAKE L‘UNIVERSO UMANO

l’universo e l’illusione dell’eccezionalismo umano

Redazione Inchiostronero

“Nel silenzio delle stelle: Frank Drake e l’universo umano” è un saggio in due parti che unisce scienza e riflessione, astronomia e biologia, per esplorare le grandi domande che da sempre accompagnano l’essere umano: Siamo soli nell’universo? Come ha avuto inizio la vita? Qual è il nostro posto in questo immenso cosmo silenzioso? Nella prima parte, seguiamo il percorso visionario dell’astronomo Frank Drake, padre della ricerca di intelligenze extraterrestri. La sua celebre equazione e i progetti SETI aprono uno sguardo scientifico e poetico sulla possibilità di altre civiltà. Attraverso i numeri vertiginosi dell’universo e il paradosso del silenzio cosmico, emergono interrogativi che sfiorano la filosofia: non solo chi c’è là fuori, ma chi siamo noi? Nella seconda parte, il racconto si sposta sulla Terra per ricostruire l’epopea dell’origine della vita: dalle prime molecole autoreplicanti alla comparsa di LUCA, il nostro antenato cellulare comune, fino alla lenta evoluzione verso la complessità biologica. Il focus si sposta dall’Altrove al Qui, dalla vastità dell’universo all’intimità della materia vivente. Un doppio sguardo — cosmico e terrestre — che, nel silenzio delle stelle, trova una voce: la nostra. Una riflessione per chi cerca nelle scienze non solo risposte, ma anche prospettive sul senso e sulla fragilità della vita.


Conosci Frank Drake? È stato un astronomo americano, uno dei pionieri della ricerca di civiltà extraterrestri intelligenti. Ha dedicato la vita a scrutare il cielo, cercando segnali da altri mondi. Eppure, se guardiamo i risultati, qualcuno potrebbe dire: non ha trovato nulla.

Ma è davvero così?

Quando si parla di universo, parliamo di proporzioni che sfidano la mente: più di 2.000 miliardi di galassie, ognuna con centinaia di miliardi di stelle. E noi, su un minuscolo pianeta ai margini di una galassia qualunque, ci illudiamo spesso di essere il centro di tutto.

Forse è proprio questa prospettiva che rende il lavoro di Drake così importante. Non cercava solo “alieni”. Cercava la nostra posizione nell’universo.

Nel silenzio delle stelle: Frank Drake, l’universo e l’illusione dell’eccezionalismo umano

“Se siamo soli nell’universo, è davvero uno spreco di spazio.”
Carl Sagan

C’è stato un uomo che ha passato la vita a scrutare il cielo, non per trovare Dio o cercare conferme di antiche leggende, ma per sentire un segnale, una voce lontana, una prova che là fuori, da qualche parte, qualcuno stesse facendo la stessa domanda: Siamo soli?

Il suo nome era Frank Drake, e la sua impresa non è mai finita con una risposta chiara. Ma forse, in un’epoca che misura il valore in base ai risultati, vale la pena ricordare la nobiltà di chi cerca, nonostante tutto.

🪐Un pioniere dell’ascolto cosmico

Frank Drake, astrofisico e radioastronomo statunitense, è stato uno dei padri della ricerca di intelligenze extraterrestri, nota con l’acronimo SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence). Nel 1960 diede vita al Progetto Ozma, il primo tentativo sistematico di captare segnali radio provenienti da possibili civiltà aliene.

Un anno dopo, nel 1961, presentò al mondo la sua famosa Equazione di Drake: non una formula esatta, ma un modello probabilistico per stimare quante civiltà tecnologicamente evolute potrebbero esistere nella nostra galassia.

N = R* × fp × ne × fl × fi × fc × L

Ogni fattore di questa equazione riflette un passaggio fondamentale: dalla nascita di una stella, alla possibilità di avere pianeti abitabili, fino alla durata di una civiltà capace di comunicare. Nessuno sapeva con certezza i valori di questi parametri, ma la domanda era stata posta. E non si poteva più ignorare.

