Ho indossato la maschera e mi sono portato dietro la linea di messa in guardia. Bisogna ammettere che Bullonemaretta stavolta non si è risparmiato

Ho indossato la maschera e mi sono portato dietro la linea di messa in guardia. Bisogna ammettere che Bullonemaretta stavolta non si è risparmiato. Ha fatto costruire una tribuna di legno in mezzo alla palestra, ha spedito all’intero consiglio comunale inviti personalizzati su cartoncini avoriati e ha ordinato a tutti i suoi dipendenti di essere presenti (tanto era domenica e la produzione non ne avrebbe patito). Ha convocato fotografi, avvisato giornalisti, pubblicizzato l’evento con manifesti incollati sui muri della città e volantini distribuiti alla fine della messa. Il giorno del Santo Patrono tutti dovevano considerarsi invitati alla Sala d’Armi per assistere alla memorabile kermesse schermistica San Costanzo – Categoria Giovani – Torneo di Sciabola al meglio delle quindici stoccate senza limiti di tempo.

Che il padroncino suo figlio rientrasse esattamente in quella fascia e che la sua arma fosse proprio la sciabola erano particolari irrilevanti. Che avesse organizzato il torneo a misura di pargolo erano le solite cattiverie degli invidiosi alle quali era inutile replicare.

Tutta Manerbio, leggasi gli aventi diritto al voto, doveva sapere, ringraziare e il giorno delle elezioni sdebitarsi. Perché l’illustre concittadino Tullio Maretta, primo contribuente di Manerbio, Cavaliere del Lavoro, Presidente e Amministratore Delegato della Maretta spa, Presidente del Rotary Club Valtrompia, Presidente della Accademia di Scherma Valentino Incisa, da lui pomposamente ribattezzata la Sala D’Armi, si era messo in testa di diventare sindaco. Perché oggi, come tutti dicevano, se vuoi fare affari devi entrare in politica.

In calce al proclama di arruolamento Bullonemaretta aveva lasciato il suo tocco di artista: “Al termine della premiazione nei locali della Sala D’Armi verrà servito un buffet freddo omaggio del Comitato Organizzatore”, cioè suo.

Panem et circenses insomma, secondo il millenario sistema di ricerca del consenso. Ma guai a usare queste parole, o similari. Bullonemaretta si piccava di essere uno che si era fatto da sé; non aveva sprecato tempo dietro ai banchi di scuola ed anzi guardava con sospetto contadino chi maneggiava libri e parole. Il latinorum, così chiamava la fuffa del bel parlare, che poi sotto sotto non c’è niente, lo mandava in bestia. Lui era uno che diceva pane al pane e vino al vino.

Sia stato il richiamo finale al buffet o la scarsa fantasia della cittadinanza, che la domenica pomeriggio non sa mai cosa fare, fatto sta che la tribuna è stracolma.

Ma la confusione mi lascia del tutto indifferente. Sono così assorto che dentro la maschera non mi giunge alcun suono e attraverso le strette maglie della rete vedo solo un punto bianco davanti a me.

En garde. Êtes-vous prêt? Allez!

In questa giornata così speciale anche l’arbitro, fatto giungere appositamente da Brione per garantire imparzialità di giudizio, vuole metterci la crema. Pensa forse ai giornalisti presenti e sfoggia il suo galateo linguistico.

   “En garde. Êtes-vous prêt? Allez!”

Bullonemaretta in mezzo alla tribuna si gode il trionfo. Rotea i suoi occhi sporgenti e sorride compiaciuto. Alla perfezione della giornata manca solo la ciliegina, vale a dire la vittoria di suo figlio. Ma di questo non dubita. È pur sempre carne della sua carne. E l’avversario non lo impensierisce più di tanto. Bravo, sì, anche sinceramente sorprendente se vogliamo, ma pur sempre un inferiore.

