“La notte di natale del 1948, accanto al presepio – l’albero non si usava -, la maggioranza dei bambini italiani trovò come regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli. Iva, una bambina di Gallicano In Garfagnana che allora aveva dieci anni e ora ne ha ottanta, ricorda un sacchetto di fichi secchi, ceci, castagne. Sulle Langhe la piccola Anna ebbe una mucca di terracotta piena di caramelle.
La trama del romanzo.
”L’Italia della Ricostruzione” è il sottotitolo di “Giuro che non avrò più fame” di Aldo Cazzullo.
Partendo da questa riflessione l’autore in queste pagine racconta l’anno-chiave della Ricostruzione, il 1948. Lo scontro del 18 aprile tra democristiani e comunisti, esattamente 70 anni fa, quando gli italiani furono chiamati a votare per la prima volta dopo l’entrata in vigore della Costituzione. L’attentato a Palmiro Togliatti e l’insurrezione che seguì. La vittoria al Tour de France di Gino Bartali che calmò gli animi assetati di vendetta e l’era dei campioni poveri: Fausto Coppi e il Grande Torino, cui restava un anno di vita. Le figure dei Grandi Ricostruttori, da Valletta a Enrico Mattei, da Olivetti a Einaudi. Il celebre discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi il 10 agosto 1946: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”, esergo del testo.
Il ruolo fondamentale delle donne, le cui condizioni di vita erano durissime, anche se iniziavano allora ad affacciarsi alla vita pubblica, da Lina Merlin, prima donna a essere eletta al Senato, che si batte contro le case chiuse, alla giovane attrice Anna Magnani che porta al cinema la vita vera con “Roma città aperta”. La Dama Bianca, Giulia Occhini, colpevole di adulterio, innamorata ricambiata di Fausto Coppi. L’epoca della rivista: Wanda Osiris e Totò, Macario e Govi, il giovane Alberto Sordi e Nilla Pizzi. “Un’Italia che sapeva ridere”, precisa l’autore.
Emblematico il titolo del saggio. Il primo film che le spettatrici italiane andarono a vedere dopo la fine della II Guerra Mondiale fu “Via col vento”, kolossal americano del 1939 diretto da Victor Fleming, adattamento dell’omonimo romanzo del 1936 di Margaret Mitchell. Molte spettatrici s’identificarono in una scena: Rossella O’Hara/Vivien Leight torna nella sua fattoria, Tara, la trova distrutta, e siccome non mangia da giorni, strappa una piantina, ne rosicchia le radici, la leva al cielo e grida: “Giuro che non soffrirò mai più la fame!”. Al pari dell’eroina di “Gone with the wind” quel giuramento collettivo fu ripetuto da milioni di italiane e di italiani. Fu così che settant’anni fa venne ricostruito un Paese distrutto, che aveva perso una guerra mondiale.
Così scrive Cazzullo:
Come inizia.
Uno
LO SPIRITO DEL NATALE PASSATO
La notte di natale del 1948, accanto al presepio – l’albero non si usava -, la maggioranza dei bambini italiani trovò come regalo un sacchetto di mandarini. A volte nemmeno quelli. Iva, una bambina di Gallicano In Garfagnana che allora aveva dieci anni e ora ne ha ottanta, ricorda un sacchetto di fichi secchi, ceci, castagne. Sulle Langhe la piccola Anna ebbe una mucca di terracotta piena di caramelle.
Riccardo, sette anni, di Molfetta, ricevette in dono un violino. Pianse e si lamentò: voleva un fucile di legno con il tappo. «Riccardo non è portato per la musica» commentò sconsolato il padre, un medico. Di cognome si chiamava Muti.
A Mariano del Friuli, Dino, sei anni, ebbe una canottiera di lana bianca a coste su cui la madre aveva ricamato in rosso il numero 1: le maglie vere delle squadre di calcio non erano in vendita, e in ogni caso la sua famiglia contadina non se la sarebbe potuta permettere; e lui che sognava di fare il portiere si allenava a parare le prugne che gli tirava la nonna.
