Fascismo è una parola buona per tutti gli usi e per tutti i tempi
ORFANO DI PATRIA
Scrisse Ennio Flaiano nel 1957 che in Italia vi sono due tipi di fascisti: quelli propriamente detti e gli antifascisti. Sembra ieri e sono passati quasi settant’anni. Lo scrivano balbettava le prime parole ed è ancora orfano di Patria. Fascismo è una parola buona per tutti gli usi e per tutti i tempi. Monopolizzata dalla sinistra, evitata con tremore dalla palude moderata, temutissima dalla destra che ne è l’obiettivo, si adatta a ogni situazione sgradita e definisce ogni male. L’accusa di fascismo è la scomunica scagliata come una freccia avvelenata contro qualsiasi cosa, idea, persona, circostanza che non piace alla gente che si piace. In Italia, a ottant’anni dalla fine del fascismo, si continua a pretendere da chiunque professione di antifascismo, analisi del sangue che certifichi l’inesistenza di globuli neri.
La polemica del 2024 (Anno 79 dell’Era Antifascista) coinvolge Antonio Scurati, scrittore napoletano vincitore del premio Strega nel 2019 per il primo volume di una trilogia dedicata a M., ovvero Mussolini, “il figlio del secolo”.(1) Il Ventesimo, anche se è trascorso già un quarto del Ventunesimo. Al di là delle carriere di docente e letterato, Scurati è un antifascista professionale, con il conto corrente alimentato dalle vendite del suo best seller. Nella circostanza – un breve e ben retribuito monologo sulle malefatte dell’esecrato regime morto tre generazioni or sono – l’illustre intellettuale si atteggia a martire della censura di un governo criptofascista. Ci sarebbe da ridere di gusto, se non fosse la realtà permanente di un paese (lettera minuscola) che ha cessato da tempo di essere Patria. Sull’evidenza liberale, atlantica, filoamericana dell’esecutivo parlano la cronaca, i fatti, le decisioni. Il fascismo eterno , però, è immortale; la fiamma è alimentata dagli antifascisti di mestiere, diventati gerarchi di un grottesco fascismo capovolto, con il suo Minculpop (il Ministero della Cultura Popolare) i suoi sacerdoti (uno è Scurati stesso, un’altra fu la defunta Michela Murgia, che inventò il fascistometro) i suoi ultras (Christian Raimo, l’insegnante che esorta a picchiare l’Uomo Nero) i suoi riti ( le manifestazioni del 25 aprile, con annesso dibattito sull’ammissione degli eredi della brigata partigiana ebraica e dei politici di centrodestra) e le sue leggi (la XII disposizione transitoria e finale della costituzione che vieta la rifondazione del “disciolto partito fascista”).
L’ultimo arruolato è Italo Bocchino, ex dirigente del MSI, che ha rivelato in un’intervista di essere antifascista, benché “non senta il bisogno di dirlo”. Dillo, Italo, dillo ancora, così rideranno – giustamente – della tua proclamazione di antifascismo in ritardo di tre quarti di secolo; un bel tacer non fu mai scritto. Affermo la mia condizione di orfano di Patria. Simpatizzavo per il defunto Msi già a tredici anni. Non per fascismo infantile, ma per difendere con l’ardore dei ragazzi l’onore di mio padre e del suo amico più caro, Gino detto Bacchia, che si arruolarono nella Repubblica Sociale, subirono il prezzo della sconfitta e ricominciarono, come tanti. Non sopportavo che i miei cari venissero diffamati, definiti criminali, violenti, malvagi. Fecero una scelta, pagarono il conto. Mio padre, Gino e altri che conoscevo erano brave persone. Insegnavano ai figli l’onestà, l’amore per la Patria, il rispetto verso la famiglia, Dio e il lavoro. Non festeggiavo il 25 aprile allora, non lo festeggio adesso che è la caricatura di se stesso. Morti i partigiani, morti i fascisti, resta il sabba in cui ognuno deve gridare più forte quanto è antifascista. Proclamiamo vincitori a pari merito Scurati e Bocchino (il figliol prodigo accolto nella casa del padre) e finiamola.
Invece no. Dobbiamo leggere i manifestini tricolori con scritto Viva il 25 aprile e ripetere il rito. Scrisse Ernesto Galli Della Loggia che l’8 settembre 1943 fu la morte della Patria. Sconfitta sul piano militare, con il re in fuga, l’esercito sbandato e una nazione felice per l’armistizio e poi gelata dalla tremenda notizia: la guerra continua. Con alleati invertiti: i tedeschi da amici divennero occupanti, le bombe degli “alleati” cadevano su città e infrastrutture. Un’uccisa centinaia di bambini a Milano, ma non sono martiri della “nuova” Italia. Dimenticati anche i caduti dal 1940 al 1943.
