Può una semplice pianta grassa raccolta durante un viaggio in Messico scatenare un viaggio onirico tanto affascinante da doverlo assolutamente raccontare?

 

 

NEL VENTRE DELLA NOTTE

 

racconto

di

Stéphanie Marchand

 

♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥

Mi chiamo Luna, ho 25 anni e voglio fare come la lumaca. Sono convinta, infatti, che essa viva due vite. La prima naturale, noiosa e lenta da 7 metri all’ora, è fatta di sbavate argentee tra arrampicate e discese a rotta di “colla” in mezzo a boschi di insalata e di lattuga. La seconda, da sballo, comincia quando si rintana nel suo guscio dove si inebria di accelerazioni fantastiche, di balzi da grillo e di crudeli lotte da mantide. D’altronde esiste un altro essere vivente che quando è in casa è così felice da fare tante bolle? Detto questo ho fatto come lei: ho costruito un guscio a misura e ci sono entrata. Appena dentro ho iniziato a volteggiare leggera sopra i tetti del mio paese immersa in densi banchi di nebbia. Intorno a me, tra i profili sfuocati delle case, colava qualche pennellata d’acquarello verde e pochi tratti di strada spugnati di grigio. Poi, senza sapere come, mi sono trovata in una stanza dal soffitto molto alto. Imponenti scaffali tappezzavano le pareti e sui ripiani si incolonnavano vecchi registri ordinati per date. Al centro della stanza c’era una scrivania di legno. Su di essa vidi un calamaio, una matita e una cartellina rossa. Accanto troneggiava una Savonarola. Pensavo al da farsi quando d’un botto si spalancò la porta ed entrò uno strano figuro. Sul petto portava una targhetta dorata. Le parole Segretario agli Affari Speciali vi spiccavano in rilievo. Avvertii una sensazione ostile ma mi feci coraggio e lo fissai. Non alto, non magro, calvo, mi fissava con un’espressione scorata. I suoi occhi si posavano nervosamente sul mio volto, sulle mie mani, sul mio seno.

   «Incredibile!» disse, «Un condannato dal Tribunale Supremo si è liberato dalla stretta dei Commessi ed è fuggito a gambe levate. Il Presidente del Tribunale era assente ma le voci dello scandalo sono arrivate alla porta del Ministro della Giustizia il quale minaccia di fare lui stesso l’ambasciata se entro domani non sarà catturato.»

   A questo punto si fermò, prese fiato, e finì con un tono imperioso quanto aveva da aggiungere: «In virtù della recente carica ad Ispettore Generale deve aiutarmi a catturare il fuggitivo. Ah, un’ultima cosa. Prenda!» E mi allungò la cartellina rossa. «Questa è la relazione del processo scritta dal mio incaricato. Lo studi ma non faccia trapelare nulla: ne va della nostra reputazione di fronte all’Altissimo. Fra poco l’aspetto nel mio ufficio.» Poi uscì di scena sbattendo la porta ed io per l’emozione mi spersi nel nulla…

È notte quando rinvengo nella mia camera. Poco distante il mare in tempesta lancia onde roboanti contro la scogliera. La testa mi gira ma sono fuori dal guscio. Con la coda dell’occhio scorgo a terra la cartella che mi ha consegnato il Segretario. La raccolgo, mi siedo sul letto e la apro. Mi colpisce la grammatura pesante della carta e la potenza del contrasto tra lo sfondo nero delle pagine e l’inchiostro bianco delle lettere ben vergate e leggibili. Il verbale racconta di un giovane di ventotto anni accusato dell’omicidio di entrambi i genitori. L’incaricato del Segretario agli Affari Speciali così inizia:

