Se i primi fumetti erano santi, i pittori del Nord Europa e della Mitteleuropa ci hanno insegnato che l’anima può abitare anche i paesaggi, i volti, gli animali e perfino le ombre

Street in Røros in Winter

 OLTRE IL SACRO I NUOVI ICONOGRAFI

arte del Nord e dell’anima senza Dio

Redazione Inchiostronero

Per secoli, l’arte ha avuto il compito di mostrare il divino: santi, martiri, icone dorate e miracoli illustrati. Le immagini servivano alla fede, proprio come i primi “fumetti santi” delle cattedrali e dei codici miniati: storie sacre rese visibili al popolo, simboli religiosi tradotti in forma pittorica.
Ma un giorno l’arte ha voltato lo sguardo. Ha smesso di cercare Dio tra i cieli e ha cominciato a trovarlo sulla terra — nella neve, nel corpo, nella luce che filtra da una finestra, negli animali che abitano i boschi. Questo saggio esplora la svolta silenziosa e profonda di alcuni pittori norvegesi, svedesi e tedeschi che hanno abbandonato ogni riferimento esplicito al sacro per raccontare un’altra spiritualità: quella dell’ordinario, dell’osservazione attenta, della presenza fragile e concreta nel mondo. Dalle montagne immobili di Harald Sohlberg alle stanze familiari di Carl Larsson, dagli animali selvatici di Bruno Liljefors fino alla vitalità sensuale di Anders Zorn, l’arte si fa preghiera muta, intima, terrena. Un contrappunto finale con Friedrich, Spitzweg e Franz Marc ci ricorda che anche in Germania l’anima non ha sempre avuto bisogno di santi: a volte bastava una finestra aperta sul paesaggio, un uomo qualunque, o il colore stesso per suggerire il mistero. “Oltre il sacro” è un viaggio tra artisti che hanno lasciato l’altare per il mondo, senza perdere il senso dell’anima.


Il freddo contemplativo – Harald Sohlberg (Norvegia)

Dove un’icona sacra mostrava un volto, Sohlberg mostra un paesaggio che ci fissa senza parlare. Un altare di montagna.

La pittura di Harald Sohlberg non narra, non grida, non racconta. Osserva.
Nato a Oslo nel 1869, Sohlberg è forse il pittore nordico che meglio incarna la trasformazione del paesaggio in luogo spirituale. Ma non c’è nulla di religioso in senso canonico nelle sue opere: è la natura stessa a diventare metafisica, a trattenere qualcosa che assomiglia al sacro, senza rappresentarlo.

La sua tela più celebre, Notte d’inverno nelle montagne (Vinternatt i Rondane, 1914), è un’immagine ferma, gelida, profondamente silenziosa. Una catena montuosa innevata emerge da una notte blu, una notte che non minaccia ma custodisce. Non c’è traccia di vita umana, né animali, né movimento. Eppure tutto vibra, tutto attende.

«Sohlberg dipingeva montagne come se fossero chiese e la neve come se fosse una preghiera non detta», scrisse il critico Øystein Loge.

Non c’è bisogno di figure: è la presenza muta della natura ad avere valore simbolico, è la distanza a evocare una forma di trascendenza laica. Il paesaggio, per Sohlberg, non è un oggetto da rappresentare, ma un interlocutore da ascoltare.

In questo senso, le sue opere si avvicinano all’arte sacra proprio nella struttura interiore: non per il soggetto, ma per la funzione. Contemplare una sua tela significa partecipare a un rito muto, restare immobili dentro una domanda che non ha risposta.

La solitudine, il gelo, l’immobilità non sono assenze: sono presenze assolute.
In un mondo che ha smesso di credere, Sohlberg non propone nuovi miti, ma mostra che il paesaggio — se osservato con occhi aperti — può contenere ancora una forma di mistero. Uno spazio spirituale senza dogmi, dove il divino è solo la distanza che ci separa dal resto del mondo.

Il quotidiano come beatitudine – Carl Larsson (Svezia)

Nelle tele di Larsson, il sacro non è svanito: si è trasferito nei gesti ripetuti della vita, nei bambini che leggono, nei tavoli apparecchiati.