Poi i fascisti si riorganizzarono e non furono teneri con i “ribelli”, i partigiani che andavano formando le loro brigate. Al Sud rinacque un esercito fedele al re, cobelligerante a fianco degli alleati. Vinse la forza delle armi angloamericane, il che non impedì di considerare l’Italia per quello che era: una potenza sconfitta. Pure, l’Italia festeggiò perché finiva la guerra. Poi arrivarono le vendette: politiche e private. Altre migliaia di morti a guerra finita tra i perdenti, come hanno mostrato i libri di un antifascista, Giampaolo Pansa. La Repubblica nacque da un referendum farlocco – brogli organizzati, impossibilità di votare per molti italiani e in alcune province occupate – che cacciò i Savoia. Lo meritavano per le loro condotte. La nuova Italia doveva pur fondare se stessa su qualcosa: nacque il mito della liberazione.
Come ogni mito, c’è del vero e del falso. Vero è che gli italiani, fascisti sino a poco prima, non ne potevano più di guerra, morte e privazioni e furono lieti di chiudere con il passato. Falso è che la liberazione da un regime durato solo una generazione abbia fondato la storia comune, falso che i “liberatori” fossero poche decine di migliaia di partigiani male armati e non la macchina da guerra alleata. Ancora più falsa, come dimostrarono i trattati di pace, le perdite territoriali, i protocolli che hanno limitato la sovranità nazionale, è la narrativa secondo cui l’Italia vinse perché finì il fascismo.
Questa è la storia che ci hanno raccontato. Non ci credo, dunque sono orfano di Patria. Orgogliosamente italiano per cultura, nazionalità e lingua, poco mi importa di essere cittadino della Repubblica. Eppure, ci viene suggerito che il patriottismo ammesso è quello “costituzionale” fondato sulle “buone” leggi. La costituzione è brandita come arma, definita la più bella del mondo, mentre fu un onesto compromesso tra le culture politiche del suo tempo, comunismo, socialismo, cattolicesimo sociale, qualche spruzzata di liberalismo. Lo scrisse sinceramente Piero Calamandrei, del cui antifascismo non si può dubitare. Costituzione bellissima, dicono, ma inservibile: diversi articoli non sono applicati – specie nell’ambito economico e sociale – altri, come l’articolo 11 sulla sovranità e la guerra sono del tutto capovolti. In più, il diritto dell’Unione Europea prevale su quello nazionale, comprese le norme costituzionali.
Infastidisce, più della diatriba fascismo-antifascismo consegnata alla storia, la tenace volontà dell’Italia ufficiale di considerare il 25 aprile data fondante della storia italiana. Perciò sono orfano: una Patria l’avevo e non c’è più. Il nostro è l’unico paese – sempre minuscolo – che non festeggi una nascita. Potrebbe essere il 17 marzo, la proclamazione del Regno d’Italia (1861) ma l’istituzione monarchica è unita al fascismo nella damnatio memoriae. Potrebbe essere il 4 novembre, la Prima guerra mondiale vinta nell’immane carnaio che uccise la gioventù europea. Potrebbe persino essere il 1° gennaio, data dell’entrata in vigore della Costituzione (1948), se dobbiamo essere patrioti costituzionali. No, scelsero il 25 aprile, una guerra perduta con quasi due anni di feroce conflitto tra italiani. Le guerre civili sono traumi che si rimarginano a fatica, e solo se si cauterizza immediatamente la ferita. Nonostante l’amnistia Togliatti – il capo comunista! – questo non è accaduto; agli italiani si offre una memoria amputata che esclude moltissimi. I fascisti, benché abbiano riavuto un ruolo politico (a Italo Bocchino riveliamo che il MSI di cui fu militante e dirigente non era antifascista). Ma anche i milioni di italiani che del conflitto furono testimoni e vittime ma non protagonisti.
Soprattutto la memoria non coinvolge generazioni indifferenti alle cause del trapassato. Chi scrive rifiuta oggi una contrapposizione che aveva senso nella sua gioventù, quando i protagonisti erano vivi e forti, quando la generazione dei figli (di cui fa parte) sentiva bruciare le ferite dei padri. Per questo l’orfano non festeggia e non si veste più a lutto. In assenza di pacificazione, resta l’oblio, il tempo che scorre. I torti e le ragioni di quell’epoca sono oggi incomprensibili a molti. La libertà di pensiero, parola, associazione, che il fascismo non rispettò, è oggi in pericolo. Va difesa contro molti, tra cui i liberatori di allora. Oh, sono ancora qui, hanno cento basi militari, ci hanno colonizzato, si sono impadroniti anche della nostra lingua imbastardita, hanno a servizio il sistema politico.