   “Mi pare di vedere il ragazzo al centro della Sala delle Udienza di quel magnifico esempio di maestria architettonica che è il nostro Tribunale. L’Edificio sorge su due piani e slarga il suo basamento rettangolare attorno ad un cortile a cui si accede tramite un portale coperto da un protiro a colonne. Il cortile, cinto da portici, è lastricato con blocchi romboidi di porfido e al centro vi giganteggia una fontana di cristallo che ha forma d’albero. Dai suoi quattro rami nodosi ma privi di chioma, zampilla un liquido dalle particolarità singolarissime: ogni getto ha un differente colore e diversa consistenza, cosicché nella vasca circolare i fluidi non si mescolano ma si separano in quattro vene di cui la rossa è vicina alla gialla, la gialla alla bianca e la bianca lambisce la nera, in una gradazione crescente di tonalità e densità. Sotto il portico la bellezza delle forme lascia il posto ai canoni che i costruttori adottano per esaltare la funzionalità di certi locali. Difatti grossi portoni socchiusi lasciano intravedere gli interni spaziosi di uffici in cui si muovono sollecitamente gli Impiegati del Tribunale. Della Sala delle Udienze quello che colpisce è la mole ma non da meno, per dimensioni e ricercatezza dei particolari, è il corridoio che ad essa conduce. Infatti il porticato rettangolare spezza la linearità della ridda di porte che si allineano lungo il suo periplo, nel lato diametralmente opposto a quello di ingresso, in un loggiato dalla bocca maestosa che si incunea verso l’interno, innalzandosi con teorie di altissime colonne binate per tutta l’altezza dei due piani dell’edificio. Su tutto giganteggia un’Aquila Aureolata simbolo della Giustizia ultraterrena che in questo luogo si afferma.”

   Una lama di luce penetra dalla finestra. Apro le imposte e mi affaccio: si è fatta mattina. Lungo la banchina il mare è divenuto calmissimo e l’aria è rimasta così perfettamente distillata dalla recente bufera da accorciare le distanze e fare di ogni particolare nettissimo rilievo. Rabbrividendo rientro e riprendo la lettura del verbale. Così scrive l’incaricato:

   “…Rivivo l’emozione che mi colse quando entrai la prima volta nella sala delle udienze. Lo scalpiccio dei commessi che allineavano gli scranni curuli lungo un tavolone semicircolare si dilatava salendo le pareti disposte a pianta ortogonale e rimbalzava sul timpano di cristallo della grande cupola azzurra. Gli architetti, lo venni a sapere poi, avevano studiato lungamente il modo di valorizzare la sonorità della sala, riuscendo non solo a trasformare con giochi di volumi e proporzioni ogni suono di timbro basso e sordo nel corrispondente sonoro alto ed acuto, ma erano stati capaci di mantenere all’unisono, distinte e chiare fino a otto voci (otto sono i Magistrati che compongono il Collegio Giudicante).

   Lo squillo del telefono rompe il silenzio. Mi chiamano dal laboratorio. Non sono andata al lavoro ma le ramanzine sono l’ultimo dei miei pensieri. Da quando ho costruito la chiocciola resta poco della mia vita: ricordi come fotogrammi che invertono il meccanismo delle polaroid e scompongono la nitidezza di facce e cose in una nebulosa grigiastra, indecifrabile. Mi accorgo di rimpiangere i momenti buoni della mia esistenza che tentava morbidamente i sensi affranti, quando andavo al sole delle scogliere senza meta né urgenza, al ritorno una poltrona soffice e la mia gatta da coccolare. E senza pensare rientro nel guscio …

 

Mi ritrovai così nella stanza dagli alti soffitti. La porta a vetri era aperta. Quando entrò il Segretario agli Affari Speciali mi irrigidii.

   «È pronta?»

   «Non ho finito di leggere il verbale.»

   «Le farò il resoconto per strada.»

Guadagnò il corridoio con me al fianco.

   «Allora: il ragazzo si chiama Alfredo e, tradotto nel nostro Tribunale per il Giudizio Finale, viene accusato della morte di entrambi i genitori. Durante la lettura della sentenza di condanna riesce a fuggire. Ed ora noi siamo qui, in caccia.»

