”Forse Bianca credeva ancora nelle favole, nel Principe Azzurro, quel principe che quando lo incontri te ne innamori subito e che ti porta via sul suo cavallo bianco. Seduta sulla solita panchina, leggeva un nuovo romanzo, ignara che di lì a poco un Orco cattivo, che nulla centrava con quella favola, le avrebbe sconvolto per sempre la vita.
racconto
di
Elena Sofia Guerra
Cadevano le ultime foglie d’autunno. Bianca, seduta sulla solita panchina, leggeva un libro acquistato poco prima, La Principessa e il Vento, un’altra storia romantica. Sì, perché Bianca era una sentimentale, una sognatrice. Lo era stata fin da bambina, quando credeva che il Principe Azzurro sarebbe arrivato in groppa al suo bianco destriero per chiederla in sposa, immaginando di partire con lui incontro a un dorato tramonto. Non lo aveva ancora trovato il suo principe ma non aveva perso le speranze, in fin dei conti aveva solo ventitré anni.
Immersa completamente nella lettura, non si era resa conto che le ore passavano. Lontana, una radio suonava un brano dei Platters. Il buio della sera e il freddo la destarono dal suo torpore. Si era fatto tardi, era giunta l’ora di tornare a casa. La luna, quella sera, manteneva chiuso il suo occhio sul mondo.
La strada era silenziosa, stranamente, visto l’avvicinarsi del Natale. Bianca ricordò che l’Italia giocava un importante partita quella sera. Gli ultimi negozi che si erano attardati calavano le saracinesche. Le poche auto in giro si allontanavano verso il centro città.
Casa era a un paio di chilometri oltre, verso la periferia. Il vento stava rinforzandosi e il freddo ancor più pungente la fece rabbrividire. Si strinse nel cardigan prima di continuare il cammino.
Udiva il rumore dei suoi passi, un suono che le faceva compagnia, mentre in testa ancora le gironzolavano le parole del libro, intrise d’amore.
I lampioni funzionavano a intermittenza come sempre, e sì che avevano reclamato perché il comune li aggiustasse ma lì, così lontani dal centro, non importava a nessuno.
Con il buio, le uniche luci che si vedevano erano quelle dei televisori.
Lungo la strada, i vicoli si aprivano e si chiudevano nel buio.
Questo, come al solito, la portava a immaginare grandi avventure, piene di pericoli.
Aveva fantasticato sulle storie che la vedevano coinvolta e sempre, alla fine, il bene trionfava. Chissà perché, in ognuna di quelle avventure, c’era sempre l’impavido cavaliere che rischiava la sua vita per salvarla? Sorrise dei suoi pensieri, ancor di più per quell’infiniti marmocchi che immaginava sempre intorno a sé, a ogni finire della bella favola. Sì, perché i bambini erano il suo secondo grande amore, dopo le storie romantiche.
Inaspettato un rumore dal vicolo alla sua destra, qualcosa rotolava. La paura, per un attimo, la immobilizzò ma proprio mentre stava per mettersi a correre udì il miagolio di un gatto. Lo vide sbucare fuori da un angolo buio mentre giocava con un barattolo di latta. Sorrise, tirando un profondo sospiro di sollievo, avviandosi di nuovo verso casa.
Due mani l’afferrarono trascinandola nell’ombra. Il vuoto. Prima che potesse gridare una le chiuse la bocca.
Chi? Cosa? – Orrore. Prigionia. – Lasciami, lasciami!
Mille pensieri spaventosi la invasero. Provò a ribellarsi. Scalciò, tirò pugni all’aria cercando di colpire il suo aggressore ma l’altra mano, da dietro, le stringeva il collo impedendole di fuggire. Morse la mano che le premeva sulla bocca e il suo gesto aumentò la ferocia della belva.
L’uomo la girò e con uno schiaffo tremendo la colpì in volto. Barcollò. Il dolore era forte, sulla lingua il sapore del sangue.
«Maledetto!»
Per un istante si sentì libera, ma non lo era, non più.