Dove altri artisti cercavano il divino nei cieli o nelle montagne, Carl Larsson lo trovava tra le pareti di casa. Il suo universo non era fatto di visioni mistiche, ma di stanze luminose, bambini che leggono, tende ricamate con amore.
La vita quotidiana, per Larsson, non era banale: era sacra nella sua semplicità.

Pittore e illustratore svedese vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Larsson ha saputo trasformare la propria esistenza in un’opera d’arte.
I suoi acquerelli più celebri, raccolti nel volume Ett Hem («Una casa», 1899), mostrano scene intime e domestiche, immerse in una luce pulita e affettuosa. Nessun dramma, nessuna ostentazione. Solo la serenità delle cose vere.

Come scrisse lui stesso:

«Non c’è nulla di più grande del vivere bene con chi si ama, tra cose belle e oneste, e trovare lì la propria pace.»

La sua arte, a tratti quasi illustrativa, non ha bisogno di simbolismi. Eppure, in ogni oggetto dipinto si avverte un senso del rituale sottile, un rispetto silenzioso per il tempo che passa e per ciò che resta.
In questo senso, Larsson costruisce un’iconografia laica: la madre non è una Madonna, ma una figura viva, piena di dolcezza e forza. I figli non sono cherubini, ma bambini veri, in carne e ossa, colti in momenti di gioco, studio, riposo.

«Ogni stanza è un altare. Ogni gesto quotidiano è una preghiera fatta di mani e di luce»: è questo il messaggio implicito nei suoi lavori.

E non a caso, la sua casa a Sundborn divenne essa stessa un simbolo: una fusione tra estetica e vita, tra bellezza e intimità.

In un’epoca in cui l’arte si divideva tra accademia e provocazione, Larsson scelse la tenerezza. E la rese rivoluzionaria.
La sua spiritualità non guarda il cielo: si siede accanto a te, ti versa il tè, ti chiede com’è andata la giornata.

L’anima animale – Bruno Liljefors (Svezia)

Fox in Winter Landscape By Bruno Liljefors

Liljefors non dipinge animali, li prega. Con lo stesso pudore con cui si accarezza un dio che non parla la nostra lingua.

Tra tutti i pittori del Nord, Bruno Liljefors è forse il più silenzioso.
Non per assenza di suono, ma per quel tipo di silenzio che si sente solo nei boschi al mattino, quando la neve è ancora intatta e gli animali sono attenti al minimo fruscio.
Il suo mondo non è abitato da uomini, né da santi: è popolato da volpi, cervi, uccelli, lepri, gufi. Ma questi animali non sono decorativi, né allegorici. Sono anime viventi, osservate e dipinte con una partecipazione che confina con la preghiera.

Nato in Svezia nel 1860, Liljefors fu anche cacciatore, ma soprattutto osservatore.
I suoi quadri — come Faina tra le rocce, Falco che attacca stormi di beccacce, Lepri nella nevenon cercano la spettacolarità, bensì la verità dello sguardo animale, la coerenza dell’habitat, la tensione nascosta nella calma.
Dipinge ciò che è reale, ma lo fa con una tenerezza quasi mistica.

Rispetto a Franz Marc, suo contemporaneo e quasi gemello spirituale, Liljefors non si spinge nel simbolismo cromatico o nell’astrazione emozionale. Il suo linguaggio resta naturalistico, ma l’intensità con cui guarda l’animale è la stessa.

«Non per capirli, ma per stare con loro», potremmo dire.

C’è un’etica silenziosa nella sua pittura: non rappresenta l’animale per dominarlo, ma per restituirgli dignità, presenza, mistero.
Il gesto pittorico di Liljefors è sempre attento, misurato, quasi umile. Come se ogni pennellata fosse un avvicinamento rispettoso, un passo fatto nel bosco senza far rumore.

Qui la spiritualità è tutta nella coesistenza. Non c’è un messaggio da trasmettere, né un credo da illustrare. C’è soltanto un mondo condiviso tra creature, dove la bellezza nasce dal non interferire.
E in questa delicatezza, l’arte diventa silenziosamente sacra.