Finta del colpo di taglio e attacco. Bersaglio valido, prima stoccata a mio favore. Bullonemaretta si è stupito dalla rapidità prodigiosa con la quale ho appreso la tecnica della sciabola. La sua concezione antropologica non mi concedeva alcuna possibilità. Uno come me non può sperare di avere qualche talento. Un operaio poi. Mi aveva individuato durante una delle sue ispezioni settimanali. In fabbrica divido i pezzi, bulloni con testa a martello da una parte e bulloni con testa ad anello dall’altra. E poi bulloni di ancoraggio, bulloni di fissaggio, a espansione e ad alta resistenza; preparati i singoli mucchi li distribuisco nelle varie scatole che alla fine sigillo per la spedizione. Quella volta sono semplicemente entrato dentro il fascio dei suoi nervi ottici:

   “Ragioniere, comunichi al ragazzo che oggi pomeriggio lo aspetto alla Sala D’Armi”. Per questo avevo cominciato a tirare di scherma, me l’aveva ordinato il padrone. Era toccato a me per una imprevedibile giravolta della moneta ma io o un altro non avrebbe fatto differenza. A Bullonemaretta serviva solo un po’ di folclore per attirare su di sé l’attenzione della città in vista del futuro appuntamento elettorale.

Aveva deciso di tentare l’azzardo della politica e cominciava a mettere in atto i suoi piani. Sarebbe stata una bella fotografia da consegnare ai giornali. Il cavalier Maretta circondato dai suoi ragazzi in divisa. Una sorridente parete bianca, ed io.

Non aveva studiato Bullonemaretta, ed odiava il latinorum, non conosceva il marketing politico e non sapeva nulla del political correct ma fiutava le mosse da fare e quella gli sembrava una buona mossa. Una mossa che gli avrebbe portato pubblicità, consenso e soprattutto voti.

Prendere un negro dalla fabbrica e insegnargli la scherma. Che meravigliosa trovata.

Parata e risposta di coupé. Bersaglio valido, seconda stoccata. Dico negro con orgoglio. Qui in Italia i ciechi li chiamano non vedenti, gli spazzini operatori ecologici e gli invalidi diversamente abili ma io sono, e voglio rimanere, un negro. Vengo dalla savana, lì non siamo abituati a giocare con le parole. Il mio villaggio si chiama Mererani, nei pressi di Arusha, Tanzania nord orientale. Eravamo una famiglia di pastori, pastori come tutti gli altri abitanti del villaggio finché un giorno, vicino alle nostre capanne, non hanno scoperto la tanzanite. E niente è stato più come prima.

Avete presente la pietra blu sul collo della vecchia all’inizio del Titanic? Quella è tanzanite. Si tratta di una gemma unica e molto speciale; il suo colore blu luccica in una tinta purpurea. In tutto il mondo si trova soltanto in un posto, nelle alture a ridosso del Kilimangiaro, e cioè a casa mia.

Le mandrie sono sparite, la savana è stata crivellata di buchi e i nostri villaggi trasformati in strade polverose e squallide distese di baracche. Al posto dei pastori oggi ci sono solo minatori. Sono arrivati da ogni parte del paese e anche dall’estero alla ricerca della pietra blu sognando di accumulare le ricchezze principesche dei califfi. Anche mio padre è diventato un minatore.

Invece di arrampicarsi con le sue bestie sulle colline del Kilimangiaro e guardare le stelle del cielo decise di mescolarsi alla terra spingendosi fin dentro le sue viscere per trovare quelle pietre blu, stelle capovolte. Fino a trecento metri di profondità e solo una torcia sulla fronte.

Ma un giorno di aprile oltre cento minatori rimasero sepolti vivi. Le pareti dei cunicoli, marce d’acqua a causa delle piogge torrenziali, franarono loro addosso. E mio padre disse basta. La sua mano spazzò via il suo futuro ed il mio, anch’io come lui destinato a farmi talpa con una torcia sulla fronte e una paura che non passa mai per due dollari al giorno.

Parata e risposta di cavazione. Terza stoccata a segno. Negro e quindi ultimo secondo la natura, antropologicamente inadatto ad acquisire conoscenze evolute come la nobile arte della scherma, operaio e quindi ultimo secondo gli uomini, destinato ad occupare il gradino più basso della piramide sociale, Bullonemaretta non si sarebbe mai sognato di vedermi qui, a giocarmi la vittoria finale con suo figlio. C’era qualcosa che non quadrava, e non erano le sue teorie.

Attacco, risposta a tempo perso e raddoppio. L’arbitro mi assegna la stoccata ed io incamero il quarto punto. Il cremoso finto francese si sta rivelando un giudice impeccabile. Le convenzioni nella sciabola complicano tutto e se hai un giudice a sfavore le tue possibilità di vittoria sono pari a zero. Bullonemaretta mastica amaro. Quello che sta succedendo in pedana gli appare assurdo, al di là di ogni possibile comprensione. Ci manca solo che a vincere sia il negro. Qui sta succedendo la rivoluzione, è il mondo che si rovescia. È Galilei che racconta la favola che è il sole e non la terra il centro fisso dell’universo.