Improvviso un bagliore, freddo e pericoloso, si palesò e una lama si poggiò sul suo bel viso.
La voce dell’uomo l’esortava a non insistere nella ribellione.
Il terrore l’attanagliava senza lasciarle tregua. L’ultimo urlo le si strozzò in gola, in un suono senza note.
L’uomo le sussurrava parole intrise di rabbia e lascivia, parole che le chiedevano di tacere, di non ribellarsi al destino. Quelle stesse parole le scorrevano nella mente e sul corpo come lame uncinate. Altre continuavano chiedendole di lasciarsi andare al piacere che l’avrebbe travolta da lì a poco.
Di che piacere stava parlando se ogni suo gesto infliggeva sofferenza? Ne sentiva il respiro affannato, l’odore acre di sigaretta, l’alito fetido.
L’uomo continuava a tenerla stretta.
Un grido straziante e ribelle attraversò ogni membra del suo corpo quando una mano cominciò a palparle il seno. La mano strinse. Provò schifo, oltre al dolore, puro e insostenibile. Non riusciva a pensare ad altro che cercare di scappare. Ci provò.
La lama incise la pelle delicata lasciandole un segno sulle bianche gote e, mentre il sangue scendeva piano, si spostò più in basso.
Si sentì inerme intanto che un risolino sarcastico evidenziava la sua resa imminente.
Piangeva lacrime di un’angoscia mai provata.
La lama scendeva sempre più giù, in un lento movimento, logorante, verso il ventre.
La voce, rauca, le ordinò di stendersi a terra mentre la lama tornò ad accarezzarle la pelle.
Era impietrita. Le ci volle del tempo perché obbedisse, ogni pensiero era rivolto a ciò che sarebbe accaduto dopo. Il corpo tentava di ribellarsi al suo stesso volere. Quella voce penetrava sempre più nel profondo consumando ogni sua resistenza. Una mano la spinse al suolo.
Nessuno passava di lì, nessuno l’avrebbe aiutata. Il suo principe dove si era nascosto? Era diventato un terribile mostro.
La terra era fredda, umida. Il cardigan perdeva calore mentre si strofinava sul ruvido asfalto. Si stava rovinando, come ogni cosa. La vita stessa le sembrava non avere più senso, eppure a quella vita si sentiva ancora legata. Respirare le costava fatica.
Intorno a sé vedeva solo il buio, le mura sembravano alti spettri che osservavano in
silenzio, le finestre erano chiuse, da una traspariva la luce soffusa di un televisore acceso. Non c’era nessuno che sentisse il suo disperato bisogno d’aiuto.
Nel buio due occhi lontani avevano smesso di giocare.
L’uomo si chinò su di lei. Le alzò la gonna, di fretta e con rabbia.
Strinse le cosce come per proteggersi.
Lui non le badò. Peggio, rise di quel ridicolo gesto. Le strappò le mutandine con forza, brutalmente, lasciandole cadere di lato, dove lei potesse vederle.
Il respiro era infranto, il corpo inerme e immobile come morente di una lenta agonia.
La ruvida lingua le passò sul collo e poi risalì cercando le labbra.
Voleva mordere quelle di lui, strapparle, infliggergli una parte del dolore che stava provando ma ebbe paura della belva che aveva di fronte. Ancora una volta un urlo morì su quella bocca mentre l’uomo ghignava e affannava nel muoversi.
Mani passavano continuamente su ogni lembo di pelle, la lama giocava tra quelle dita e il freddo contatto era causa di crudele terrore.
Per un istante le sembrò che tutto stesse per finire: la lama si era allontanata, l’altra mano parve andar via lentamente. Fu solo un attimo.
Sentì qualcosa poggiarsi sul monte di venere, scendere giù dove l’intimità era più sacra, intrufolarsi con cattiveria e con decisione premere contro la carne.
Questa volta urlò e a poco valse quella mano che tentò di smozzarle la voce, a poco valse quell’urlo che il rumore dei televisori coprì.
Il sogno della sua prima volta fu cancellato per sempre.