   Uscimmo dal Tribunale ed imboccammo una via chiusa tra case basse con tetti a padiglione. Svoltammo dopo una fontanella, scendemmo qualche scalino e ci fermammo davanti al portone di una costruzione squadrata che pareva la tuga di una nave. Dalle finestre si poteva vedere una quadreria niente male. Il Segretario la indicò con un cenno del capo.

   «Questa è casa mia.» disse «Salgo a prendere delle cose».

   Passarono pochi minuti e quando tornò notai con sorpresa la trasformazione stilistica: al posto della tunica rossa di fustagno indossava una camicia color panna e pantaloni bianchi. Al collo portava un fazzoletto di seta azzurra e nel portamento ostentava una gagliardia contagiosa. Stavo per domandargli la ragione del cambio quando uno sferragliamento assordante mi costrinse ad una veronica da ginnasta. Quello che parcheggiò a pochi passi da noi era un calesse con un tiro a due. Il suo auriga ci fece segno di salire. Guardai il Segretario che lanciò le sue cose sul sedile e montò sedendosi vicino al singolare vetturino. Poi allungò la mano e mi tirò vicino a sé sollevandomi da terra. Non feci in tempo a trovare un appiglio che il calesse si fiondò dentro una viuzza stretta, i cavalli al galoppo, l’assale che scaricava le asperità dell’acciottolato a mo’ di calci nel mio culo. Avrei voluto parlare ma lo impedirono la velocità ed il fracasso che rimbombava sulle facciate delle case. Improvvisamente la strada si slargò in un piazzale aperto. I cavalli rallentarono e lo sfondo trasfigurò in uno scenario degno dei migliori paesaggi di Bruegel il Vecchio: davanti era una baia abbracciata da una cinta di colline, in fondo lo stretto sbocco a mare, in basso il porto e, nella sua parte più interna e defilata, la darsena con qualche naviglio in disarmo e poche figure indistinte che scivolavano lungo le murate e sopra i ponti. Ma quello che mi colpì fu il profilo di un veliero in lontananza che filava a vele spiegate su di un mare argenteo. Anche i miei compagni l’avevano notato mentre prendemmo a scendere lungo la strada che si snodava tra boschetti e rare costruzioni. Poco dopo ci fermammo vicino ad alcune grosse casse di legno. Il Segretario agli affari speciali balzò a terra ed agguantò le sue cose. L’uomo che ci aveva guidato fin lì fece lo stesso. Gentilmente mi porse la mano dopo avere legato la cavezza della pariglia ad una bitta. Notai che portava un bastone da passeggio con il pomo dorato. Non era alto e indossava una tunica a righe. Accettai l’aiuto e lo fissai in volto incrociando due occhi profondi.

   «Grazie» risposi.

   «Ah…non vi ho ancora presentati: questo è Vero, l’uomo che ha redatto il verbale. Ci accompagnerà nella battuta di caccia», mi disse il Segretario.

   «Piacere» feci.

   «Mio» rispose lui, con voce profonda. Pensai che Vero era un uomo fuori dal comune, dalle spalle non enormi ma forti e raffinato nei modi. Così stavo ragionando quando il bigo di una gigantesca gru di legno sollevò una cassa impilata su altre, scoprendo alla vista una porzione di cielo ed una coffa che beccheggiava al vento. Mi spostai di qualche passo e raggiunsi il Segretario che sembrava in preda ad una visione celestiale. In mezzo all’insenatura, ancorato alla fonda, faceva bella mostra di sé un trealberi con le fiancate nere attraversate da una sottile striscia bianca. Gli alberi di gabbia, le teste di moro, la ringhiera del coronamento e gli stessi bozzelli erano dipinti d’oro. Meravigliava il barbaglio delle sue cromature di ottone, il brulichio operoso dell’equipaggio che si muoveva in coperta e lo sciamare dei marinai che si arrampicavano sulle sartie e sui marciapiedi.

La Calypso.