Perché è bella questa equazione?

Perché non ci dà una risposta, ma ci aiuta a pensare.
Ogni numero è una domanda aperta. Ogni fattore è una possibilità.
È il modo con cui la scienza sogna — ma lo fa con metodo.

🔭 L’universo è immenso. E noi?

Quando parliamo dell’universo, usiamo numeri che sembrano mitologia.
Non li comprendiamo davvero — li pronunciamo, forse, con stupore automatico. Ma dentro quei numeri c’è qualcosa di più: una vertigine, un senso di sproporzione così grande da sfidare la nostra stessa identità.

Secondo le stime più recenti, ci sono oltre 2.000 miliardi di galassie nell’universo osservabile.
Ognuna ospita centinaia di miliardi di stelle.
E attorno a moltissime di esse orbitano pianeti, alcuni rocciosi, altri gassosi, alcuni forse con acqua, atmosfera, forse con vita. Solo nella nostra galassia, la Via Lattea, potrebbero esserci decine di miliardi di mondi abitabili.

È difficile immaginare anche solo una galassia. Pensiamo a una città, poi a un continente, poi al pianeta. Ora moltiplichiamo tutto questo per miliardi.
E ancora… siamo appena all’inizio.

La Via Lattea — una tra miliardi — contiene tra i 100 e i 400 miliardi di stelle.
Intorno a una di queste, una nana gialla piuttosto anonima, ruota un piccolo pianeta blu. Un frammento di roccia e acqua, né troppo grande né troppo piccolo, né troppo vicino né troppo lontano dal suo sole.

Astronauta vede la Terra

La chiamiamo Terra.
È qui che viviamo, amiamo, nasciamo, costruiamo, distruggiamo, cerchiamo senso.

Eppure, nonostante questa sproporzione cosmica, abbiamo passato secoli — anzi, millenni — credendo di essere il centro di tutto.
Non per vanità personale, ma perché era ciò che ci avevano insegnato a pensare: che tutto esistesse in funzione nostra, che il cielo fosse una cupola, che il tempo e lo spazio ruotassero attorno all’uomo.

Ci siamo messi al centro, non perché ne avessimo le prove, ma perché ne avevamo bisogno.

Ma l’universo, con la sua vastità silenziosa, non ci conferma né ci smentisce. Ci osserva — o forse non se ne accorge nemmeno.
E noi, minuscoli esseri su un granello galleggiante, continuiamo a chiederci:
     “Che posto abbiamo, davvero, in tutto questo?”

📌 Il peso di un’illusione insegnata

Questa convinzione — di essere al centro del creato — non nasce dall’arroganza del singolo, ma da una costruzione culturale antica e profonda.
Per secoli, l’umanità ha osservato il cielo e vi ha proiettato se stessa: la Terra immobile, ferma come un trono, con il Sole, la Luna, i pianeti e le stelle a farle la riverenza.
Un ordine rassicurante, dove ogni cosa aveva un posto e quel posto era disposto per noi.

Il modello geocentrico, perfezionato da Tolomeo, ha dominato per quasi duemila anni.
Non era solo un sistema astronomico: era una visione del mondo.
Era rafforzato dalla religione, che vedeva nell’uomo il vertice della creazione; dalla filosofia, che faceva dell’intelletto umano la misura del reale; e dalla politica, che legittimava il potere attraverso il disegno cosmico.

Poi arrivarono Copernico, Galileo, Keplero. E con loro, lo scomodo principio che la Terra non è il centro di nulla.
Un’idea che all’epoca non fu solo una rivoluzione scientifica, ma uno shock esistenziale.
Il cielo, da scenario creato per noi, diventava indifferente e muto.
E noi, per la prima volta, ci sentimmo soli.