Chi scrive ha amato selvaggiamente la libertà in quanto impedito a esercitarla dagli antifascisti. Comprende perciò chi ha compiuto lo stesso percorso negli anni della guerra, schierandosi contro il regime. Arriva a comprendere chi scelse il comunismo, che con la libertà c’entrava pochissimo. Almeno, era una visione del mondo. Ma liberazione no, è parola che non ci appartiene: libertà negativa, “da”, non “per”. Il fascismo non c’è più, evitiamo dopo ottant’anni di fare legna con l’albero caduto (Italo, con i neofascisti hai campato) chiudiamo l’ordalia di fine aprile contro un nemico inesistente. Smettano di esigere patenti di antifascismo fuori tempo massimo e di impartire lezioncine con dito alzato e tono moraleggiante. Drammi e problemi nuovissimi ci costringono a prendere posizione su temi estranei alle contrapposizioni dei nonni. Il 25 aprile e in ogni altro giorno che cosa pensiamo dei venti di guerra, della prevalenza della finanza, della fine della sovranità, del lavoro precario, della tecnologia padrona e privatizzata, del cibo artificiale, della dittatura sanitaria dell’OMS, della destrutturazione dell’uomo nei suoi fondamenti biologici, etici, sessuali? È fascista o antifascista il dibattito su questi temi? È fascista o antifascista il pensiero unico, il politicamente corretto, il “discorso di odio”? L’ orfano di Patria è orfano di libertà.
Roberto PECCHIOLI
Approfondimenti del Blog
Vincitore Premio Strega 2019, proposto da Francesco Piccolo.
Il primo romanzo sul fascismo raccontato attraverso Benito Mussolini: il figlio di un secolo che ci ha reso quello che siamo.
«Con M Scurati ha raggiunto la maturità artistica di chi guarda finalmente in faccia il suo demone e può chiamarlo per nome: Mussolini, il nome della nostra sconfitta» – Daniele Giglioli, la Lettura
«Il romanzo che l’Italia aspettava da decenni. Un capolavoro» – Roberto Saviano
«Un esperimento narrativo mai tentato prima nella cultura letteraria italiana» – Simonetta Fiori, il venerdì
“Io sono lo sbandato per eccellenza, il protettore degli smobilitati, lo sperduto alla ricerca della strada. Ma l’azienda c’è e bisogna portarla avanti. In questa sala semivuota, dilatate le narici, fiuto il secolo, poi tendo il braccio, cerco il polso della folla e sono sicuro che il mio pubblico ci sia.”
Lui è come una bestia: sente il tempo che viene. Lo fiuta. E quel che fiuta è un’Italia sfinita, stanca della casta politica, della democrazia in agonia, dei moderati inetti e complici. Allora lui si mette a capo degli irregolari, dei delinquenti, degli incendiari e anche dei “puri”, i più fessi e i più feroci. Lui, invece, in un rapporto di Pubblica Sicurezza del 1919 è descritto come “intelligente, di forte costituzione, benché sifilitico, sensuale, emotivo, audace, facile alle pronte simpatie e antipatie, ambiziosissimo, al fondo sentimentale”. Lui è Benito Mussolini, ex leader socialista cacciato dal partito, agitatore politico indefesso, direttore di un piccolo giornale di opposizione. Sarebbe un personaggio da romanzo se non fosse l’uomo che più d’ogni altro ha marchiato a sangue il corpo dell’Italia. La saggistica ha dissezionato ogni aspetto della sua vita. Nessuno però aveva mai trattato la parabola di Mussolini e del fascismo come se si trattasse di un romanzo. Un romanzo – e questo è il punto cruciale – in cui d’inventato non c’è nulla. Non è inventato nulla del dramma di cui qui si compie il primo atto fatale, tra il 1919 e il 1925: nulla di ciò che Mussolini dice o pensa, nulla dei protagonisti – D’Annunzio, Margherita Sarfatti, un Matteotti stupefacente per il coraggio come per le ossessioni che lo divorano – né della pletora di squadristi, Arditi, socialisti, anarchici che sembrerebbero partoriti da uno sceneggiatore in stato di sovreccitazione creativa. Il risultato è un romanzo documentario impressionante non soltanto per la sterminata quantità di fonti a cui l’autore attinge, ma soprattutto per l’effetto che produce. Fatti dei quali credevamo di sapere tutto, una volta illuminati dal talento del romanziere, producono una storia che suona inaudita e un’opera senza precedenti nella letteratura italiana. Raccontando il fascismo come un romanzo, per la prima volta dall’interno e senza nessun filtro politico o ideologico, Scurati svela una realtà rimossa da decenni e di fatto rifonda il nostro antifascismo.