Trentaquattro anni dopo, la famiglia Zoff avrebbe visto Dino riportare in Italia la Coppa del Mondo.
Avevamo 16 milioni di mine inesplose nei campi. Oggi abbiamo in tasca 65 milioni di telefonini, più di uno a testa, record mondiale.
Solo un italiano su 50 possedeva un automobile. Oggi sono 37 milioni, oltre unno su due.
Tre famiglie su quattro non avevano il bagno in casa; per lavarsi dovevano uscire in cortile o sul balcone.
L’Italia non esportava la tecnologia, ma braccia: minatori in cambio di carbone.
I soldi non valevano più nulla, mangiati dall’inflazione. Gran parte delle famiglie, tranne quelle che si erano arricchite con la borsa nera, erano rovinate. Stava on po’ meglio chi aveva investito nelle case; ma due milioni erano andate distrutte nei bombardamenti. Furono ricostruite in pochi anni. Oggi non riusciamo a coprire le buche delle strade della capitale.
I giornali non pubblicavano diete, ma consigli per alimentarsi con poco: il problema non era dimagrire, era ingrassare.
Eravamo un popolo di contadini poveri. Si faceva il bucato al lavatoio, in piedi, o nei corsi d’acqua, in ginocchio. Cucinavamo con la stufa a legna o a carbone, avevamo difficoltà a conservare i cibi, non avevamo idea di cosa fossero vacanze o weekend.
Non avevamo neppure l’orologio: la vita era scandita dalle campane ; ai rintocchi che segnalavano mezzogiorno tutti si fermavano, dicevano l’Angelus in un latino stentato, e da casa partivano le donne a portare il pranzo a chi lavorava nei campi.
Anche in città, per spostarci avevamo la bicicletta, per informarci la radio, per parlare il bar: solo il 7 per cento possedeva un telefono.
Eppure eravamo più felici allora di adesso. Al mattino ci si diceva: «Speriamo che oggi succeda qualcosa». Ora ci si dice: «Speriamo che oggi non succeda nulla».
La ricostruzione è una dei momenti nella storia d’Italia. Bisognerebbe scriverlo con l’iniziale maiuscola: Ricostruzione. Come il Risorgimento, il Piave, la Resistenza. Momenti di riscossa dopo la caduta, di cui essere orgogliosi. Ma oggi il malumore e il pessimismo sono tali che si parla piu1 dei briganti, di Caporetto, di Salò.
Della Ricostruzione non si parla mai. I giovani cresciuti al tempo della rete non sanno neppure cosa sia. Al piu1, la si confonde con il boom economico: la 600, la lavatrice, le prime estati al mare, l’Autostrada del Sole. Ma quella è storia di quindici anni dopo.
L’Italia del 1948 era un Paese a pezzi. Avevamo perso la guerra due volte: prima contro gli inglesi, i russi, gli americani; poi contro i tedeschi, che in pochi giorni avevano fatto prigionieri 800 mila nostri soldati. Ci eravamo dilaniati in una sanguinosa guerra interna. Il bilancio finale era spaventoso: 300 mila militari morti, 150 mila civili; in ogni famiglia si era aperto un vuoto, come dopo la Grande Guerra, finita appena trent’anni prima.
Gli italiani avevano sofferto moltissimo. E ancora pativamo la fame, il freddo, le malattie (anche se dall’America erano arrivate medicine sconosciute che facevano miracoli: gli antibiotici). Eppure sapevamo lavorare e divertirsi. Faticare dodici ore al giorno e uscire la sera a ballare. Appassionarsi alla politica. Sorridere. Guardare al futuro con fiducia, perché sarebbe stato migliore del presente se avessero dato il meglio di se stessi.
Riaprivano i teatri e se ne creavano di nuovi. Macario e Totò reinventano la rivista e restituiscono il gusto di ridere. A Milano Paolo Grassi e Giorgio Strehler ripuliscono le macchie di sangue nelle stanze del Broletto di via Rovello, dove i militi della Muti hanno torturato i resistenti, e ne fanno il Piccolo Teatro.