Ma l’antropocentrismo non è mai davvero scomparso.
Come un’eco persistente, si è spostato dal centro fisico al centro morale.
Non siamo più il punto attorno a cui ruotano le stelle, ma ci siamo raccontati che siamo comunque il senso di tutto: che l’universo è qui per essere compreso, dominato, decifrato da noi.
Abbiamo ceduto il trono celeste, ma ci siamo incoronati interpreti supremi del cosmo.

Questa illusione ci ha accompagnato fino ad oggi.
E forse è per questo che il silenzio delle stelle ci mette così a disagio:
perché non ci restituisce alcuna conferma.
Perché, nel profondo, ci mostra una realtà che non si cura di noi.
E in questo silenzio, non sentiamo solo l’assenza degli altri — sentiamo l’assenza di noi stessi al centro.

“L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura, ma è una canna pensante.”

Blaise Pascal, Pensieri

Eppure, il cielo tace

Malgrado decenni di ascolto, telescopi puntati, onde radio analizzate, nessun segnale intelligente è mai stato confermato.
Questo è il paradosso di Fermi: se la vita è comune, e l’universo così antico e vasto… dove sono tutti?

Le ipotesi sono molte:

  • Forse la vita intelligente è rara, o si autodistrugge prima di poter comunicare.
  • Forse non sappiamo come ascoltare, o non ci stiamo ponendo le domande giuste.
  • O forse c’è un’altra possibilità ancora più inquietante: che non ci sia nessuno.

Eppure, a volte, anche nel silenzio più assoluto, l’universo si lascia intravedere.

Il 10 aprile 2019, un coro di meraviglia mondiale accolse la prima immagine di un buco nero: quello al centro della galassia M87, distante 55 milioni di anni luce.
Era l’ombra di un colosso: un buco nero massiccio quanto sette miliardi di soli, circondato da un anello di fuoco, sfocato, evanescente, quasi immateriale come la sua stessa presenza, fino a quel momento solo supposta.

Per la prima volta, ciò che era stato invisibile ha assunto forma. Nessun messaggio, nessun suono: solo una visione tremolante, ma reale.
Un segnale muto, che ci ha ricordato che anche ciò che non comunica, può mostrarsi, se impariamo a guardare in modo nuovo.

Ma anche questa risposta, per quanto fredda, ci insegna qualcosa.

🔭 Cercare gli altri per capire noi stessi

Frank Drake non ha trovato civiltà aliene.
Nessun segnale, nessuna voce da lontano.
Ma ci ha lasciato qualcosa di altrettanto prezioso: una prospettiva.

Ci ha insegnato che cercare nel cosmo non è solo scienza, ma un atto umano profondamente filosofico.
È la prosecuzione naturale di ciò che siamo: esseri che domandano, che sollevano lo sguardo non solo per curiosità, ma per trovare un riflesso, una conferma, una risposta alla domanda più antica di tutte:

“Chi siamo?”

Cercare gli altri, in fondo, è un modo per guardarci da fuori.
Un modo per relativizzare la nostra posizione, per ridimensionare il nostro ego, per capire che non siamo il centro — ma potremmo non essere nemmeno un errore.

Ogni parabola lanciata nello spazio, ogni antenna orientata verso le stelle, è una preghiera laica, un grido elegante e silenzioso che dice: “Ci siamo. Qualcuno ascolta?”
E anche se non arriva risposta, quel gesto ci cambia.

Nel suo silenzio, l’universo non ci ignora. Ci mette alla prova. Ci chiede:

“Chi pensate di essere?”

E questa domanda vale più di mille segnali.
Perché ci obbliga a scegliere:
a rispondere non con la presunzione, ma con l’umiltà di chi sa di essere piccolo, ma vuole comprendere.
Con la meraviglia di chi sa di essere fragile, ma capace di pensare l’infinito.
Con la responsabilità di chi, forse, è solo… ma non per questo è meno importante.