La carne fu lacerata. Era dentro di lei. Si era portato dietro l’odore del sangue e con esso la verginità, morta in quell’istante.
La bocca restò aperta non riuscendo a emettere altro suono, mentre il suo stesso corpo si lamentava. Il male, indicibile e puro, stava distruggendo ogni cosa che faceva di lei quella che era. Il ventre lacerato bruciava del calore del sangue. Ogni spinta subita era un passo di più verso l’inferno, tetro e lugubre luogo della vergogna, dove ogni attimo era intriso di spasmi di dolore.
Sentiva le mani frugare sotto la maglia, saliva e scorreva sul fragile corpo, spinte che si susseguivano dentro di lei mentre l’uomo le pesava addosso con tutto il suo essere ripugnante.
Si sentiva un pallido giocattolo di carne nelle mani di un macellatore.
Il bruto ansimava, sbavava emettendo sordidi mugolii. La voce rauca sussurrava parole che non sembravano nemmeno più tali. – Cagna, ti sta piacendo, lo sento –. Come poteva scambiare gemiti di dolore per espressioni di piacere?
Il peso di quel corpo continuava a premerle sul ventre, il fiato sul viso le soffocava il respiro.
Istintivamente, a ogni spinta, cercò di chiudere le gambe ma non glielo permise mai, con forza le divaricava.
Le sembrò di svenire ma non ebbe questa fortuna.
La mente vagò, allora, alla ricerca di un rifugio dall’orrore che stava vivendo. Cercò tra i ricordi belli dell’infanzia ma svanivano all’istante, a ogni affondo del verme dentro di lei. Provò a immergersi nelle storie di tanti libri vissuti, tra i sogni, ma ognuno conteneva un principe che la riportava lì, tra quelle pareti scure di quelle case tetre, in quell’orrido vicolo.
Le venne da vomitare. Acido giallognolo andò a impasticciare il terreno accanto ai capelli. L’odore acre si unì a quello del sangue e della polvere e lei vomitò più volte fino a non avere più niente da espellere.
L’uomo espresse il suo disgusto con un grugnito eppure continuò, imperterrito, nell’intima violenza.
Ogni gesto si ripeteva dilaniandole le carni, ogni suono si ripeteva dilaniandole l’anima.
Quel tempo non voleva cessare. L’incubo non voleva divenire meno reale.
Un ultimo grugnito e l’uomo gettò dentro di lei il viscido seme.
Quando, finalmente, si alzò soddisfatto, lasciandola lì, lo sentì ridere delle sue lacrime. Non capì le parole di minaccia. Non riuscì a vederlo in viso o, forse, non volle ma nella mente restavano la forma delle labbra, il ghigno e il fetido odore della pelle.
Era sola.
Quanto tempo era passato? Forse poco più di un nulla ma era parso infinito.
Qualche lampione forzatamente cercava d’illuminare la strada. Il gatto la guardò e passò oltre, miagolando.
Provò ad alzarsi ma pareva aver perso tutte le forze. Dolori lancinanti la percorrevano ogni parte del corpo.
La notte era fredda. La terra che la sosteneva sembrava esserle di conforto. Si strinse a sé, come nel grembo materno.
Chiuse gli occhi, piangendo sulla cruda strada. Fu travolta da incubi atroci per ogni istante in cui li tenne chiusi.
Dovevano essere passate poche ore o minuti, non lo sapeva né le importava. Lentamente si rimise in piedi. La lingua amara, la gola secca. Provò a non pensare al dolore. Passò la mano sul ventre cercando di allontanare da sé il sudiciume che l’uomo vi aveva lasciato ma ciò che la faceva sentire veramente sporca era dentro di sé. Cercò le mutandine, le ritrovò stracciate ma le indossò ugualmente. Stirò la gonna più e più volte. Si passò una mano tra i lunghi capelli come per metterli in ordine. Si strinse nel cardigan, lurido, ma non ci fece certo caso. Iniziò a muovere un passo dietro l’altro, forzatamente.
