Non avete mai sentito parlare di quell’uomo pazzo che…

Diogene con lanterna – Mattia Preti, XVII sec.

NIETZSCHE – L’UOMO PAZZO


Non avete mai sentito parlare di quell’uomo pazzo che, in pieno mezzogiorno, accese una lanterna, corse al mercato e incominciò a gridare senza sosta: «Sto cercando Dio! Sto cercando Dio!»? E poiché, tra la gente che era radunata colà, ve n’erano parecchi che non credevano in Dio, il pazzo suscitò grande ilarità. «Si è forse sperduto?», disse uno. «Sperduto come un bambino?», fece un altro. «O forse sta giocando a nascondino?». «Non avrà mica paura di noi?». «Si è imbarcato?». «O ha preso il volo?». Così tra di loro gridavano e ridacchiavano, in gran confusione.

Allora l’uomo pazzo balzò in mezzo a loro e li trapassò col suo sguardo: «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire io! Siamo stati noi che lo abbiamo ucciso. Voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo potuto fare questo? Come abbiamo potuto prosciugare il mare fino all’ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Cosa abbiamo mai fatto spezzando la catena che univa questa terra al suo sole? Dov’è che adesso va, questa terra? E dov’è che stiamo andando noi, adesso? Via da tutti i soli? Non stiamo forse precipitando senza fine, avanti e indietro, di lato e da tutte le parti? Esiste ancora forse un sopra e un sotto? Non stiamo forse vagando per un nulla infinito? Non incombe su di noi lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo dunque accendere le lanterne in pieno mezzogiorno? Non sentiamo più il chiasso che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio? Non fiutiamo il lezzo della sua divina putrefazione? Ahimè, anche gli dèi marciscono! Dio è morto! Dio resterà morto! E siamo noi i suoi assassini! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente possedeva il mondo fino ad oggi, ha versato il suo sangue sotto i nostri coltelli! Chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo purificarci? Quali espiazioni, quali giochi sacri dovremo noi inventarci? La gravità di questo nostro atto non è forse troppo pesante per noi? Non dovremo diventare forse noi stessi degli dèi, solo per sembrarne degni? Non fu mai compiuto un atto più grave di questo: tutti coloro che verranno dopo di noi, a causa di quest’atto apparterranno a un’altra storia! A una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!».

Diogene con la lanterna. Pietro Paolo Rubens (1577-1640)

A questo punto il pazzo tacque, e tornò a puntare lo sguardo sui suoi uditori. Anch’essi tacevano, e lo guardavano impauriti. Alla fine, il pazzo gettò a terra la sua lanterna, che si spense frantumandosi in mille pezzi. «Precedo di molto i tempi – disse. – Il mio tempo non è ancora venuto. Questo immenso avvenimento è ancora per strada e sta imboccando il suo cammino. Non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Il tuono e il lampo necessitano del tempo, la luce delle stelle necessita del tempo, e anche le azioni, sebbene già compiute, necessitano del tempo per essere viste e udite. Questa azione è, per tutti costoro, molto più lontana delle più lontane costellazioni: eppure sono essi che l’hanno compiuta!».

Si racconta ancora che quell’uomo pazzo abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo requiem aeternam deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si limitasse a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che ancora sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».

(Nietzsche, La gaia scienza, 3: 125)

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Diogene alla ricerca di un uomo onesto (1780 circa) attribuito a JHW Tischbein

Nietzsche è profondamente stanco di tutte le storie intorno alla morte del padre, della morte di Dio, e vuol porre fine agli interminabili discorsi su questo, discorsi già di moda al suo tempo hegeliano. Ahimé, s’ingannava, i discorsi sono continuati. Ma Nietzsche voleva che si passasse finalmente alle cose serie. Della morte di Dio, dà dodici o tredici versioni, per fare un buon peso e non se parli più, per rendere l’avvenimento comico. E spiega che questo avvenimento non ha rigorosamente alcuna importanza, che non interessa veramente che l’ultimo papa: Dio morto o no, il padre morto o no, fa lo stesso poiché la stessa repressione e la stessa rimozione proseguono, qui in nome di Dio o di un padre vivo, là in nome dell’uomo o del padre morto interiorizzato. Nietzsche dice che l’importante non è la notizia che Dio è morto, ma il tempo che impiega a recare i suoi frutti.