In fondo, cercare gli altri è un modo per non dimenticarci di noi stessi.

“L’universo non è obbligato a essere in sintonia con l’ambizione umana.”

— Carl Sagan

🌌 L’eredità di un ascoltatore

Oggi, grazie anche a Drake, la ricerca SETI continua.
Non è più solitaria, come nei giorni del Progetto Ozma, con un singolo radiotelescopio puntato nel vuoto e un uomo in cuffia ad ascoltare.
Ora si muove su scala globale: tra reti di radiotelescopi sparsi nei cinque continenti, intelligenza artificiale in grado di analizzare miliardi di segnali in pochi istanti, progetti open source a cui possono contribuire scienziati, università, e perfino semplici appassionati.

Il programma Breakthrough Listen, lanciato nel 2015, è oggi uno dei più ambiziosi progetti di ascolto cosmico mai realizzati.
E nuove missioni spaziali studiano esopianeti simili alla Terra con una precisione che avrebbe fatto impallidire gli strumenti del secolo scorso.
Eppure, in mezzo a tutto questo progresso, resta viva la scintilla che ha acceso tutto:
la voglia di sapere se siamo davvero unici, o se la vita è un coro cosmico che attende solo di essere ascoltato.

Drake ci ha lasciato strumenti. Ma ci ha lasciato soprattutto una domanda che non smette di pulsare.
Ha trasformato l’ascolto del cielo in un gesto di consapevolezza, in un atto quasi poetico: perché ascoltare non è solo cercare.
È riconoscere che potrebbe esserci un Altro.
È mettersi in silenzio. È lasciare spazio a qualcosa che non controlliamo.

Drake non ha avuto tutte le risposte, ma ha avuto il coraggio — raro e prezioso — di fare la domanda giusta.
E ancora oggi, chiunque guardi il cielo con rispetto, con inquietudine, con meraviglia, sta continuando la sua opera.

“La sola cosa più vasta dell’universo è la nostra ignoranza su di esso.”

— Frank Drake

E forse, nell’eco di quella domanda, c’è già una forma di contatto. Non con altri mondi… ma con ciò che di più profondo esiste in noi.

Dati, algoritmi e nuove visioni

Miliardi di galassie, pianeti, stelle. E petabyte di dati che nessun essere umano potrebbe analizzare da solo.
L’astronomia del presente — e del futuro — si affida sempre più all’intelligenza artificiale, capace di riconoscere schemi invisibili all’occhio umano, di scandagliare immagini cosmiche, di filtrare rumori radio, e forse, un giorno, anche di intercettare un segnale intelligente.

I telescopi non sono più solo lenti puntate verso il cielo. Sono occhi digitali che guardano, apprendono, selezionano. Algoritmi che cercano l’anomalia, il segnale debole, la firma dell’inaspettato.

Forse, se mai troveremo una voce aliena, non sarà un uomo a udirla per primo… ma una macchina.
E tuttavia, ciò che conta non è chi sente, ma chi comprende.

Perché anche se cambiano gli strumenti, resta la domanda — umanissima — che li ha messi in moto:
Siamo davvero soli?

🌌 Una conclusione nell’infinito

Forse non troveremo mai un’altra civiltà.
Forse nessuna voce risponderà ai nostri segnali, nessun pianeta lontano invierà un “ciao” cosmico, nessuna tecnologia aliena intercetterà le nostre trasmissioni.
Eppure, il solo fatto di aver cercato — di aver rivolto lo sguardo verso il cielo non per superstizione, ma per meraviglia — è già un atto che nobilita la nostra presenza.

Perché cercare ciò che non vediamo è un segno di speranza, ma anche di coraggio intellettuale.
Significa riconoscere che il senso delle cose potrebbe non ruotare attorno a noi… e tuttavia decidere lo stesso di ascoltare.
Significa scegliere l’umiltà dell’interrogazione al posto dell’arroganza della certezza.