   «La Calypso» sussurrò il Segretario con l’inflessione ed il trasporto dell’innamorato che pronuncia il nome dell’amata. «Goletta a palo di milletrecentoquaranta quattro tonnellate di stazza, 71 metri di lunghezza fuori tutto, oltre 10,5 metri di larghezza, tre alberi più il bompresso tutti a vele auriche, più qualche vela quadra al trinchetto per una superficie velica di millecento metri quadri. L’altezza degli alberi sul livello del mare è di 36 metri per il trinchetto, 35 per la maestra e 31 per la mezzana. Ma la guardi! Che linea..!»

   Mi voltai, fissai Vero e vidi che approvava sbracciandosi verso una lancia a remi che si staccava dal veliero e ci puntava. Pensai, per un attimo, alla potenza evocativa della mia lumaca, al suo guscio che trasformava la mia vita in episodi da film d’avventura ed alle fitte di nostalgia che si insinuavano nello scorrere della pellicola.

   «Allora? Si decide a salire?»

   Non mi ero accorta che il Segretario e Vero erano già trasbordati sulla lancia. Feci per rispondere ma mi sentii mancare…

 

Il nonno ha voluto la nostra casa tra la scogliera e la collina, in un tratto in cui il terreno si apre in una dolce insellatura simile al palmo di una mano: al posto delle dita ci sono pini, lecci, limoni, fichi d’india e agavi. Ha fatto costruire poi, tutto intorno, una cinta di muri a secco con sopra creste di rosmarino e timo per contrastare la naturale spinta a mare del monte e la sua incontinenza fatta di rivoli e torrentelli di pietrisco franoso e fangoso che si gonfiano con forza di risucchio, durante le piogge invernali o i temporali estivi. Appositi buchi, distribuiti nei muri con arte ereditata dai vecchi, sgonfiano questi verdi catini naturali, spillando la forza propulsiva del limaccio tra le scogliere che ne fanno da impervi scivoli verso il mare. Con la casa che dà le spalle al monte e la fronte al mare, ed il largo semicerchio di alte mura che l’abbraccia, la costruzione pare la sormonta di un anfiteatro greco. Se si considera che il terreno scende a sbalzi terrazzati come gradoni, di semicircolo in semicircolo, a loro volta contenuti dentro mura fino ad una arena centrale, la somiglianza con un teatro antico è davvero verosimile. La ragione la porta con sé la forza del vento che arriva da lontano in volo rasente il mare, come snorkel di innumerevoli e invisibili sommergibili, e schiaffeggia ogni giorno la costa e pettina la macchia mediterranea quando non la sradica nei momenti di rabbia dirompente. Per questo il nonno ha realizzato una sorta di grossa dolina artificiale, dentro cui proteggere le sue verdure affidate alle mani esperte di un mezzadro siciliano che l’ha invasa di graste di salvia e di peperoncini rosso fuoco. Quanto è dolce ed inebriante lasciarsi andare in questa graticola affocata, tra l’ascesa di ondeggianti spiritelli di calura e mutui scambi di umori ed energia. Proprio qui mi ritrovo, proiettata dalla banchina di un porto di un mondo sconosciuto, sdraiata al centro della mia terra, in uno splendido giorno di sole. Confusa ma felice, mi alzo e guardo dal basso la casa dove sono nata, solenne nel suo spugnato rosso, con le tegole di lavagna ed il portico sorretto da archi in pietra. In alto, nuvolette bianchissime, come fiori di ricotta, sfiorano accodate il crinale delle colline. Dall’altra parte, il rettifilo dell’orizzonte è un rigo d’ametista che incerniera il cielo al mare. Fortunatamente, penso, la mia strampalata avventura ha declinato al normale: nuovamente libera, al sicuro, lontana da assurde e terribili minacce, sono in mezzo a ciò che amo e vicino alle mie adorate piante grasse che, come soldati attruppati in un esercito granguignolesco, mi guardano dalla notevole balconata di sasso e di terra che ho di fronte. Fin da bambina le ho amate per il contrasto netto tra la delicatezza dell’infiorescenza e la prolusione di doppi menti e di pance spinose e pelose. Questa singolare doppiezza che sa