La Principessa e il Vento restò con le pagine aperte nell’ombra del vicolo.
Dove abitava non era lontano ma le ci volle più di un ora per arrivarci. Ogni passo causava sofferenze strazianti, ogni suono risultava insopportabile, i fari delle auto erano solo sguardi da rifiutare.
Il campanello sembrò non voler suonare.
Una luce si accese in casa e una donna, non più nel fiore degli anni, aprì il portone.
Aveva pensato alle parole che avrebbe detto sua madre, allo sguardo di lei, ma come eluderla? Bisognava affrontarla, però in che modo? Si sentì impotente, come svuotata della voglia di vivere.
La donna sul portone, appena la vide, si portò una mano al volto, disperato e perso. Lo sguardo si riempì di angoscia. Tentava di tacere la rabbia, si sforzava di non aggiungere altra sofferenza a quelle indicibili che sua figlia doveva provare in quel momento, ma chiunque altro l’avesse vista allora avrebbe avuto ragione di tremare.
Lei cercò di evitarne lo sguardo, temette il giudizio, provò a svincolarsi e correre in camera ma braccia la strinsero a sé, dolcemente e con impeto. Sentì il calore di quel corpo investire anche lei, il profumo che sapeva di buono. Tra quelle braccia tornò a rifugiarsi come faceva un tempo lontano, quando era spaventata. Era finalmente giunta al sicuro, dove lasciarsi andare.
Pianse senza remore, finché ebbe lacrime.
Il rumore del portone che si chiudeva alle spalle la fece sobbalzare, le sembrò quindi che lasciasse il mondo fuori di lì ma fu un attimo e l’orrore che aveva vissuto tornò prepotente su di lei. Tremori forti l’investirono, si sarebbe accasciata se quelle mani non l’avessero sorretta.
La madre pianse con lei ma non riuscì più a trattenere la rabbia
«Figlia mia che ti hanno fatto! Maledetti!».
Furono momenti di disperazione poi la donna cercò di calmarsi, non aggiunse altro né le chiese niente, la strinse ancora a sé e guidò i suoi passi dentro casa. La portò in bagno. Toglierle quei panni di dosso fu penoso.
Lei resisteva, si vergognava del suo corpo martoriato.
Ci volle tempo e pazienza, dolcezza e parole d’incoraggiamento. Appena tolti gli abiti, la madre li nascose perché non potesse vederli.
La nudità le procurava dolore, le ferite: pudore.
La donna l’aiutò a entrare nella vasca, l’acqua calda le procurò un brivido ma quel calore era rigenerante. La lavò con cura, lasciando che l’acqua scorresse su di lei come a levare il sudiciume e l’odore di chi le aveva fatto quello.
Immobile, col capo chino, priva d’energie, lasciò che la madre l’accudisse.
Lo scrostare il sangue rappreso perché le ferite venissero pulite bene sembrò infliggerle nuova sofferenza. Lavare le parti intime fu molto più doloroso, per entrambe.
Vedere il sangue raggrumato sporcare l’intimità della figlia fece impallidire ancora di più il già tetro volto della madre, vederlo sciogliere e tingere di rosso l’acqua nella vasca la fece rabbrividire. Subito il suo pensiero corse al domani e si domandò se mai, quella che era stata una giovane spensierata e allegra, si sarebbe nuovamente sentita in pieno una donna, capace d’amare e gioirne. Temette di darsi una risposta. Lacrime tornarono a bagnare il bel volto, trasfigurato nella disperazione, ma quelle lacrime avrebbero portato altro dolore e le asciugò, senza indugio.
Quando ebbero finito, la vestì con morbidi panni puliti, cercando di fare attenzione a non farle troppo male. Non provò a chiederle di raccontare, non le chiese del dolore. Aspettò qualche minuto perché il silenzio procurasse il suo effetto calmante, quindi si fece coraggio e le disse che dovevano andare al vicino ospedale.
A quelle parole la figlia iniziò nuovamente a tremare, rifiutò, si tirò indietro.