Joan Miro Surrealismo

Qui lo psicanalista drizza l’orecchio, crede di raccapezzarsi: è noto che l’inconscio impiega del tempo a digerire una notizia, si possono anche citare alcuni testi di Freud sull’inconscio che ignora il tempo, e che conserva i suoi oggetti come un sepolcro egizio. Solo, Nietzsche non vuol dire affatto che la morte di Dio ci mette un bel po’ a farsi strada nell’inconscio. Vuol dire invece che a metterci così tanto tempo per giungere alla coscienza, è la notizia che la morte di Dio non ha alcuna importanza per l’inconscio.

I frutti della notizia, non sono le conseguenze della morte di Dio, ma l’altra notizia che la morte di Dio non ha alcuna conseguenza. In altri termini: che Dio, che il padre non sono mai esistiti per l’inconscio (o forse allora, tanto tempo fa, durante il paleolitico …). Non si è ucciso che un morto, da sempre. I frutti della notizia della morte di Dio sopprimono tanto il fiore della morte quanto il germoglio della vita. Poiché, vivo o morto, è solo una questione di credenza, e dall’elemento della credenza non si esce. L’annuncio del padre morto costituisce un’ultima credenza, «la credenza nella virtù della miscredenza» di cui Nietzsche dice: «Questa violenza manifesta sempre il bisogno di una credenza, d’un sostegno, di una struttura …», Edipo-struttura.

(Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo)

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Mortalis No. 17 è un dipinto di Mark M Mellon

Credendo e non credendo … dice Mastro Dante. È una questione di credenza: che sia Dio o il Padre, che sia vivo o già morto, è soltanto di un «nome», sia pure di lode o di venerazione, che si tratta. Credendo e non credendo a ciò che si è sognato, quello che si può scrivere è solo un rigo del libro dei sogni. Quello che si può dire o raccontare a occhi aperti è soltanto il nome di un sogno – il nome dato (non dormendo) a qualcosa di inconscio, di oscuro, di ignoto. Ma non è l’inconscio. No, non è l’inconscio a nominare il sogno che «produce». È la coscienza (più o meno desta) di chi ci crede. L’inconscio, casomai, dei nomi creduti fa ciò che gli pare e piace, e per giunta, in incognito – alla luce nera della sua sregolatezza.

È la coscienza che si nutre di credenza, è essa a «nominare» i sogni, è essa nominandoli a dare ai sogni una Regola. Ma fin dove la Regola può mettere fuorigioco l’Arbitrio dell’inconscio? – questa è la domanda. Fino a che punto la Grammatica ha licenza d’imporre il suo regime all’insopprimibile incoscienza infantile d’un sogno, fin dove la Legge Sacra ha diritto ad anestetizzarla nel nome d’un «dio già morto», o la Morale d’incolparla dell’«assassinio di un padre» che essa neanche sa di avere?

Giorgio de Chirico (1888 – 1978) interno metafisico con officina

Che sia Dio o il Padre, è solo di un «nome» che si sta disputando – solo di un artificio a cui ciascuno affida o nega la veracità della sua «credenza». Cos’è il nome, se non un segno, una memoria dell’Assente? E su cosa può mai fondare la sua ragion d’essere, se non sul credito che gli attribuiamo, d’essere bastevole a richiamarlo in presenza, fino a risuscitarlo magari dal regno dei morti?

Ma resta che il nome del sogno non è il sogno – che il nome di dio non è Dio, e che il nome del Padre non è il padre di nessun Edipo. E se pure c’è sempre stato, e sempre ci sarà tra di noi, dentro di noi, un Edipo selvaggio, un infante fuorilegge, è questa forse la ragion sufficiente per ridurlo a un’eccezione analfabeta buona solo a confermare la necessità della Regola?

L’inconscio, mi pare d’averlo già letto da qualche parte, non pratica che «intendere e volere». L’inconscio non ricorda, non nomina. I nomi che rapisce alla coscienza l’inconscio li storpia, il sogno li deforma, il desiderio ci gioca e così li costringe a vomitare ciò che hanno troppo sbrigativamente creduto di «digerire». Tocca dunque alla credenza, tocca alla coscienza darsi tempo, prendere tempo e provare a intendere meglio le volontà dell’inconscio.