L’eleganza e il corpo – Anders Zorn (Svezia)

In Zorn, l’incarnazione non è un mistero divino: è la carne stessa, nella sua bellezza effimera.

Con Anders Zorn, la spiritualità scende sulla terra, entra nei corpi, si mescola all’acqua, alla luce, al gesto danzante. Non c’è bisogno di santi, né di simboli sacri, per percepire il miracolo dell’esistenza: basta uno sguardo sul corpo umano immerso nella natura, libero, luminoso, vitale.

Zorn — pittore svedese nato nel 1860 e attivo tra il realismo e l’impressionismo — è noto per i suoi ritratti raffinati, i nudi femminili, e per una straordinaria capacità di catturare la luce viva sulla pelle, sull’acqua, nei riflessi del paesaggio nordico.
Ma nei suoi dipinti non c’è provocazione, né voyeurismo. C’è la celebrazione del corpo come verità, come presenza temporanea e gloriosa.

In opere come Nudo in riva al lago, Midsommardans o Sommarnoje, la carne non è peccato, ma incarnazione della gioia di essere al mondo.
Zorn guarda i suoi soggetti con una curiosità affettuosa, mai invasiva, e li inserisce in un contesto naturale che non li giudica, ma li accoglie.

«Dipingere il corpo è come dipingere la luce: non è mai uguale, non si può possedere, si può solo onorare», avrebbe potuto dire.

E nei suoi quadri si avverte esattamente questo: una sacralità terrena, libera da ogni dottrina, che nasce dal contatto tra la pelle e l’aria, tra il movimento e lo spazio. La spiritualità, qui, è vitalità.

Zorn non dipinge ideali astratti: dipinge la vita che accade.
E in questo, il suo sguardo è profondamente moderno. Il corpo non è strumento, né tempio: è il centro stesso della nostra esperienza, fragile, effimero, luminoso.
Un frammento di eternità che passa, e proprio per questo è sacro.

Contrappunto tedesco

Se i pittori nordici ci hanno mostrato che la spiritualità può vivere nel paesaggio, nella casa, nel corpo o negli animali, in Germania l’arte ha cercato una risposta simile, ma con tre voci distinte, profondamente moderne.
Friedrich, Spitzweg e Marc sono un trittico profano che racconta il senso dell’esistere senza santi, ma con uno sguardo rivolto all’invisibile.

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle.

Friedrich – La preghiera del paesaggio

«Friedrich non dipinge ciò che si vede, ma ciò che ci guarda da dentro mentre lo guardiamo: il paesaggio come interrogazione dell’anima.»

Caspar David Friedrich (1774–1840) è il più mistico tra i pittori senza Dio. Le sue tele sono paesaggi dell’anima, sospesi tra la percezione del reale e una dimensione interiore più vasta, inaccessibile. In opere come Viandante sul mare di nebbia, Monaco sulla riva del mare, o Abbazia nel querceto, il paesaggio non è semplice scenario naturale, ma uno spazio sacro svuotato di teologia.

Il viandante che contempla l’orizzonte, piccolo tra le rocce e le nebbie, non rappresenta un eroe romantico, ma ogni essere umano davanti all’ignoto. Non c’è narrazione, solo presenza: una figura di spalle, silenziosa, che si perde nel mondo e si misura con esso.
Friedrich non mostra Dio, ma ciò che resta dopo: l’enigma. Il vuoto che riempie.

Il suo è un linguaggio visivo ascetico ma visionario: la luce è spirituale, ma senza redenzione; le rovine gotiche non alludono a un passato glorioso, ma a una fede che si è dissolta, lasciando solo struttura, forma, attesa.

“L’artista deve chiudere gli occhi del corpo per aprire quelli dell’anima

scriveva. E così, quadro dopo quadro, Friedrich costruisce una nuova iconografia del sacro: fatta non di santi, ma di silenzi, di nebbia, di alberi secchi, di orizzonti come ferite aperte.

