”Paolo Rossi, il simbolo dell’Italia felice. È morto Pablito l’anti Maradona eroe semplice di tutti: strana la vita pochi giorni dopo Maradona muore prematuramente un altro grande del pallone grazie per l’esempio umile e discreto
Io non c’ero, quel giorno afoso di luglio 1982 al Sarrià, lo stadio dell’altra Barcellona, del piccolo RCD Espanol in cui si giocò Italia-Brasile, semifinale del campionato mondiale di calcio. Ma è come se fossi stato proprio lì, a gioire per quei tre gol di Paolo Rossi, da quel giorno per sempre Pablito, che fecero piangere il Brasile e portarono in orbita la nazionale di Enzo Bearzot. Pochi giorni dopo, avremmo battuto la Germania, conquistando il terzo titolo mondiale nel mitico Bernabeu, tempio del Real Madrid. Anche quel giorno segnò Pablito, pur se nell’epica popolare resta soprattutto l’esultanza di Marco Tardelli. Una nazione intera si trovò unita, a milioni per le strade, il tricolore dappertutto. Sì, era solo calcio, ma Paolo Rossi riconciliò l’Italia con la sua bandiera, la sua unità, la sua appartenenza.
Fu un fenomeno enorme, unico, che non si ripeté con la stessa intensità per la vittoria azzurra ai mondiali tedeschi del 2006. Era già un’Italia diversa, involgarita, un po’ bastarda e un po’ gaglioffa. C’era voglia di festeggiare nel 1982, di guardarsi in faccia, riconoscersi, una volta almeno, davvero Fratelli d’Italia, abbracciarsi anche se ci si incontrava per la prima volta. Paolo Rossi sdoganò il tricolore e la bandiera. Tutto merito di un ragazzo di Santa Lucia, periferia di Prato, e lasciatemi proclamare con orgoglio che sono pratese anch’io, per parte di padre. Come Pablito e come Malaparte, per il quale il guaio degli italiani era di non essere tutti toscani e quello dei toscani di non essere tutti pratesi.
È strana la vita: pochi giorni dopo Maradona, muore prematuramente un altro grande del pallone. È morto Pablito, l’anti Maradona. Ragazzo umile, cresciuto in parrocchia, centravanti dai colpi non spettacolari, ma dall’incredibile fiuto del gol, sarà per sempre il simbolo di un “Italia felice” che non c’è più, purtroppo. Erano ancora gli anni di piombo, ma il terrorismo era vicino alla sconfitta, i governi – con tutti i loro limiti e difetti – accompagnavano la crescita continua dell’Italia. Iniziavano gli anni della “Milano da bere “. Paolo Rossi ci rappresentò tutti: sapeva vincere, segnare, sempre con il sorriso dell’uomo umile e la discrezione dell’amico, del vicino di casa. Nessun eccesso, mai fuori delle righe.
Per questo nessuno gli intitolerà fulmineamente uno stadio scacciando San Paolo, stampa e televisione non ricameranno per giorni e settimane sulla sua vita, su figli segreti, droga, alcool e amicizie pericolose. No, Pablito non era un uomo di quel genere. Terminata la stagione dei successi calcistici, si è ritirato nelle sue vigne toscane e venete, nell’amata Vicenza dove sbocciò campione al tempo del cosiddetto Real Vicenza allenato da un mago del calcio di provincia, un altro figlio di quell’Italia felix che non c’è più, l’emiliano G.B. Fabbri. Arrivarono a un passo dallo scudetto, con un portiere un po’ goffo, Ernesto Galli anch’egli morto da poco, il piccoletto Filippi, Ezio Vendrame e Cerilli il biondo.
Pablito vinse il campionato del mondo dopo due anni di sosta forzata: incappò nel primo scandalo delle scommesse, fu squalificato da innocente. Soffrì in silenzio, tornò in campo pochi mesi prima delle prodezze spagnole con la maglia della Juventus e fu di nuovo un grande. Era uno dei pochi calciatori che nessun tifoso di squadre avversarie odiasse: troppo sereno, troppo tranquillo e discreto. All’Italia felice non importava che maglia indossasse la domenica Paolo Rossi – all’ epoca le partite si giocavano la domenica pomeriggio –, bei tempi, con la radiolina per strada incollata all’orecchio, “scusa Ameri”, l’urlo di Sandro Ciotti in Tutto il calcio minuto per minuto.
Pablito era l’eroe semplice di tutti, quello che tornò grande nonostante una squalifica ingiusta e segnava a raffica, di testa, di piede, da lontano e da vicino, in semplicità, come un fatto naturale, con la maglia del Vicenza, della Juventus e del Perugia, con l’azzurro della nazionale di tutti.
Ho un ricordo personale e particolarissimo di quei giorni: un anziano militante comunista di mia conoscenza era indignato di vedere per le strade “il tricolore dei padroni” e mandava al diavolo quell’italiano dal nome comunissimo, Paolo Rossi, che portava in piazza milioni di connazionali felici. Povero compagno di allora, che non aveva capito niente, prigioniero del suo rancore. Pablito fu il simbolo di una felicità semplice, di un orgoglio ritrovato. Come ogni bel gioco, quell’attimo durò poco. Lui, l’artefice, il protagonista che avrebbe potuto essere padrone d’Italia, dopo il ritiro non fece parlare di sé, non dette origine a scandali né polemiche. Tornò Paolo, un italiano qualunque che amava la famiglia, la vita, la terra.
Quanto sarebbe migliore il mondo se gli esempi fossero quelli come lui, Gigi Riva e Gaetano Scirea, non tossicodipendenti alcoolizzati carichi di figli non riconosciuti. La mia generazione – sono quasi coetaneo di Pablito – è racchiusa in quel mezzo sorriso di eterno ragazzo un po’ timido, nell’umiltà con cui ha attraversato la vita. Con sobrietà, senza eccessi, in punta di piedi. Non frequentò la mondanità, non mise il suo nome (il “marchio” Pablito) al servizio del mercato e del baccano mediatico e pubblicitario. È forse questo il vero miracolo, la lezione che ci lascia quel giovin signore in pantaloncini, ultimo alfiere di un’Italia sudata e felice, vincente senza esagitazione e senza ostentazione.
Forse non poteva chiamarsi altro che Paolo Rossi, uno che rappresenta tutti, in cui tutti noi, nati nello Stivale, possiamo riconoscerci. Addio, gioioso simbolo della nostra gioventù. Ti onoreranno nel duomo di Vicenza, con Prato la città della tua vita. Il papa non donerà un rosario alla tua famiglia: tu non eri un Dio, eri solo un campione, un ragazzo che faceva gol senza escandescenze. Con te se ne va, ma davvero, un pezzo di noi: come eravamo belli! Ti possiamo dire arrivederci solo con le parole di un tuo grande ammiratore, il grande giornalista Gianni Brera che coniò per te il nome di Pablito: che la terra ti sia lieve!
Grazie da quell’Italia felice di allora, per quella sera del Sarrìà, grazie per il Bernabeu, grazie per l’esempio umile e discreto.
Roberto Pecchioli