Non siamo il centro dell’universo.
Non lo siamo mai stati, e forse non lo saremo mai.
Ma in mezzo a questa immensità fredda e silenziosa, siamo qualcosa di raro: un punto minuscolo dove la materia ha imparato a pensare, a domandare, a immaginare.

Siamo — forse — il luogo in cui l’universo comincia a riflettere su se stesso.
E questo, da solo, ci rende significativi, anche se irrilevanti.
Fragili, ma non vani.

In fondo, cercare nel cosmo è anche cercare dentro di noi:
perché ogni telescopio è anche uno specchio, e ogni volta che guardiamo lontano, qualcosa in noi si avvicina.

“L’astronomia è un’esperienza di umiltà e costruzione del carattere.”

— Carl Sagan

 

🎬 Film consigliati per continuare il viaggio

Stelle, silenzi, domande cosmiche e risposte umane

Contact (1997, Robert Zemeckis)

📡 Tratto da un’idea di Carl Sagan, è il film che meglio rappresenta lo spirito di Frank Drake e del progetto SETI. Una scienziata capta un messaggio dallo spazio profondo. Ma la vera scoperta sarà dentro di lei.
Un film che unisce scienza, fede e filosofia in un’unica, potente domanda: Siamo soli?

Interstellar (2014, Christopher Nolan)

🌌 Una missione intergalattica per salvare l’umanità si trasforma in un viaggio tra gravità, tempo e amore.
Interstellar riflette sull’isolamento cosmico, ma anche sul legame profondo che ci unisce: non siamo solo esploratori, ma esseri emotivi nel cosmo.

2001: Odissea nello spazio (1968, Stanley Kubrick)

🪐 Un capolavoro visionario che ha rivoluzionato il modo di raccontare l’universo. Dalla nascita dell’intelligenza alla sua evoluzione cosmica, tra monoliti, silenzi e intelligenze artificiali.
Un film che non risponde, ma interroga profondamente.

Arrival (2016, Denis Villeneuve)

🛸 Gli alieni arrivano, ma non per invadere. Vogliono comunicare.
Una linguista dovrà imparare il loro linguaggio circolare per comprendere il tempo, la perdita e il significato dell’incontro.
Un capolavoro delicato sulla complessità del contatto e della comprensione.

Ad Astra (2019, James Gray)

🚀 Un uomo viaggia fino ai confini del sistema solare per ritrovare il padre… e se stesso.
Più che un film di fantascienza, è una meditazione silenziosa sulla solitudine cosmica e sul bisogno umano di connessione.

The Farthest – Voyager in Space (2017, doc. Emer Reynolds)

🌍 Un documentario coinvolgente sulla missione Voyager, le sonde che hanno lasciato il Sistema Solare portando con sé il Golden Record: il messaggio dell’umanità all’universo.
Un tributo al coraggio di inviare un saluto nel buio, senza sapere se qualcuno risponderà.

🌠 Suggerimento finale:

Guarda uno di questi film non solo con gli occhi, ma con la domanda nel cuore:

“E se fossimo davvero il primo sussurro dell’universo verso se stesso?”

Una scena da 2001 odissea nello spazio

 

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2001: Odissea nello spazio film del 1968 prodotto e diretto da Stanley Kubrick, scritto assieme ad Arthur C. Clarke.

📚 Fonti e letture consigliate

  • Frank Drake & Dava Sobel – Is Anyone Out There? (1992)
  • Carl Sagan – Pale Blue Dot (1994)
  • Paul Davies – The Eerie Silence (2010)
  • Articolo: “The Observed Universe Has 10 Times More Galaxies Than Previously Thought”, Nature, 2016
  • SETI Institute – www.seti.org
  • Documentario: The Farthest: Voyager in Space (2017)

 

  •  «LA LUNGA ALBA DELLA VITA»

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