di morale antica, le condanna a subire l’attentato di brutte e intoccabili maschere ricompensandole con la pietà cosmetica di belletti straordinari. Ma quanto costa questa infiorata. Buona parte dello sforzo idraulico di raccolta dell’acqua, centellinata tra l’arsura della sabbia e dei sassi, e tutto lo sgraziato adattamento dei corpi che si fanno a fisarmonica o globulari o sferici o prostrati e chissà cosa altro ancora, si dissipa in questo cimento che è di generoso impulso all’impollinazione, alla propagazione della specie. Cimento che alcune, come l’Agave, pagano con la propria consunzione e morte. Così stanno le cose. Altro che sfilate di vanità botanica di orecchini e corone ingemmate meglio che con granati multicolori! È amore incondizionato! C’è poi un altro aspetto che me le avvicina ancora di più e me le fa ricercare pure nei miei frequenti viaggi, dai quali torno spesso con buoni bottini. È raro, ma succede, che talune piante grasse presentino delle forme raccapriccianti, delle vere e proprie anomalie morfologiche, conosciute con il nome di mostruosità. In altre parole, il fusto comincia a produrre nuova vegetazione in maniera irregolare e disordinata, contorta e protuberata. Una bruttura all’ennesima potenza, insomma. La cosa singolare è che non c’è nulla di patologico in questo. La pianta non deperisce e lo schiribizzo neppure. Anzi, entrambe cospirano una singolare e morbosa fascinazione per i deliziati collezionisti. Comunque, tornerò a loro in seguito, perché è venuto il momento di riacquistare il possesso della mia casa, che raggiungo velocemente, salendo la precinzione. Quando apro il portone, un brivido freddo mi accappona la pelle. Una corrente d’aria mi investe come a tradimento, ma l’effetto è benefico: mi scuote e scaccia il sapore di tossico esalato con le mie fantasie. Sulle pareti del lungo corridoio mi guardano, dai vecchi dagherrotipi in bianco e nero fino alle pellicole a colori, i volti dei miei familiari che non sono più. Qualcuno diceva che i ricordi sono una metafora del sogno. Nel mio caso la solitudine li trasforma in un archetipo dell’incubo. Meno male che c’è Luna Piena, la mia gattona grigia, che mi accoglie, dopo una prudente esitazione che l’ha paralizzata sulla soglia della sala, con i soliti strusciamenti, il sedere alzato e la coda a punto interrogativo. Mi inginocchio e la prendo tra le braccia. Luna Piena mette il ron ron delle fusa tra me ed il suo muso, insieme alla lingua rosa che, ruvida com’è, ha l’effetto di un peeling sul mio naso. Improvvisamente si ferma e mi guarda: occhi da serpente, incredibili ed inusuali perché etero-cromici, due ogive nere, una su fondo giallo striato e l’altra su campo azzurro cielo, si dilatano nella messa a fuoco di qualcosa che nella sua testa felina assume valenza di pericolo. E le zampette, fino allora cuscinetti vellutati sulle mie spalle, si armano di affilati artigli. Avverto anch’io, in ritardo rispetto all’animale, l’imminenza di una minaccia, lo scatenarsi di una tragedia e l’atavico terrore di chi sente troppo vicino il fiato pestilenziale e caldo di qualche mostro primitivo. Mi volto, rapida, e la gatta si getta a terra e inarca la schiena, drizza il pelo, soffia e scappa, sprofondando nell’oscurità della cucina. Io non fuggo. Alle mie spalle, tutto è assolutamente normale: dal portone aperto, un fascio di luce cangia la seta del vecchio tappeto di Kashan che si allunga dallo stipite, risalendo di qualche metro l’ingresso. Chiudo il portone e sono avvolta dalla penombra. Tuttavia la sensazione di disagio resta. Con i piedi, sfioro il medaglione centrale del tappeto che raffigura, in un rilievo di fili d’oro, il Simurg, l’uccello che, nella cultura mitologica persiana, è mezzo drago e mezzo cane. Nell’attraversarlo il piede destro mi rimane come impigliato, abbrancato all’ordito del tessuto. Provo il dolore fisico della preda imprigionata nella tagliola, ma è roba di un attimo.

