C’era uno strano ascensore piazzato all’aperto che saliva lungo il fianco del loggiato, era carico di ospiti e quando si fermò in alto e si aperse la porta…

 

NOTTURNO FIORENTINO

Racconto

di

Valente Andrea Maria

 

I miei sogni vengono a grappoli. Per periodo anche molto lunghi: di mesi se non di anni, mi sembra di non sognare, non ricordo quello che sogno. Questo mi succede in modo particolare nei mesi autunnali e di primo inverno, dopo che si è allontana il mio ritorno dalle vacanze estive, epoca in cui, in genere, mi è parso di sognare di più. Ora la mia vita rientra nel tunnel del lavoro e del dovere, in me sempre confinante col senso della perdita e della noia. Questo è il periodo in cui, nel mio ambiente di lavoro si fanno i programmi per tutto l’anno, in cui il mio non proprio innato, ma ormai connaturato doverismo lombardo, mi allontana maggiormente da quello che io posso essere stato una volta o dal ricordo dei luoghi in cui posso essere nato o essermi formato, o da quelli (spesso gli stessi) dove vado in vacanza in estate, o in altre stagioni, e dove mi lascio più naturalmente portare dalle mie inclinazioni e fantasticherie. Nell’uno e nell’altro caso nulla, proprio nulla, muta nella mia vita più apparente o nella mia persona, se non nell’evidente aspetto esteriore di chi è in vacanza e, vestito da vacanza, ne segue, asseconda e suscita i ritmi e i tempi; e ora tornato in città e alla sua normale esistenza di lavoro, ne segue e asseconda con pari evidenza i tempi e i ritmi. Eppure io so che, pur identico a me stesso in tutto (o quasi tutto) per gli altri, io vivo quelle diverse stagioni e condizioni in modo molto diverso. E lo sanno parimenti i miei sogni, che nei periodi di  vacanza e specialmente in estate risuscitano, ricominciando a fiorire: dapprima con semplici lampi. Con schegge o frammenti che non riescono a prendere del tutto forma, poi con più lunghe sequenze che, se favorite dalla maggior durata della vacanza e dalla conseguente quiete nel risveglio mattutino, possono divenire anche storie, e persino grappoli di storie, se i sogni sono più di uno.

   Con l’autunno e il ritorno in città ogni cosa si acquieta o si acquatta, e tutto quel sotterraneo e misterioso ribollire di vera se pur lontana vita scompare travolto dagli orari, dagli impegni, dai programmi che invadono anche le ore del riposo e del sonno: con la sveglia che suona al mattino: con la barba da fare in fretta col nuovo rasoio elettrico, mentre scorre l’acqua calda nella tinozza; con i calzini da accordare con la cravatta: col caffè da bere in fretta senza troppo zucchero dopo la spremuta d’arancia: con la macchina che  si mette  in moto singhiozzando; e con l’anticongelante da aggiungere quando si farà benzina, perché si è consumato troppo liquido nelle  code andando in ufficio… E così via… Finché dal ritmo uniforme dei doveri autunnali e invernali via via assolti, dei programmi autunnali che prendono via via forma in giornate sempre più brevi, sempre più fitte di appuntamenti, di eventi, di incontri che ci catapultano sempre più fuori da noi stessi, ecco che, all’improvviso, l’anima acquattata sotto i doveri che hanno prevaricato per settimane e mesi, riprende fiato e una mattina di festa, di tardo novembre o ai primi di dicembre, inaspettatamente, improvvisamente, produce un sogno. E un sogno imprevedibile che unisce cose e persone vicine a cose lontane, eventi reali e possibili, forse da poco avvenuti, ad altri del tutto impensabili o ad essi inavvicinabili, che facilmente conducono lontano nello spazio o nel tempo, proprio nell’altra metà della vita, quella che in sé sprofondata ha continuato a prodursi e a fruttificare, mio malgrado e inavvertitamente.