Come sopportare che qualcun altro vedesse, che altri sapessero la sua sofferenza, come sopportare gli sguardi di pietà o falsa indignazione, quanti tra chi avrebbero saputo avrebbero dato a lei la colpa di tutto?
Le parole della madre, allora, divennero dure, ostinate, ripetitive. Provò a sfuggirle ma in esse c’era la verità, non poteva eluderla: aveva bisogno di cure mediche, di qualcuno che potesse darle quello che la madre non avrebbe mai potuto. Aggiunse sofferenza ad altra sofferenza ma accettò.
Il centro di soccorso medico del quartiere era vicino. La guardia alla porta le accompagnò dentro, non sapeva ma il suo sguardo pietoso le diede fastidio. C’era un solo medico, a quell’ora di notte.
Fu quasi peggiore della violenza stessa il sottoporsi alla visita. L’uomo le chiese della sua venuta, lei lasciò che fosse la madre a rispondergli. La pregò di spogliarsi. Sapeva che sarebbe accaduto ma questo non le rese le cose più facili.
L’uomo aveva i capelli candidi come la neve appena caduta. Sembrava innocuo ma era pur sempre un uomo.
Distesa sul quel lettino da ginecologo rivisse intensamente il dramma, rivisse il dolore, con quelle mani che la toccavano, perlustrando ogni parte della sua intimità infranta. Sperò che durasse poco e invero fu così ma a lei sembrò un’eternità.
Il dottore operò le prime cure, le diede qualcosa che evitasse una gravidanza, quindi stese il verbale. Le prescrisse anche tranquillanti da prendere se avesse avuto qualche crisi ma le consigliò comunque di rivolgersi a uno psicologo che l’aiutasse a superare le conseguenze di quella violenza: un’ipotesi che lei negò immediatamente.
Il ritorno a casa durò un tempo indefinito. Entrò di fretta e si fermò poco dopo l’uscio, scoppiando in un pianto liberatorio. Aveva superato la prima prova, ma non sarebbe bastato, lo sapeva.
La madre preparò qualcosa di caldo, quindi l’aiutò nel mettersi un morbido pigiama e la mise a letto, nel proprio grande letto, per metà vuoto da tempo. Le si mise accanto e l’abbracciò di nuovo. Le accarezzò i capelli come amava fare quando era ancora una bambina.
Lei lasciò che continuasse e lentamente si addormentò. Nel sonno che seguì continuò ad agitarsi finché il calore di quell’abbraccio e quelle carezze non la calmarono. Restarono così per tutto il tempo che occorse.
Il giorno seguente non ne parlarono, né la madre le chiesa mai nulla: aspettava che fosse lei a sentirsi di farlo, ma l’attesa la vedeva struggersi dal dispiacere.
Bianca intuiva che voleva sapere, avvertiva la sua rabbia nei confronti del mondo e sapeva che un giorno le avrebbe chiesto di reagire. Non era ancora giunto quel momento, non se la sentiva, cercava inutilmente di dimenticare quella sera.
La donna non la lasciò mai sola, salvo una volta e quando era tornata l’aveva ritrovata tutta tremante, ferma in un angolo, col volto terrorizzato. Le notti seguenti dormirono sempre insieme.
Erano passati due giorni.
La prima neve era caduta a imbiancare la strada e gli alberi, il candore era rassicurante. Un pettirosso, poggiatosi sul davanzale, era venuto a cercare un po’ di tepore e qualche briciola. Bianca lo guardò per un tempo lunghissimo, mentre un tiepido sole spandeva un piacevole calore attraverso il vetro.
Sua madre le andò vicino e cominciò ad accarezzarle i capelli. Lo faceva spesso ultimamente ma, per la prima volta da allora, Bianca si sentì serena e trovò così la forza di raccontare.