   Con uno strappo mi libero e corro fuori casa, sotto il sole della canicola, dove vampate di calore mi annullano in un lampo da cortocircuito …

   «Voi a babordo! Sollevate la fascia e attenzione all’imbando delle bugne, non lasciatelo penzolare a poppa e tu, timoniere, tieni la nave stretta di bolina!» Le grida mi raggiunsero in una cabina sconosciuta attraverso un pannello dell’osteriggio aperto. Oltre alle voci di manovra sentii il cigolio del frenello del timone che scorreva qualche ponte sotto il tavolato: eravamo in navigazione. E di nuovo in un altro mondo. Ancora stordita mi sollevai dalla cuccetta e uscii. Sul casseretto trovai il Segretario, Vero ed un uomo con un tricorno sul capo. Erano appoggiati alla battagliola.

   «Buongiorno!» mi disse Vero. Salutai mentre gli altri compagni si voltarono e con gesto cortese si aprirono a ventaglio per coinvolgermi nella chiacchierata. Intanto gli occhi andarono ad ogni vela spiegata, alle tante nuvole di velacci e velaccini, controvelacci e coltellacci tesati sopra ed intorno a me. Lontano il profilo della riva era ridotto a tenue sfumato.

   «Salve Miss Luna! Mi chiamo Blackwood e questa è la mia nave».

   Così si presentò il capitano regalandomi un inchino.

   «Bene! Riassumiamo per lei, Luna» disse il Segretario. «Dunque: Alfredo fugge dal Tribunale, attraversa la Città degli Uffici e arriva al porto. Pensiamo che lì si sia imbarcato su uno sloop che è salpato poco dopo. Lo sloop è l’Agostino e noi lo stiamo inseguendo. Purtroppo ci stiamo infilando dentro una tempesta.»

   Era vero: nuvole scure gonfiavano sopra di noi e la distesa d’acqua spingeva onde cattive contro i fianchi della Calypso. Il capitano Blackwood cominciò a spazzare il ponte con raffiche d’ordini e l’equipaggio si distribuì sulle griselle a rinforzare la velatura. Scesi in cabina e mi addormentai. Durante la notte successe il finimondo: grida lampi urla tuoni fracassi di fasciame spezzato poi la Calypso si arenò sulla scogliera di un’isola spaventosamente nera. Non so in che modo ma mi trovai tra le braccia di Vero. Insieme al Segretario aveva guadagnato la riva e correva inseguito da spruzzi di cenerata mista a schegge di legno. Ci fermammo dopo un centinaio di metri dietro una montagnola di sabbia che avevamo superato. Vero mi calò a terra. Poverino: ansimava come un mantice.

   «Dov’è il resto dell’equipaggio? E Blackwood?» chiesi. Nessuno dei due rispose mentre la luce del nuovo giorno indorava il paesaggio.

   «Che facciamo?» domandai.

   «Dobbiamo continuare la ricerca del fuggitivo!» rispose il Segretario.

   «Ma che cosa le fa pensare che sia qui? Forse ha evitato la tempesta ed ora naviga al sicuro da qualche parte.»

   «Impossibile» si intromise Vero, «abbiamo visto lo scafo della Agostino schiantato sulla scogliera. Non abbiamo scelta: andiamo avanti.»

