L’agosto di vent’anni fa la Lega perdeva il suo cervello più lucido e colto, il suo ideologo-fondatore

NOSTALGIA DI MIGLIO

IL PRIMO DEI SOVRANISTI

L’agosto di vent’anni fa la Lega perdeva il suo cervello più lucido e colto, il suo ideologo-fondatore, giurista e precursore del sovranismo. Gianfranco Miglio aveva qualcosa di Nosferatu, uno sguardo crudele ma non malvagio e due orecchie extraterrestri protese a captare ultrasuoni. Bossi lo mandò in orbita politica ma poi lo frenò e arrivò perfino a insultarlo, paragonandolo a una flatulenza spaziale.

Da uomo del sud, inguaribilmente italiano, romano, mediterraneo e meridionale, ho nostalgia padana di Miglio, il Miglio verde. Fu gran scienziato della politica, studioso e un po’ stregone, il più grande allievo nostrano di quel mostro di lucidità e cattiveria che fu Carl Scmhitt, da cui ereditò il cattivismo temperato e aggravato dall’estrazione cattolica di ambedue. E Schmitt, negli ultimi anni della sua vita, definì Miglio il pensatore politico più lucido d’Europa. Fu Miglio alla fine degli anni ottanta a scoprire come Cristoforo Colombo, la Padania in un viaggio da casa a casa, da Como a Como, intorno al suo giardino. Ci arrivò tramite il federalismo, la secessione, le macroregioni: le sue tre caravelle. Si spinse fino alla confederazione italiana.

Ma vorrei ricordare due tre cose di lui di qualche Miglio prima, che precedono la scoperta della Padania. In primo luogo Miglio fu tra i primi in Italia a spezzare il circuito cerimonioso degli adoratori della democrazia parlamentare e del formalismo giuridico. Importò categorie aspre come il conflitto alle origini della politica, la dialettica amico-nemico, come l’aveva figurata Schmitt, il leader come decisore, il legame fiduciario e diretto tra capo dell’esecutivo e popolo. Scoprii il suo nome quando ero studente, in un esame di filosofia della politica; tra tanti Bobbio, Della Volpe, Passerin d’Entreves e altri studiosi che oscillavano tra il pensiero liberale e il pensiero marxista, passando per il socialismo e il cattolicesimo democratico, ritrovai le pagine toste di questo Professore della Cattolica, preside di facoltà, che guardava alla realtà della politica con realismo crudo, e citava quel terribile Schmitt, cassato dalla cultura politico-giuridica del tempo perché infettato dal nazionalsocialismo. Mi avvicinai a Schmitt tramite lui, prima che a sinistra lo scoprissero Tronti, Cacciari, Carlo Galli e altri.

Nei primi anni ottanta, all’epoca di Craxi, Miglio dette forma compiuta al presidenzialismo con il gruppo di Milano. Disegnò una repubblica presidenziale con un impianto teorico più saldo di quello del presidenzialismo di Pacciardi, dei democristiani Segni e Ciccardini e di Almirante. Quando anni dopo gli ricordai queste sue imprese, mi disse che quel gruppo però era composto da antifederalisti; ma lui ne era il capo… Da allora Miglio cominciò quella sua lotta con la Costituzione, che chiese di riformare, anche con uno strappo. Non era di quelli che credevano all’intoccabilità della Costituzione, la considerava un frutto della storia e non della religione, dunque modificabile.

Miglio il nordico arrivò a teorizzare una Repubblica mediterranea per l’Italia. Scrisse pagine affilate per rivendicare la peculiarità latina. L’Italia, disse, non è come i paesi nordici e protestanti, in cui vige il comando impersonale della legge; ma è un paese mediterraneo in cui conta la mediazione personale e la figura del leader. Da qui dunque l’idea di una repubblica con un capo carismatico, in un rapporto fiduciario e diretto tra popolo e leader. Miglio riconosceva schmittianamente l’autonomia sovrana della politica e non amava il dominio delle oligarchie, finanziarie, tecnocratiche o d’altro tipo. Non voleva neutralizzare la politica, mirava alla Grande Politica. Era un fautore del decisionismo su base popolare. Un sovranista ante litteram, diremmo oggi.

Quando diventò teorico del federalismo, della Lega e della secessione, gli ricordai in più occasioni, anche in un libro che scrivemmo insieme (il dialogo Padania, Italia curato da Marco Ferrazzoli), la sua repubblica mediterranea. Ma lui spiegò la sua mutazione con una lucida deviazione. Disse che aveva pensato la repubblica mediterranea per l’Italia, cioè per Roma e il sud, non per la sua Padania. E si ritirò in una cultura nordico-protestante estranea al suo humus cattolico e schmittiano.

Ci vedemmo per varie estati a Madesimo, perché presiedevamo insieme un premio, La Torre, che avevamo per primi ricevuto e condiviso venticinque anni fa. Una bella iniziativa di un circolo di Chiavenna, che ha perso di recente uno dei suoi fondatori, Guido Dolci.

L’ultima volta che lo incontrai, la sordità di Miglio era peggiorata e le sue orecchie appuntite come antenne di un alieno si erano ancor più divaricate come se cercassero disperatamente di captare le parole. Avevamo uno strano feeling, nonostante avessi la metà dei suoi anni e fossi dell’altra metà d’Italia, la Terronia. Non era un accademico pomposo, uno di quei tromboni sussiegosi che considerano gli altri tutti alunni più o men scapestrati e incolti perché non citano i loro libri. Gli piaceva fare un po’ il genio del male, di quelli che predicono catastrofi, con una punta di sadica allegria.

Con lui la cultura politica riprese il contatto con la terra, sottraendosi al non-luogo e riscoprendo la geopolitica e le identità territoriali. Non ebbe la possibilità di fare il ministro delle riforme istituzionali nei governi di centro-destra. Nel primo governo Berlusconi, quel ministero fu affidato curiosamente allo steward Speroni, forse per non scontentare i professori del Polo, legittimi pretendenti al ruolo (Miglio, Urbani, Fisichella, Armaroli ed altri). Ma la Riforma Miglio non si fece e la cultura poco o nulla incise sulla politica del centro-destra. Restò la sua lezione di realismo e decisionismo, che fece di lui il precursore dei sovranisti, seppure in versione secessionista e padana. Era già un corpo estraneo allora ma oggi sarebbe impensabile un Miglio nella politica presente…

 

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