Pensa pure le tue oscenità Bullonemaretta, ma oggi non posso perdere. Quasi nessuno dei tuoi dipendenti si è presentato alla sala d’Armi per non darti soddisfazione ma domani in fabbrica non si parlerà d’altro. So che si aspettano da me il riscatto di mille umiliazioni, ognuno di loro insegue la sua personale rivincita e hanno affidato a me la loro ansia di giustizia ed uguaglianza.  Perché oggi Bullonemaretta siamo finalmente uguali. E per me tu o tuo figlio siete la stessa cosa, appartenete al medesimo sistema. Così infilo ogni stoccata dentro il grasso della vostra prosopopea, e vi devo confessare il sottile piacere che provo nel vedervi indietreggiare fino alla fine della pedana, incapaci di fronteggiare il mio impeto; nel vedervi ansimare al termine di ogni assalto cercando di trattenere quel filo d’aria che vi rimane ormai attaccato ai polmoni; nel vedervi mulinare a vuoto una sciabola troppo timida e troppo lenta per il mio braccio.

 

Ecco, adesso riunisco sulla punta della mia sciabola tutti i venerdì del mondo per ricacciarveli in gola

Per tutta la settimana Bullonemaretta rimaneva chiuso nel bozzolo trasparente, il suo ufficio sopraelevato costruito con pareti di vetro nell’angolo del capannone. Era la tolda della nave affacciandosi alla quale controllava e comandava. Ma ogni venerdì pomeriggio scendeva nella stiva. Camminava lentamente, godendosi ogni passo. Lui ed il figlio davanti, il ragioniere dietro, a scodinzolare.

Si erano conosciuti durante il servizio di leva, entrambi schermidori dell’Aeronautica Militare. Il ragioniere poi era diventato Maestro di Scherma ed anche arbitro, dopo gli esami alla FIS.

Non aveva maturato particolari competenze nell’ambito dell’amministrazione aziendale. Lo stesso titolo di ragioniere si diceva l’avesse preso a pagamento in una scuola serale di Brescia. In compenso aveva due qualità straordinarie che per Bullonemaretta valevano assai più di un master universitario: gli ricordava i tempi belli della sua gioventù ed era fedele fino al sacrificio personale. Ciò gli aveva valso l’elevazione al rango di uomo di fiducia e l’inserimento in pianta stabile ed in posizione di rilievo nel libro paga della Maretta spa.

Durante queste ispezioni Bullonemaretta roteava gli occhi sporgenti in tutte le direzioni, fumando uno dei suoi sigari cubani. In fabbrica vigeva il divieto di fumo ma naturalmente era un divieto che valeva solo per gli altri, non per lui. Quella era casa sua, e faceva quello che gli pareva. Camminava e buttava per terra la cenere. Sapeva che l’operaio più vicino avrebbe fatto sparire in fretta i residui delle sue boccate.

Degli esseri umani lì dentro non gli importava nulla. Quello che voleva era solo farsi guardare, fare la ruota come i pavoni e ricordare a tutti chi era il padrone. Rare volte si fermava davanti a qualche operaio. Di negri ce n’erano molti, li preferiva. Non erano rompicoglioni come gli italiani, non sapevano cosa fosse il sindacato e non si lamentavano se c’era da fare lo straordinario.

   “Come ti chiami?”

   “Pape Sek”

   “Ragioniere il ragazzo lo vedo troppo magro, e chi è troppo magro è triste e lavora male. Prenda nota, faccia cortesemente avere qualche pacco di pasta a Pape Sek”. Questa la considerava beneficenza, lo faceva stare meglio, era convinto che quel po’ di cipria sulla coscienza desse più luce alle sue penne.

Nelle visite alle maestranze si faceva accompagnare anche dal figlio per impartirgli  le sue lezioni; lezioni di vita, come le chiamava lui, ben più importanti e formative del latinorum e delle altre simili stronzate che si apprendevano sui libri. 