Con lucidità impressionante sviscerò ogni cosa, ogni dolore, ogni sensazione devastante che avesse vissuto. Ogni tanto il ricordo si rivelava più doloroso facendola tremare ma durava poco: in quelle mani, in quel sole, negli occhi del pettirosso trovò la forza per andare avanti. Sfogarsi la fece stare meglio, sentire più libera dentro. Quando ebbe finito ci fu solo un breve silenzio, quanto bastò perché entrambe assorbissero gli eventi passati, cercando di non lasciarsi sopraffare dai patimenti.
Solo allora la madre le chiese cosa avrebbe fatto a riguardo.
Bianca attese un attimo prima di rispondere e in quell’attimo i suoi occhi divennero velati, come smarriti nel vuoto, alla ricerca di qualcosa.
Poi, il volto mutò in un’espressione di grande volontà. Pronunciò parole decise e chiare: avrebbe denunciato l’accaduto.
Quelle parole, dette in quel modo, nonostante le avesse contemplate, la sorpresero con gioia ma a questa si accompagnò il dolore che quel gesto avrebbe procurato.
Restarono abbracciate a godersi la bellezza di quel paesaggio oltre la finestra, ma ogni tanto un tremore le scuoteva.
La donna davanti a lei era in divisa. Non appena Bianca accennò alla sua storia la vide esprimere un gesto di conforto.
Altre volte quella divisa aveva sentito le stesse tragedie raccontate da donne diverse. Troppe poche rapportate a quel che si sapeva accadesse.
La donna cercò di darle a intendere che capisse come si sentiva, condividendone il dolore, ma non poteva essere così, non se non lo avesse provato sulla propria pelle e questo non lo credeva. Quel dolore era solo suo e non l’avrebbe mai abbandonata del tutto, lo sapeva.
Raccontare ogni cosa e ripeterla, per dare il tempo alla donna di riportarla con quella vecchia macchina da scrivere, fu straziante ma necessario: Bianca se ne fece una ragione. Quando tutto fu finito si disse che anche questa era fatta.
Sapeva che nulla sarebbe bastato a dimenticare, non era sicura che esistesse cosa che avrebbe potuto farle tornare la voglia di vivere di una volta. Pensava che non sarebbe mai più uscita da sola, che mai più avrebbe letto quelle stupide storie di romantico amore: nell’amore c’era forse qualcosa di romantico? O si scriveva di romanticismo per ovviarne la mancanza? Un uomo sarebbe stato ancora degno di fiducia? Non si faceva illusioni, non più, ormai.
La domenica successiva Bianca si preparò come soleva fare di solito per andare a messa. La madre non credeva fosse ancora pronta a stare tra la gente ma lei volle andare lo stesso.
In chiesa c’erano molte persone e questo la faceva sentire a disagio. La cerimonia stava per iniziare. Un uomo le si sedette accanto. Istintivamente fece un gesto come per allontanarsi. L’uomo si scostò di un tanto e, temendo di averle recato disturbo, le chiese scusa.
Bianca si sforzò di accettarle con garbo, l’uomo sorrise quindi si voltò verso l’altare. L’allontanarsi del suo sguardo la fece sentire più tranquilla, anche lei si volse in avanti e cercò di non prestargli ulteriore attenzione.
Un paio di banchi più in là una bambina si teneva abbracciata al padre, era felice e l’uomo lo era altrettanto. Questo le fece sentire tutta la mancanza del suo. Una lacrima iniziò a scenderle lungo il viso. La madre se ne accorse ma non capì, ciò nonostante la strinse in un tenero abbraccio, come a farle forza. Le sorrise.
La liturgia non sembrò più lunga o diversa dal solito. Gli occhi della gente non sembravano indagarla con maggior insistenza. Si chiese se sapevano. Alcuni, forse, ma
non lo davano a vedere.
Un bambino impertinente, seduto davanti, continuò a girarsi verso di lei facendole le boccacce. Non seppe resistere e gli rispose con la più strana e buffa linguaccia che le riuscisse di fare in quel momento. Dopo un primo attimo di sorpresa il bimbo scoppiò in una fragorosa risata che risuono per tutta la sala. Un coro di disapprovazione si alzò da più parti. La cosa la fece ridere, ulteriormente. Guardò il bimbo scambiandosi un occhiolino di complicità.