   Detto questo s’incamminò per primo. Noi ci accodammo. La stradicciola che iniziammo a salire era tortuosa, umida, stretta tra alte mura e mano a mano che l’albeggiamento acquistava vigore fumeggiava il buio di queste mura nel contrasto cromatico tra la polvere d’oro del primo mattino, che si immaginava diffondersi oltre le sue orlature, ed i filamenti fatui e rugginosi dei cascami della sua vegetazione. In preda ad un crescente malessere, passo dopo passo, arrancammo silenziosi parlottando tra noi. Poi ci fermammo trattenendo il respiro immobili e basiti, ai piedi di una costruzione terrificante. Dall’interno arrivavano strani suoni, profondi e cupi come gagnolamenti di cani che accapponavano la pelle. In bocca montava un sapore amaro e allegante di cachi acerbi. Ci trovavamo ai piedi di una muraglia gigantesca, imponente nella sua verticalità di sassi a picco, da cui sbalzavano alcune bestie scolpite con tanta perizia da sembrare vere, dalle dimensioni di colline e dall’aspetto dei peggiori incubi. La più notevole per grandezza e per forma aveva ali di pipistrello infisse nella schiena deforme e membrane corte, larghe e tese tra lunghe dita coperte da una folta peluria. Non meno raccapricciante era il muso taurino, allungato fino all’apice nasale dove si aprivano due orifizi inanellati da cerchi; la bocca era semiaperta e la lingua lunga si sporgeva minacciosamente tra denti acuminati. Una porta ciclopica di fronte a noi aveva i battenti spalancati e due statue di fattezze sublimi completavano la maestosità dell’insieme. Esse riproducevano una copia di Angeli con le ginocchia piegate che tiravano, ciascuno verso di sé, una catena di bronzo dagli anelli grossi come le ali che avevano aperte. Stavo per scappare da quella aberrazione quando un grido altissimo mi gelò il sangue e paralizzò le gambe.

   «Avete sentito?» balbettò il Segretario.

   «E come no!» rispose Vero. Di nuovo un grido umano, un latrato di bestia seguito dallo schiocco di rami spezzati (o di ossa), da dentro il luogo infernale salì in alto e si ripiegò su di noi per arrivarci come eco abominevole, un alalà di guerra, un guanto di sfida, ad abbaruffare quel poco di ragione che ci restava.

   «Chi sarà stato?» domandai con gli occhi sbarrati.

   «Probabilmente Alfredo» rispose il Segretario.

   «Cosa può essere successo?» aggiunse Vero. Nessuno parlò. Ma cavolo! Pensai. Che ci facevo io lì, in mezzo a tutto quel casino. Dove sono le strade del mio paese fuse nel sole o nascoste nell’ombra, i limoni, le imposte azzurre delle finestre macchiate di sale, i bambini tutti mare e occhi, la spiaggia dal nome amico e dalla sabbia che scorre lenta e delicata tra le dita. Intanto passammo dalla luce alla penombra, da un odore di muffa a quello di fiori marci che fa tanto latomia e sepolcri. Manco ce ne fosse stato bisogno, a petto di una atmosfera cupa e deprimente, facevo accostamenti visivi ed olfattivi che sapevano di zolfo e di tregenda. Notai, sorpresa, di essere avvolta da una fluorescenza innaturale che permetteva di lumare lontano. Straordinariamente la vedevo condensarsi, a momenti, in solidi geometrici mentre penetravamo sempre più in quel delirio. Poi accadde l’inenarrabile. Paura, orrore o terrore? Che termine posso usare per dare la giusta misura all’aberrazione che ispirò la cosa quando la vedemmo fare capolino tra le ombre? A quale errore della genetica poteva essere comparata quell’agonia dei sensi? L’entità che vidi era davanti a noi, eretta sulle zampe posteriori, mentre penzolavano un poco sporti in avanti i rattrappiti arti anteriori nella postura dei primitivi dinosauri. La testa era di drago, la lingua biforcuta vibrava e dal naso l’emissione di nuvolette di fumo si accompagnava a odori disgustosi e a terribili sbruffi. La coda, lunga e in continuo movimento, sbatteva di qua e di là scatenando impressionanti scosse sismiche. A questa vista ci mettemmo forsennatamente a correre: io venni immediatamente distaccata dai miei compagni che partirono a razzo involandosi chissà dove e rimasi sola con il mostro che mi tampinava stretta. Sentivo le forze allo stremo, il cuore in gola … poi … una zampata terribile mi gettò a terra. Stravolta da un dolore lancinante al torace mi misi a piangere come una bambina portando di istinto le mani alla testa.