La sua filosofia di vita si riassumeva in una frase: ognuno al suo posto. A cui eventualmente aggiungeva un corollario: e ognuno ha il suo prezzo. Voleva dire che il mondo, quello della natura e quello degli uomini, segue un ordine preciso nel quale ad ogni essere, fiore uomo pietra o animale, è stata assegnata la sua casella. E quindi prede e predatori, bianchi e neri, ricchi e poveri, pavoni e formiche, cristalli di sabbia e polvere d’oro. Non accettare il proprio ruolo significava scardinare quelle regole e portare il sistema alla deflagrazione. Ognuno al suo posto quindi, con la precisazione che, almeno nel mondo degli uomini, il sistema non è affatto cristallizzato in eterno ma è quanto mai mobile. Spostarsi infatti da un posto all’altro non contravviene alle regole naturali; basta stabilire il giusto prezzo e pagarlo. Bullonemaretta il venerdì pomeriggio non faceva altro che insegnare a suo figlio quale fosse il loro posto. Il posto dei padroni in mezzo ai servi.

Risposta di circolata, bravo Bullonemaretta, stavolta mi hai fottuto ma non ti illudere, rimani in trappola. Il figlio aveva imparato presto e bene quelle lezioni. E le aveva messe immediatamente in pratica: in palestra infatti si è sempre rifiutato di allenarsi con me. Del resto i padroni non si mischiano ai servi. Bisogna mantenere le distanze. Che godimento provo oggi nel constatare come quella distanza si sia accorciata fino a diventare la lunghezza di una sciabola.

Contro risposta, stoccata e bersaglio. Applicando quella filosofia di vita era diventato quello che era diventato. Ma anche lui aveva piacere che qualcuno o qualcosa gli ricordasse la strada che aveva percorso, dal nulla fino a lì. Per questo di tanto in tanto all’imbrunire, si metteva a passeggiare tra i viali che circondano la fabbrica, così da vedere risplendere la scritta rossa fluorescente: Bullone Maretta.

Laddove bullone era da intendersi l’unico ed irripetibile, l’archetipo. Ma sarà che i suoi concittadini in quella parola ci avevano visto il carattere dell’uomo, il grande bullo, fatto sta per tutta Manerbio era diventato in fretta Bullonemaretta; così, tutto attaccato.

Percorreva lentamente i vialetti con le mani dietro la schiena e con i suoi occhi a bulbo e mentre vedeva fiammeggiare la scritta contemplava i prati di velluto, la siepe di bosso pareggiata al centimetro e i fiori ornamentali. La regola “ognuno al suo posto” valeva ovviamente anche per i prati, la siepe ed i fiori. Bullonemaretta era capace di salire sull’erba e strappare lui stesso i fiori che erano cresciuti fuori dall’ordito del suo giardiniere.

Cartellino rosso, una stoccata di penalizzazione. Il padroncino per rabbia e vendetta mi ha colpito la maschera con la coccia. Bullonemaretta continua a toccarsi il naso con il pollice destro, a ripetizione, come il riflesso condizionato di un pugile. È il gesto di quando non riesce più a controllare il nervosismo. È stato raggiunto per lui il limite estremo, andare oltre significherebbe dare ingresso al caos. Il negro vuole vincere sul bianco. L’operaio vuole prevalere sul padrone. Non si è mai visto, è l’ordine fatto a pezzi, è il cielo capovolto e calpestato. Bullonemaretta si gira continuamente verso il ragioniere, fedele ricettacolo di tutti i suoi spurghi. “Ma chi è quella testa di cazzo?”

   “Thabo Mugamba cavaliere, quello che lei ha scelto per la Sala d’Armi”

   “Muga che? Vabbè l’ho scelto io ma non certo per farlo venire qui a vincere il torneo. Contro mio figlio poi. Credo proprio che il ragazzo non abbia capito qual è il suo posto”.

Bisognava fare in fretta e rimettere le cose in ordine.

Attacco per battuta sul ferro e bersaglio. Ma non c’è niente che puoi fare Bullonemaretta, almeno su questa pedana. Perché questo è il mio regno, oggi più che mai. Sono tornato nella mia savana, la mia sciabola è come la lingua del camaleonte. L’allungo in un gesto fulmineo e poi la ritraggo: mi sei rimasto incollato sulla punta ed io mi nutro di te.

Non puoi arginare i miei attacchi perché la mia scherma è fuori dai tuoi schemi. Di tutti gli insegnamenti ricevuti ho trattenuto solo l’essenziale. Il resto mi è scivolato addosso. Perché non era il mio mondo, ma il tuo, quello che adesso ti zavorra di un peso invisibile ma presente. Secoli di cultura, le nobili famiglie che assoldavano i maestri per i propri rampolli, la nobile arte della scherma, i duelli dei gentiluomini, film e libri, i Tre Moschettieri, Zorro, il Corsaro Nero, il rito, la liturgia e il galateo.