Sua madre sembrò disapprovarla. Con stupore si accorse che l’uomo accanto, invece, stava sorridendo amabilmente. Questo l’imbarazzò.
La messa era finita. Fuori l’aria era calda, per come poteva esserlo in quel principio d’inverno. Le signore e i loro consorti uscivano in bell’ordine dalla chiesa mentre i bambini si rincorrevano senza soste. Il contrasto di quella scena era divertente.
Sentì tirarsi i lembi del cappotto. Il bambino di prima le si era avvicinato, con un dito stava indicando il cielo, tra quelle nuvole ce ne era una che pareva un gabbiano.
Restarono a fissarla, sembrava che l’uccello stesse volando via.
Da un’altra parte, una nuvola più grossa e paciosa le parve una faccia. Fu forse il suo stato d’animo a farle notare una somiglianza con il volto del padre: credeva sorridesse. Quel sorriso le ricordò i bei momenti trascorsi insieme, quando, seduti sotto al portico, le raccontava tante storie inventate lì per lì. Quella che le era piaciuta di più si chiamava Il viaggio della nuvola, se la faceva ripetere spesso e ogni volta assumeva una trama diversa, questo la divertiva ancora di più. Ricordò che il padre amava mettere in ogni storia un buon proposito. Si domandò quale poteva ora porsi innanzi, ma era una domanda che non aveva risposta, non ancora.
Quei ricordi così belli le risultarono comunque amari: da quando era scomparso, tre anni prima, ancora non ne aveva accettato del tutto la perdita. Fu allora che si ricordò delle sue ultime parole.
Un giorno ti dimenticherai che io non ci sono più ma ti ricorderai delle nuvole. Guarderai in alto e le vedrai, così belle e serene, così potenti. Viaggerai con loro tra i mille cieli del mondo, in mille luoghi fantastici e, allora, ti accorgerai di non avermi mai perso perché io sono e sarò sempre con te, al tuo fianco.
Quella nuvola si stava trasformando, non aveva più una forma riconoscibile ma altre le ispiravano nuovi volti o esseri meravigliosi. Era estasiata da quello spettacolo.
Il bimbo accanto a lei la guardava con stupore. Sorrise, con lieve imbarazzo, quindi gli indicò una nuvola dalla forma di un grande drago che sputava fuoco, un’altra era una lettera, una appariva come una casa. Continuarono così per qualche minuto, facendo a gara a chi vedeva la più buffa o la più bella.
Tornò a casa con il sorriso sulle labbra. Quella fu la prima notte in cui non ebbe incubi.
Il Natale era alle porte. Squillò il telefono. Era la polizia che volle informarla di aver catturato un sospettato, arrestato mentre tentava una violenza su un’altra donna. Serviva un confronto.
La madre diede un pugno sul vetro ed esclamò qualcosa d’indecifrabile verso l’uomo.
Il vetro era lì a dividerla dal suo aggressore, ma era poi lui? Questo dubbio la metteva in ansia. Poteva esserlo ma non ne ricordava bene il volto, aveva bisogno di sentirlo parlare.
Udire quella voce rauca fu un tutt’uno col perdere le forze. Nonostante ci fosse un muro a separarli si sentì afferrare da tutte le paure che l’avevano assalita quella sera. Le ci volle qualche minuto e un bicchiere d’acqua per riprendersi. La madre, che le era accanto, cercò di portarla via ma non volle. Adesso poteva vederlo bene in viso, quel volto non lo avrebbe mai più dimenticato.
La rabbia montava in Bianca. Ora che l’uomo era stato colto in fragrante, non bastava sapere che lo avrebbero condannato. L’odio che si era assopito per qualche tempo ritornò in superficie con ancor più forza di prima. Lo guardava mentre mugolando lo portavano via. Rivisse ogni attimo della violenza e, per ogni secondo che passò guardandolo, si sentì nuovamente sudicia ma, quando lo vide scomparire dietro una porta, restò allibita: improvvisamente si sentì svuotata da ogni sentimento di rivalsa, provava solo schifo per quell’essere.