La sua arte non consola né spiega. Ma ci ricorda che ogni passo nell’infinito è un atto di pensiero, di meditazione, di speranza muta.
Un atto umano, quindi spirituale.

Carl Spitzweg – Il santo della malinconia borghese

«Spitzweg è il pittore di chi non sarà mai santo: bibliotecari, filosofi, pensionati, malinconici senza miracoli — ma con tutta la dignità del vivere.»

Carl Spitzweg (1808–1885) è il pittore del quotidiano dimenticato, dell’ironia domestica, della poesia delle piccole cose. Mentre la Germania ottocentesca si industrializzava e l’arte celebrava la storia, la nobiltà o il sublime romantico, Spitzweg si ritraeva negli angoli, nei tetti inclinati, nelle stanze minuscole, per dipingere i margini dell’esistenza.

Nei suoi quadri — come Il topo di biblioteca, Il poeta povero, Il collezionista di farfalle non troviamo eroi né santi, ma figure eccentriche, marginali, buffe e meravigliosamente umane. Sono uomini anziani, distratti, solitari. Ma guardati con una pietà quieta, mai giudicante.
La sua pittura sorride, ma non deride.

Spitzweg possiede una dolcezza ironica che sfiora la tenerezza religiosa. Ogni personaggio è immerso nel proprio mondo con una tale intensità da renderlo sacro: un vecchio che legge nella penombra, un povero poeta sotto la neve con un ombrello rotto, un naturalista assorto nella contemplazione di una farfalla. Nessuna di queste vite è eccezionale, ma tutte sono trattate con attenzione e cura.
Questa è la sua santità laica: quella di chi non ha fatto miracoli, ma ha abitato il proprio tempo con grazia.

Nel suo sguardo, l’uomo qualunque diventa degno di attenzione pittorica, come se anche lui avesse una sua icona personale — non su un altare, ma su una tela silenziosa, immersa in toni pastello e umorismo delicato.
Un umorismo che consola più di mille dogmi.

Franz Marc – L’animale come visione

«In Marc, il colore è preghiera. Non per l’uomo, ma per l’animale. Per una natura che sente e soffre, che ha occhi che non parlano e cuori che vedono.»

Franz Marc (1880–1916), membro fondatore del gruppo Der Blaue Reiter, fu un pittore visionario che cercò nell’animale la chiave per superare l’umanesimo decadente dell’Occidente.
Nel suo mondo, gli animali non sono soggetti esotici o decorativi, ma creature spirituali, custodi di una purezza perduta, di un legame originario con il cosmo.

I suoi cavalli blu, le volpi, le mucche, i cervi, non sono realistici né simbolici nel senso classico. Sono visioni, forme viventi in cui colore e spirito coincidono.
Il blu non è solo blu: è spiritualità, profondità, nostalgia. Il rosso è passione, tensione. Il giallo è vitalità solare.
La sua tavolozza non descrive, evoca. La pittura è preghiera cromatica.

Marc, influenzato dalla teosofia, dal pensiero orientale e da una profonda sensibilità ecologica ante litteram, vedeva nell’animale un riflesso di ciò che l’uomo ha dimenticato.
E così, attraverso l’arte, tenta una riconnessione: non per idealizzare, ma per capire, per onorare, per ascoltare.

Lui non dà voce agli animali. Li guarda. Li lascia parlare nel loro silenzio.
E questo sguardo, umile e radicale, è oggi più attuale che mai.

Nel 1916, a soli 36 anni, Marc cade sul fronte della Prima guerra mondiale. Il mondo animale che aveva celebrato fu travolto dall’orrore umano. Ma le sue opere restano: come reliquie di una fede laica in ciò che è vivo, e fragile, e bellissimo.

Conclusione – L’arte senza santi non è senza anima

Abbiamo attraversato paesaggi gelati, interni domestici, corpi nudi e animali selvatici. Non abbiamo incontrato santi né miracoli, né aureole dorate. Eppure, qualcosa ci ha toccati comunque.

La spiritualità non ha bisogno di altari per manifestarsi.
Può abitare una montagna innevata, uno sguardo animale, un gesto familiare, un colore acceso che non rappresenta nulla, ma dice tutto.