   Nelle settimane precedenti quella mattina di domenica di novembre o di dicembre, poteva essere accaduto che nella piccola repubblica delle lettere in cui principalmente vivo, fosse accaduto un evento che, senza avere un aspetto decisamente positivo o negativo, mi fosse potuto risultare infine inusuale, anche se non proprio confortante. Per esempio che un vecchissimo amico, a cui mi sento (e sono) legato da decenni, col quale ho compiuto più di un’impresa e mi sono regolarmente scambiato i libri, pubblichi a un tratto un libretto di interventi critici non particolarmente esaltanti, forse anche piuttosto occasionali, su autori a proposito dei quali ho qualcosa da dire, o sui quali ho già detto qualcosa di diverso, senza avvertirmene, o mandarmelo o, tanto meno, dedicarmelo. Non so se per non dispiacermi troppo, o se per trascuratezza o distrazione, o se per tutte queste ragioni insieme… Nello stesso mese sua moglie, che scrive versi erotici e provocatori, avrebbe cominciato a pubblicare un nuovo mensile letterario, che avrebbe fatto più chiasso per le sue facili dissacrazioni, che per i suoi apporti. Anche questa rivista non mi sarebbe arrivata, frammezzo agli ammassi di stampa e di libri così spesso indesiderati, che arrivano ogni giorno con la posta. Chi sa se anche questa era stata dimenticanza, o trascuratezza o che altro…

   Me ne ero ricordato per un po’, forse anche collegando fra loro i due episodi, poi lasciando che si rimuovessero da soli. E anzi, dopo qualche settimana, avevo rivisto i miei amici, Giuliano e Teodora, in qualche occasione mondana e avevo conversato con loro, più amichevolmente con lui come avviene sempre, dal momento che abbiamo antiche abitudini in comune: di lavoro, di vita, persino di viaggi fatti insieme in più di una occasione. Forse anche l’episodio del libro e del mensile letterario era venuto fuori, almeno con Giuliano, il quale, secondo il suo carattere e la sua indole piana di “understatement” e di spezzatura, aveva minimizzato ogni cosa. Il libro – mi disse – non era quasi suo, ma del piccolo editore che gliene aveva strappato i brani suo malgrado, non mandandolo poi quasi a nessuno, e lui ne era stato felice – lo confessava… Quanto alla rivista, Teodora aveva dovuto accettare di dirigerla, per compiacere l’amico editore, che aveva fatto loro molti piaceri e si era esposto finanziariamente oltre i suoi mezzi, in un’avventura editoriale più grossa di lui… ma l’esperienza le aveva procurato più nemici che amici, l’aveva affaticata al punto che – prevedeva – n sarebbe finita presto… poi la conversazione aveva divagato su altri e meno inquietanti argomenti, e al momento di congedarci gli uni dagli altri si era detto di rivederci presto, a cena nell’una o nell’altra delle nostre case. Anche quella era un’abitudine un tempo frequentissima con Giuliano, in tutt’un’altra fase della sua vita, quando abitavamo vicini, abitudine che, negli ultimi anni, si era andata in verità diradando… Fu poche sere dopo quell’incontro che sognai Giuliano e Teodora, un sogno che, al risveglio, mi sarebbe rimasto quasi del tutto in mente, tanto mi era parso evidente e, per me, rivelatore. Prima di tutto perché esso non si svolgeva a Milano dove abitiamo tutti quanti, ma a Firenze, mia città natale, che periodicamente ricorre nei miei sogni. Ma ancor più, per la straordinarietà dei luoghi fiorentini che vi comparivano, e per la particolarità di certi dettagli che vi ricorrevano.

   In sogno, si trattava per me e per mia moglie di andare a una festa in casa dei nostri amici, proprio in occasione dell’uscita del primo numero della rivista di Teodora. Ma la festa non si faceva in casa loro a Milano, bensì a Firenze, in una loro diversa casa, che non avrei avuto nessuna difficoltà a localizzare. Sapevo anzi benissimo dove era. Come per miracolo mia moglie ed io ci eravamo trovati in piazza Signoria, proprio davanti la Loggia dei lanzi, sotto il cui ampissimo porticato, molto in alto e proprio a tetto, era l’appartamento dei nostri amici. Vi conduceva uno strano ascensore piazzato all’aperto, che saliva e scendeva in continuazione lungo il fianco del loggiato. Da sotto lo vedevamo salire carico di ospiti, e sparire verso il più alto loggiato. Quando ci avvicinammo per prenderlo a nostra volta, una portinaia in ciabatte e vestaglia, che apriva la porta, ci indicò sbrigativamente di salire fino in cima. L’ascensore – come ho detto piazzato all’aperto e tutto a vetri – salì ondeggiando sopra il “Perseo” del Cellini e il “Ratto delle sabine”, che rimpicciolivano nella luce meridiana, mentre noi eravamo come assorbiti in un imbuto di buio. Quando l’ascensore si fermò, se ne aperse la porta su un corridoio, in fondo al quale scintillavano le luci di una festa. Una piccola folla vi si accalcava, aspettando di entrare in un appartamento. Chi avrebbe mai immaginato che lassù, come incorporata nel soffitto della Loggia dei Lanzi, esistesse un’abitazione?