Angeli inconsci ci abitano, Angeli a noi più intimi di ogni credenza, Angeli senza dio, Angeli senza padre, Angeli senza nome, Angeli senza memoria e senza coscienza, Angeli estranei a qualsiasi storia. E, perciò, Angeli talmente frivoli da «intendere e volere» solo il Presente. Angeli senza Passato, e dunque senza lutti da piangere o rimpiangere, ma anche Angeli senza Futuro, e quindi senza speranze di nessuna Terra Promessa, di nessun Paradiso a cui rinviare la gaudente contemplazione del Volto a cui mai si assentano. Angeli che a occhi aperti si possono solo sognare.

Henry Fuseli – Il sogno del pastore – 1789 – Tate Gallery, Londra

Ma chi, avendoli sognati, poi li nomina dovrebbe astenersi dalla pretesa di «dicere il vero», perché egli non nomina che la schiuma dell’ignoto. E in tanto la nomina, in quanto la fonda su una credenza che a sua volta si fonda, è proprio il caso di dirlo, sulla proboscide di un elefante: ovvero, sulla miscredenza nell’indifferenza dell’inconscio a ogni ortodossia o verità delle parole, a ogni arte mestiere o professione, a ogni scuola di pensiero, a ogni libro – compreso il tuo libro dei sogni.

Comprendi, poeta? Una volta che li nomini, i tuoi Angeli non volgono più lo sguardo all’altro polo, non più all’abbagliante teofania del Volto dell’inconscio, ma guardano ora a questo, ora a quell’altro «oggetto» illuminato dalla luce del sole di mezzogiorno. Comprendi la prova a cui sei chiamato? che vale la pena di darsi alla poesia, ma solo per andare al di là di essa? che è il caso di scrivere la tua opera solo per riconquistare l’assenza dell’opera?

Dicono che è una pazzia. Sì, gli scolastici dicono proprio così – che è una follia anche solo pensarla, l’assenza dell’opera. Ma tu perdona loro, perché essi non sanno che è una pazziella, che è un avvenimento comico, che è una Commedia, appunto, questa dell’assenza di dio, dell’assenza di libro, dell’assenza di poesia, che tu ti accingi a recitare alla fine del tuo viaggio. Essi non hanno la più pallida idea del vuoto che si spalanca sotto il nome di dio, quando è l’inconscio a farne un suo giocattolo.

Ormai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua alla mammella.
(Dante, Paradiso, 33: 106-108)

L’inconscio balbetta i nomi che «intende e vuole» secondo il gusto e per il solo piacere della sua pazziella. L’inconscio non parla altra lingua. Ma allora dov’è il confine? dove il limite, quando non è più alla voce morte di dio, non più a quella del padre assassinato, ma alla viva voce d’un poppante ignaro di queste «tragedie» che il Poeta affida i «frutti della notizia»?

Bernardo di Chiaravalle nella Divina Commedia

San Bernardo ha pregato la Madonna. Le ha chiesto di concedere al viandante la visione del Volto. Ma, ecco, quando infine il sipario si apre … se non hai bisogno né del Tedesco né del Francese, puoi vedere coi tuoi occhi che non c’è nessuna tragedia da recitare, nessun «uomo pazzo» a cui delegare l’accensione d’una lanterna. Puoi vederlo da te: proprio quando s’alza il sipario, dio non c’è, il Volto non si vede. Ovunque, sulla Scena rapita all’inconscio si respira soltanto una gaia assenza di dio: là dove si aspettava di vederlo, proprio là, a sipario aperto, la Scena, dice il Poeta:

mi parve pinta della nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
(Dante, Paradiso, 33: 131-132)

Proprio là, al posto di dio, nel vuoto divino, l’inconscio ritrova la gioia che gioisce di se stessa. Proprio lì, nell’assenza di libro, la Commedia sconfina al di là del limite della parola, fosse anche la più poetica delle lodi, la più venerabile delle venerazioni, quella di cui s’incarica. La buona «notizia», la notizia «comica», è che l’inconscio è troppo infantile per prendere sul serio «l’Arte». L’inconscio non conosce che la pazziella. Perché in principio, a dispetto di tutto ciò che scrivono gli scolastici – in principio è il Gioco. La «notizia» della morte, la brutta notizia, giunge dopo. E giunge solo agli Angeli che, distratti dal Volto, si disperdono per gli otto cieli del desiderio. Giunge solo agli Angeli tristi della nostra coscienza.

L’ARTE DEI PAZZI A PAZZI

a pazziella mman’i criature

 

 

 

 

 

 

 

 

8 novembre 2020

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