Io sono leggero. Io sono solo Thabo Mugamba, il negro. Non porto niente con me se non me stesso. Sono la natura. Sono il vento della savana che soffia e mi spinge. Sono la pioggia e la folgore sotto il cielo aperto di Enkai. Sono il leone che ha fiutato la preda. E continuerò a stringere le mascelle fino all’ultimo respiro.

In tribuna Bullonemaretta ha finito di agitarsi e di rovesciare il suo astioso furore nelle orecchie del ragioniere.

Mi slancio in controtempo e per evitare la stoccata il padroncino esce dal limite laterale della pedana, perde l’equilibrio e cade sul ginocchio. L’arbitro sanziona la sua condotta con il cartellino giallo e accorda per l’infortunio i dieci minuti di sospensione che sono stati richiesti. Bullonemaretta intanto è sceso dalla tribuna; lo vedo che sussurra qualcosa al personale del 112 presente in sala. Qualcuno poi si avvicina all’arbitro.

L’altoparlante comincia a gracchiare: “Si avvisa il gentile pubblico che la sospensione in atto sarà prolungata di ulteriori dieci minuti per consentire al Comitato Organizzatore di reperire un altro arbitro in sala onde terminare la kermesse. Il sig. Achille Pardi, arbitro della gara, è stato appena informato dal funzionario del 112 di Manerbio che sua moglie è stata trasportata all’Ospedale di Brescia per le conseguenze di un sinistro stradale e ha dovuto quindi abbandonare la manifestazione. Gli facciamo i nostri migliori auguri”.

Al termine della sospensione vedo il ragioniere seduto sulla sedia dell’arbitro. Il pubblico che affolla la tribuna non sa chi è, ma io sì.

Bullonemaretta aveva rimesso ognuno al suo posto.

P.S. Lo legga solo chi non può fare a meno del lieto fine. Sono passati molti anni da quel pomeriggio. Il ragioniere ha fatto quello che doveva fare ed io fortunatamente ho perso.

Da quel giorno la mia vita è cambiata per sempre. L’applauso che il pubblico mi ha riservato al termine della gara non si è più interrotto. Gli stessi giornalisti che Bullonemaretta aveva invitato perché facessero da grancassa alla sua boria furono la sua rovina. Cominciarono a seminare qualche dubbio sulla regolarità della finale alla quale avevano assistito, qualcuno si mise ad indagare, non ci volle molto perché venisse alla luce la messinscena architettata da Bullomaretta per allontanare l’arbitro della gara e si scoprissero i veri rapporti che lo legavano al ragioniere. Da lì in poi il sasso si trasformò in valanga trascinando la mia vita e la sua.

Bullomaretta non è riuscito a sfondare in politica, non ha retto alla concorrenza asiatica e un po’ per stanchezza un po’ per le difficoltà del mercato ha venduto anche la fabbrica, ad una società americana.

Io sono diventato il simbolo della giustizia negata, della lotta leale e trasparente del sacrificio silenzioso e senza gloria. Poi ci hanno aggiunto la lotta di classe, la rivincita dei poveri, la ribellione al razzismo, le periferie del mondo e tante altre analisi sociologiche che a leggerle tutte sono rimasto basito. Tutto questo, io?

Sono diventato insomma una sorta di eroe popolare. Venne pure organizzata una solenne premiazione in municipio dove mi assegnarono quella medaglia di cui quel pomeriggio lontano venni defraudato.

Intanto studiavo, mi sono sposato con una maestra di Iseo, sono diventato cittadino italiano e ho lasciato per sempre la fabbrica Maretta.

Tutto è cambiato nella mia vita, tranne la città. Continuo ad abitare a Manerbio, e non potrebbe essere diversamente: ne sono diventato il sindaco.

Teodoro Lorenzo

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua con altri racconti tratti dal libro “Le formiche rosse“. Amazon. Copertina flessibile : 400 pagine  (15 gennaio 2021)

 

Breve biografia
Teodoro Lorenzo, nato a Torino 4 marzo 1962, calciatore dell’Alessandria negli anni ’80, poi avvocato per lavoro e scrittore per passione.

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