  Ma si trattava di un appartamento, o non piuttosto di un “roof-garden”, o una specie di uccelliera lassù appesa, o di una moderna galleria d’arte ricavata nel più alto del loggiato, proprio dove esso, a sinistra, si protendeva verso gli Uffizi?

   La gente nell’appartamento era tutta in piedi: conversava, si salutava con cenni, mangiava tartine e beveva aperitivi, portati in giro perigliosamente su vassoi da camerieri in livrea. Ma che abitudini grandiose avevano presomi nostri amici, un tempo così semplici e alla mano!… Nel locale, inondato di luci, non c’erano mobili, ma qua e là statue metalliche, e moderni quadri non figurativi appesi alle pareti. L’atmosfera era quella dell’inaugurazione di una mostra, come se ne vedono nei film americani. Riconobbi volti di amici fiorentini e milanesi. Qualcuno in fondo alla sala parlava a un microfono, ma il brusio impediva di distinguere il senso del discorso. Vicino all’ignoto parlatore vidi galleggiare sulle teste altrui il volto barbuto e la candida capigliatura di Giuliano, con accanto a sé, quasi invisibile per la più piccola statura, la sagoma bianca (di pelle) e nera (di capelli) di Teodora. Ci avvicinammo anche noi nel tentativo di raggiungerli e far loro festa. Ma non era facile per via della gente. Quando alla fine credevamo di averli raggiunti, ci accorgemmo che il discorso al microfono era terminato, e che i nostri amici erano stati spinti in una stanza attigua dalla piccola folla che premeva. Giuliano era già di là e la sagoma infantile di Teodora, avvolta nei suoi pepli neri, si era stagliata un istante nella luce prima di scomparire.

   Raggiungendolo scoprimmo che quel successivo locale. Era solo un passaggio, verso un ben più ampio spazio all’aperto: una terrazza o altana da cui, per una via diversa, si poteva ugualmente riguadagnare l’ascensore. Lì c’era ancora più gente che conversava e si agitava, non solo muovendosi verso l’ascensore, ma anche verso un ampio e ripido scalone rinascimentale che, quella parte, perveniva non più a piazza Signoria, ma al loggiato degli Uffizi. Dei nostri amici non c’era più traccia: qualcuno ci disse che erano appena scesi in ascensore nella piazza sottostante, per andare a incontrare qualcuno venuto a festeggiarli. Affacciandoci ci parve di riconoscerli tre piani più sotto, ai piedi dell’ascensore, frammezzo a una folla che occupava il sottostante loggiato, in lento movimento verso piazza Signoria, dove ora sembravano trasferirsi la gente e la fiera. Perché di una fiera si trattava: con bancarelle che vendevano dolciumi e altre cianfrusaglie, attorno a cui la gente si accalcava e rumoreggiava.

  Non ci perdemmo d’animo e decidemmo di ridiscendere in piazza e, più particolarmente, sotto il loggiato degli Uffizi. Non adoperando l’ascensore, che era praticamente preso d’assalto da chi voleva scendere in piazza, ma seguendo lo scalone che era molto meno frequentato e ci avrebbe fatto infine risparmiare tempo. Stavamo per cominciare a discenderlo quando all’improvviso, arrampicandosi con fatica, vedemmo arrivare trafelatissimo da quella stessa scala Ugo, il cane mezzo setter e mezzo cocker di nostro figlio, il quale piombò letteralmente addosso con tanto di lingua fuori, e facendoci le sue incontrollabili e inarginabili feste. Ma cosa ci faceva lì quel cane, che avrebbe dovuto essere a casa sua a Milano a cinquecento miglia di distanza, e che ora si rotolava ai nostri piedi? A guardarlo, appariva stanchissimo come dopo un lungo viaggio, e forse impaurito. Che fosse fuggito, o si fosse perso? Non era stato cos’ che Ugo era entrato in casa di nostro figlio: appunto, perdendo un precedente padrone a una Festa dell’Unità, e conquistandosene uno nuovo, a forza di inesausti scodinzolamenti? Ad ogni buon conto, ora che ci aveva raggiunto in quel luogo imprevisto, lo afferrai forte per il collare, anche se, felice come era di averci ritrovato, non si sarebbe scollato di un passo. Poi, trattenendolo con una corda che qualcuno mi aveva dato e fungeva da guinzaglio, iniziammo la discesa. Mia moglie ci precedeva, e io seguivo Ugo, che tirava sgangheratamente come sempre.

