Scalfari è stato un grande del giornalismo ma fu un grandissimo come impresario

Eugenio Scalfari

NON FU UN GENIO, MA SOLO EUGENIO


La Repubblica ha celebrato con grande enfasi il centenario della nascita del suo Fondatore e Papa laico, Eugenio Scalfari.

Da quando apparve a Papa Bergoglio, Scalfari completò il suo tragitto multicolore. È stato, come lui stesso rivendicava alla fine dei suoi anni con candore leggermente spudorato, fascista e antifascista, monarchico e repubblicano, anzi fondatore de la Repubblica, liberale e socialista, radicale e comunista, dannunziano e volterriano. Però non era mai stato cattolico. Ma da quando Bergoglio si sedette alla Sua destra, Scalfari lo elesse a Suo Vicario in terra, lo ispirò e a volte gli attribuì pensieri ed eresie che appartenevano invece ai giochi teologici della Sua Mente libertina. Eugenio non è diventato credente ma si convinse che Bergoglio sia diventato un suo credente, oltre che inquilino nella sua Casa.

Scalfari è stato un grande del giornalismo ma fu un grandissimo come impresario, fondatore e direttore dei giornali. Non è stato un principe della scrittura – come per esempio i solisti Malaparte o Montanelli, ma anche la Fallaci – non è stato eccelso come politologo e profeta politico e non è stato quel colto umanista come volle infine apparire. Ma è stato un eccellente croupier di grandi firme e grandi avventure editoriali, con gran fiuto e fascino. In particolare con la Repubblica che fondò, portò a grandi vendite e persino al sorpasso del Corriere della sera. La Repubblica ha influenzato tanto la politica e cultura e ha accompagnato più di ogni altro la trasformazione della sinistra da comunista in radical, da proletaria in neoborghese, da popolare ad elitaria, da credente in supponente, da classe operaia in corpo docente, da massa in razza padrona. Scalfari, Eco & C. sono stati i battistrada di quella mutazione antropologica laicista. Portarono la sinistra da Mosca a New York, con scalo ideologico a Parigi.

Eugenio Scalfari in divisa fascista

Non tornerò sul suo fascismo giovanile, che Scalfari infine ammise senza ritrosie, anche se lo giustificò curiosamente: “tutto quel mio essere convintamente fascista ha poi reso solido il mio antifascismo”. Come dire che l’antifascismo coerente di Vittorio Foa, scontato con la galera, fosse meno solido del suo, che diventò comodamente antifascista a babbo morto, o morente. Non vi dirò della sua infanzia, dei suoi amori e della sua sbandierata bigamia, della sua ammissione di essere narciso, innamorato del suo Ego, dannunziano e dandy, della sua “albagia” come lui ama ribattezzare quel che in modo meno alato si chiama superbia o presunzione. E non tornerò sui suoi scritti su Roma fascista, poi della sua ridicola resistenza, riparato in Vaticano in attesa degli americani. Né risalirò alle sue origini calabresi, a suo padre giocatore accanito di poker e direttore del Casinò di Sanremo, o agli esordi d’Eugenio come direttore del casinò di Chianciano, del suo lavoro da bancario. Non vi racconterò di suoceri, editori e compagni di scuola e di redazione. Molti fascisti, da Nelson Page a Mario Tedeschi e Peppino Ciarrapico sfilano nella sua biografia o agiografia finale. Un tempo avrebbe fatto finta di non averli mai conosciuti.

Discutibile la sua apoteosi come Scrittore, Filosofo, Poeta e Teologo; o la prosopopea per la grottesca pubblicazione nei Meridiani, come se fosse un classico. Fu sincero quando raccontò la doppia bocciatura di Roberto Calasso alla sua proposta di pubblicare con Adelphi. Lodevoli pure alcune pagine sulla vecchiaia e sulla malinconia.

(Si ritiene che il dipinto Monsieur Louis Pascal di Henri de Toulouse-Lautrec sia stato ispirato dalla figura di Georges Duroy, protagonista del romanzo Bel Ami.

Il paragone con Indro Montanelli è l’assillo più intrigante della sua biografia di giornalista: l’occasione perduta di fare un giornale insieme, la trentennale polemica e la finale simpatia, rinata nel nome comune dell’antiberlusconismo. La sua ammirazione non parve però ricambiata: Montanelli paragonò Scalfari a Bel Ami di Maupassant, per sottolinearne il cinismo di arrivista senza scrupoli. Ed Eugenio se ne doleva. Il giornale di Scalfari vendeva molto più del Giornale di Montanelli, ma i suoi articoli non furono memorabili come quelli di Indro; Scalfari fu molto seguito ma non fu amato come lui; Scalfari fu uomo di potere, mentre Montanelli, pur senza mai contrastare davvero il potere, se ne tenne elegantemente lontano. Scalfari fece grandi profitti dai suoi giornali, Montanelli no. Di Scalfari restano i suoi prodotti, come la Repubblica, di Montanelli invece resta Montanelli, il suo stile, la sua prosa, il suo carattere. L’egoteismo di Eugenio in Indro si fa gigioneria, da pronunciare con la g fiorentina. Montanelli lo immagini tra Longanesi, Guareschi e Malaparte; Scalfari è di altra pasta.

Negli anni Novanta Scalfari mi chiamò a scrivere su la Repubblica, mi cercò il suo vice, Antonio Polito; scrissi per un annetto, credo, una volta scrissi nel paginone culturale de la Repubblica perfino di Pasolini “reazionario”; poi arrivò Ezio Mauro e interruppe bruscamente la collaborazione. Impensabile quella presenza aliena in questi anni rognosi e livorosi, ma perfino migliori degli attuali.

Ricordo con imbarazzo le sue ultime omelie domenicali, con alcuni passaggi imbarazzanti, quando mostrava di aver perso la lucidità.

Dettando la sua autobiografica con annesso panegirico, Scalfari tornò alla megalomania nel finale del suo Nuovo Testamento, quando si vede scomparire nel buio come il Gattopardo e sfumando “porta con sé la nobiltà, la saggezza, la prudenza, l’autorevolezza, il potere come visione del bene comune”. Un necro-elogio superbo, in tutti i sensi. In principio era la barba, come si addice ai padreterni, poi venne il Mondo, non solo quello di Pannunzio.

La Verità 9 aprile 2024

 

 

 

 

 

 

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