In una stanza adiacente l’altra donna stava verbalizzando il proprio dolore, a lei era andata meglio: lo stupro non era stato completo. Quando Bianca la vide ebbe un irresistibile desiderio di abbracciarla. La donna in un primo momento si ritrasse, quel contatto era così intimo e a così poca distanza dalla violenza. Si guardarono negli occhi, quelli di Bianca erano umidi e consapevoli di quel dolore. La donna capì, sapeva e fu lei, questa volta, a farsi avanti per abbracciarla. Insieme scoppiarono a piangere e si tennero strette, in silenzio per un po’. Bianca si stupì di sentirsi così forte in quel momento, istintivamente cominciò ad accarezzarle i capelli, a sussurrare parole di conforto e speranza. Un giorno, forse, si sarebbero riviste e ne avrebbero parlato con serenità.
Uscita in strada tirò un grosso respiro di sollievo: un altro passo importante era stato fatto. Ne sarebbero seguiti altri, certamente alcuni di questi sarebbero stati dolorosi ma adesso si era resa conto di essere forte abbastanza per affrontarli.
Per tutto il tempo del loro ritorno a casa si guardò intorno, il mondo pareva ignaro e forse lo era, la gente viveva la loro vita come sempre. Si disse che la speranza stava anche in quello: il saper andare avanti.
Sotto il portico il pettirosso pareva stesse aspettando il suo ritorno. Bianca, da giorni, non mancava mai di dargli qualche briciola. Quel pomeriggio un forte acquazzone la costrinse a restare in casa, preoccupata per la sorte del suo piccolo amico. Quando il tempo si rimise al bello uscì fuori a cercarlo. Aveva preparato per lui una cassetta nido che attaccò subito all’albero di fronte. L’amico gradì molto l’offerta.
Un tiepido sole stava andando verso il tramonto. Guardò il cielo pieno di nuvole rosseggianti, placide e lente, che seguivano le correnti. Un lampo improvviso le sembrò il riflesso di una fulgida spada, il tuono che seguì: il rombo degli zoccoli di un destriero in corsa. Stava fantasticando di nuovo, dopo tanto tempo tornava a concepire nuove storie. Sentì come se qualcuno la stesse abbracciando, colmandola di affetto. Sorrise, strinse a sé quel calore e tornò in casa.
«Bianca.»
«Sì, papà?».
«Vieni qua, tra le mie braccia, voglio raccontarti una cosa».
«Eccomi!».
«Piccola mia ti parlerò delle nuvole e della vita».
«Sii! Un’altra storia. Raccontami papà, ho tanta voglia di sentirla».
«Non è proprio una storia ma ci assomiglia. Devi sapere che la vita nasce con l’alba del mondo e prosegue fino al suo tramonto, la vita stessa è un andare verso il tramonto. Capisci? – Bianca appariva perplessa. – So che ti piacciono le nuvole».
«Tantissimo.».
«Bene, perché le nuvole sono come la vita e nello stesso tempo l’accompagnano lungo la strada. Alle volte sono placide e belle, altre sono tetre e terribili. Guardarle è come vivere tante storie. Le vedi, lassù?».
«Sono bellissime».
«Osservale e ti riempieranno la vita con la loro serenità e potenza, la coloreranno con i riflessi più belli, la riempieranno con le loro fantastiche forme. Le nuvole non si fermano mai e, quando il sole tramonta, loro continuano, imperterrite, verso il nuovo giorno. Ricordati, come la vita, hanno anche loro una storia e ogni storia ha un inizio e una fine ma quando la storia finisce non bisogna essere tristi perché c’è sempre il tempo per viverne un’altra. Qualunque essa sia, un giorno la storia potrà cambiare e anche un solo momento potrà renderla bellissima. Te lo ricorderai?».
«Sì, papà!».
«Meraviglioso. Per oggi basta così, vai a giocare».
«Grazie papà».