   Tutto sarebbe andato bene e in fretta se, dopo aver disceso un primo piano di scale, non avessimo trovato, con un misto di sorpresa e di spavento, che la scala, a un tratto, aveva ceduto per un crollo, lasciando posto a un vuoto e anzi a una voragine. In quel punto la scala era sostituita da una lunghissima asse, non certo larga, che, congiungendo d’un balzo l’un porticato con l’altro degli Uffizi, arrivava perigliosamente a un’altra rampa che, da lì, scendeva al terreno. Non c’era scelta, a meno di non risalire e riprendere l’ascensore. Così mia moglie, senza dire una parola, dopo avermi lanciato una rapida occhiata, saltò sull’asse che oscillò pericolosamente e dopo aver allargato le braccia come un’equilibrista, quasi di corsa arrivò all’altro capo dell’asse. Senza neanche rendermi conto di quello che facevo, affrontai a mia volta l’asse, preceduto dal cane che, come sempre, mi trascinava sobbalzando in modo così disordinato che, a un tratto, precipitò nel vuoto rimanendo come impiccato, e retto solo dalla corda-guinzaglio che io tenevo serrata in mano, con tutte le mie forze, nel tentativo, direi disperato, di non lasciarlo cadere, e di non precipitare a mia volta. Non si sa per quale miracolo, sotto l’asse pericolosamente ondeggiante sulla quale mi trovavo, ne comparve un’altra identica, sulla quale atterrò fortunosamente il cane, il quale rimessosi sulle quattro zampe, raggiunse d’un balzo il capo dell’asse, e il nuovo scalone dove ci aspettava mia moglie. Con quel balzo Ugo si sarebbe trascinato dietro anche me che, di corsa, non so se reggendolo o piuttosto travolto da lui, arrivai all’altro capo della mia asse. Indissolubilmente legati dalla corda-guinzaglio che stringevo con tutte le mie forze, avremmo compiuto, stando così uniti, il più folle esercizio acrobatico, infine perfettamente riuscito.

  Dall’altra parte mi accasciai tramortito, col cuore che mi batteva freneticamente in petto. Mai in vita mia avevo osato tanto! Più calmo, dopo un poi, mi affacciai alla balconata accanto a mia moglie, e cominciai a vedere che lo spiazzo fra i due loggiati degli Uffizi si era in buona parte trasformato in un cantiere, dove non c’era traccia di persone e di festa, e dove invece si accumulavano macchinari in disuso: betoniere, gru, mucchi di cemento e di mattoni. Dietro quei macchinari, seminascosta, si vedeva la colonna aerea dell’ascensore, con cui avevamo inizialmente raggiunto la festa dei nostri amici. Di lì, pur non potendo vedere, ci raggiunse un suono di voci, fra cui ci parve di riconoscere le loro. Forse ora avremmo potuto raggiungerli, prima che scomparissero definitivamente, o che risalissero verso l’alto del loggiato dove, evidentemente, proseguiva la festa. Senza indugio mi lanciai giù per le scale, seguito da mia moglie che ora, teneva il cane al guinzaglio. Ma quando sbucammo giù da dietro le betoniere, vedemmo che il cancelletto dell’ascensore era già chiuso, e la cabina, già in moto, ondeggiava qualche metro sulle nostre teste. Un raggio di sole pomeridiano illuminò per un istante la cabina, che si arrampicava lungo lo spigolo esterno, che divideva la Loggia dei Lanzi dagli Uffizi. Nella luce, per un istante, si intravidero le sagome unite dei nostri amici, ormai irraggiungibili e in volo. Lassù, il bianco dei capelli e la schiena curva di Giuliano parvero reclinarsi amorevolmente verso il nero luccichio della chioma ondeggiante e gorgonica di Teodora, che ci voltava le spalle prima di scomparire come tutto il resto, nel più alto del loggiato e del sogno… Proprio in quel momento mi svegliai, come invaso da un forte senso di perdita, e dalla convinzione che non avrei mai più ritrovato i miei amici di un tempo.

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