In questi artisti — nordici e tedeschi — abbiamo visto un’arte che non predica, non impone, non converte. Contempla. Ascolta. Accompagna.
Ci invita a stare con le cose, con la natura, con il corpo, con la malinconia e la gioia del vivere quotidiano.

Oltre il sacro non è negazione, ma passaggio. È la scoperta che, anche quando si smette di cercare Dio, si può continuare a cercare il senso.
E a volte, nelle tele di Sohlberg, Larsson, Liljefors, Zorn, Friedrich, Spitzweg, Marc, quel senso si manifesta come un silenzio pieno, come una bellezza che non salva — ma consola.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

 

«L’URLO DI MUNCH: ANGOSCIA UNIVERSALE E TORMENTO DELL’ANIMA MODERNA»

 

 

 

 

 

 

 

 

📚 Bibliografia essenziale

Testi critici e monografici:

  • Werner Hofmann, Caspar David Friedrich, Thames & Hudson, 2000.
  • Karin Sidén (a cura di), Carl Larsson och Sundborn, Nationalmuseum Stockholm, 2008.
  • Göran Söderström, Bruno Liljefors – Ett liv, Atlantis Förlag, 2002.
  • Gerda Boehm, Franz Marc: The Animals’ Painter, Prestel, 1998.
  • Hans Henrik Brummer, Anders Zorn: Sweden’s Master Painter, Nationalmuseum Stockholm, 2010.
  • Øystein Loge, Harald Sohlberg: Infinite Landscapes, The National Museum, Oslo, 2018.
  • Norbert Wolf, Carl Spitzweg: Between Romanticism and Biedermeier, Taschen, 2006.

Articoli e saggi tematici:

  • Robert Rosenblum, Modern Painting and the Northern Romantic Tradition: Friedrich to Rothko, Harper & Row, 1975.
  • J. Clark, The Sight of Death: An Experiment in Art Writing, Yale University Press, 2006.
  • Erika Billeter (a cura di), The Spiritual in Art: Abstract Painting 1890–1985, Los Angeles County Museum of Art, 1986.

🖼️ Elenco delle opere citate e ubicazione

Harald Sohlberg

  • Winter Night in the Mountains (Vinternatt i Rondane, 1914)📍 The National Museum, Oslo, Norvegia

Carl Larsson

  • Interiors from “Ett Hem” (A Home), vari acquerelli📍 Carl Larsson-gården (Sundborn, Svezia) – casa-museo📍 Nationalmuseum, Stoccolma

Bruno Liljefors

  • Lepri nella neve (Harar i snö, 1901)📍 Göteborgs konstmuseum, Göteborg, Svezia
  • Faina tra le rocce (Iller i bergsskreva)📍 Nationalmuseum, Stoccolma
  • Falco che attacca stormi di beccacce📍 Museo privato / collezione incerta

Anders Zorn

  • Midsommardans (Danza di mezza estate, 1897)📍 Nationalmuseum, Stoccolma
  • Nudo in riva al lago (Ute, 1888)📍 Zornmuseet, Mora, Svezia
  • Sommarnoje (Piacere d’estate, 1886)📍 Museo privato / precedentemente collezione Thielska Galleriet, Stoccolma

Caspar David Friedrich

  • Viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer, ca. 1818)📍 Hamburger Kunsthalle, Amburgo, Germania
  • Abbazia nel querceto (Abtei im Eichwald, 1810)📍 Alte Nationalgalerie, Berlino

Carl Spitzweg

  • Il poeta povero (Der arme Poet, 1839)📍 Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
  • Il topo di biblioteca (Der Bücherwurm, 1850)📍 Museum Georg Schäfer, Schweinfurt

Franz Marc

  • Cavallo blu I (Blaues Pferd I, 1911)📍 Städtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco di Baviera
  • La volpe blu (Die kleinen blauen Füchse, 1913)📍 Museo privato o disperso durante la guerra (versioni simili in collezioni pubbliche)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Controllate anche

«DISFORIA DAL MONDO REALE»

Contro il riarmo, ma con lo spartito della NATO. …