   In questo movimento un cono di luce mi avvolge caldo e qualcuno grida il mio nome e mi strattona: senza lasciarmi il tempo di capire, una puntura ad un braccio polverizza il mio essere in un mondo di pace……

   

   5 aprile 2011

   La paziente Luna Rxxx è stata ricoverata il 20 marzo, già sedata, in preda a forti stati di allucinazione e intensi dolori al costato. 

   Dopo la somministrazione di un calmante è stata visitata e sottoposta ad esami del sangue, delle urine e radiografici. 

   La visita ha evidenziato, in particolare, la tumefazione della regione latero-cervicale sinistra con escoriazioni seriate, prevalentemente trasversali, dovute ad una caduta che la paziente non è stata in grado di ricordare.

   Attacchi di nausea e vomito, un significativo stato confusionale, pupille dilatate, diaforesi e piloerezione, brividi, tremori, debolezza, ipertono muscolare e iperreflessia completavano il quadro clinico.

   L’esame radiografico ha evidenziato la frattura composta della VII e VIII costola di destra lungo la linea ascellare posteriore.

   L’esame del sangue e delle urine ha rilevato la presenza, in quantità massicce, di mescalina. La paziente, dopo idonea fasciatura, è stata ricoverata nella nostra Clinica. Attualmente, a distanza di poco più di due settimane dalla diagnosi, registriamo netti miglioramenti fisici e psichici e prevediamo di dimetterla intorno alla fine di aprile, salvo complicazioni. Mi assumo interamente la responsabilità della sua completa disintossicazione.

Professore Mario De Rosa

 

Sono davvero arrabbiata perché i Carabinieri hanno trattenuto il mio diario e così sono costretta a scrivere sul retro di questo foglio lasciato, per sbaglio, sul mio letto. La Clinica dove mi trovo è stata fondata, parecchi anni fa, dal professor De Rosa, dal nonno e dal papà. Per questo si chiama “Rosa Dei Venti-Tre”. Oggi papà e il nonno non sono più e la Clinica mi appartiene per due terzi anche se De Rosa, ogni tanto, mi tratta come una sua nipote o come una sua dipendente (sono a capo del laboratorio di analisi). Probabilmente devo la vita allo “zio”. È stato lui a venire con l’ambulanza il mattino del secondo giorno che non mi ha visto al lavoro: ero appena caduta dalla rampa delle scale che porta alla mia camera. Mi vergogno davvero per quello che ho combinato. Ho raccolto un peyote durante un viaggio in Messico e l’ho portato in Italia. Il peyote è una pianta grassa (le piante grasse sono la mia passione) e non mi è stato difficile coltivarla nel terreno che circonda la mia casa. Conoscevo la tecnica per estrarne la mescalina e le sue proprietà allucinogene (o almeno così credevo). Nello stesso periodo, purtroppo, mi sentivo profondamente sola e malinconica. Per questa ragione ho iniziato il mio viaggio psichedelico. Dopo la prima assunzione, per chissà quale contorta associazione di idee, ho immaginato di costruire un guscio di lumaca, una specie di varco aperto verso un’altra dimensione. Da quel momento ho creduto di vivere dentro un incubo. Il Maresciallo che mi ha interrogata ha detto che ho descritto tutto nel mio diario.

Il Professore De Rosa ha chiarito la mia posizione e si è fatto garante della mia buona condotta e non voglio deluderlo. Certi errori si fanno una volta sola, soprattutto ora che ho conosciuto un uomo, un antropologo, figlio della mia vicina di stanza. Abbiamo iniziato da un caffè e come si dice in questi casi… “se son rose fioriranno”…  anche alla luce della luna.

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