Rinasceva la grande musica. L’11 maggio 1946 Arturo Toscanini, tornato dall’esilio, inaugura la nuova Scala, ricostruita grazie alle donazioni dei milanesi; una folla enorme si raduna in piazza per ascoltare il concerto dagli altoparlanti. Nell’estate del 1947 esordiscono all’Arena di Verona una ragazza di Pesaro scampata alla poliomielite, Renata Tebaldi, e una giovane greca dalla cui bocca pare uscire la voce di Dio: Maria Callas.
Riaprivano i cinema. I film neorealisti che raccontano la durezza della nostra vita – Sciuscià, Ladri di biciclette, Paisà – conquistano il mondo. Altri titoli non sono rimasti nella storia, ma donno l’idea dello spirito del tempo. Abbasso la miseria!, Il sole sorge ancora, La vita ricomincia, Vivere in pace, Un uomo ritorna.Non tutti condividono l’ottimismo: nel 1948 Giuseppe Prezzolini pubblica in America il suo libro L’Italia finisce. Ovviamente si sbagliava.
Il primo film che gli italiani e più ancora le italiane andarono a vedere fu Via col vento. Girato nel 1939, arrivò da solo dopo la guerra. I nostri padri e le nostre madri non erano abituati al suono dell’inglese, così si pensò di tradurre il nome della protagonista, Scarlett. Scarlatta pareva brutto; e fu Rossella. Tante ragazze si appassionarono al film e si dissero: «Se un giorno avrò una figlia, la chiamerò come lei». Si spiega così il boom di Rosselle negli anni Cinquanta e Sessanta (poi venne il momento di Monica, come Monica Vitti, e dopo il Sessantotto di Maddalena, emblema della donna ribelle. Giulia era di là da venire).
Alla fine del primo tempo di Via col vento, c’è una scena in cui molte spettatrici si riconobbero. Rossella O’Hara torna alla sua terra, e la trova distrutta dalla guerra. La madre è morta di tifo, il padre ha perso la ragione, e lei non mangia da giorni. Percorre l’orto desolato, strappa una piantina, ne morde le radici per placare lo stomaco, poi la solleva al cielo e grida: «Giuro davanti a Dio, e Dio m’è testimone, che supererò questo momento. E quando sarà passato non soffrirò mai più la fame, né io né la mia famiglia; dovessi mentire, truffare, rubare o uccidere. Lo giuro davanti a Dio: non soffrirò mai più la fame!».
Ecco, credo che quel giuramento collettivo – giuro non avrò più fame – l’abbiano fatto un po’ tutti i nostri padri e le nostre madri: gli italiani di settant’anni fa. Compresi quelli che non avevano visto Via col vento.
Talora si sentono rimpiangere i valori morali di una volta, i princìpi etici di un tempo. Ma sinceramente non credo che dietro lo straordinario slancio dell’Italia del dopoguerra ci fossero ideali collettivi, il bene comune, il senso dello Stato. Il valore era l’individuo, al più la famiglia. Ma c’era, fortissimo, il desiderio di riscatto dalla miseria, dalla paura, dalla fame appunto. La volontà di migliorare la propria condizione, di dare ai figli e ai nipoti un avvenire diverso: una sicurezza, o almeno una chance. E c’era quella irripetibile felicità che viene dal sentimento di andare dal meno al più.
A pagare il prezzo della guerra, come sempre, erano state le donne. Migliaia erano morte sotto i bombardamenti. Migliaia erano state violentate dagli eserciti vincitori e dalle fazioni opposte della guerra civile. Migliaia avevano perso il marito, il padre, i figli. Ma fu proprio dal padre, i figli. Ma fu proprio dalle donne che venne quella formidabile spinta verso il futuro.
Nel giro di pochi anni, milioni di italiane andarono al voto per decidere del loro destino, lasciarono la campagna per lavorare in fabbrica, si emanciparono poco per volta dalla potestà paterna, dalla violenza dei mariti, dall’egoismo dei figli.
Le donne furono protagoniste della Ricostruzione; di quella materiale e di quella morale. Della Ricostruzione incarnarono lo spirito. Lo dimostrano due lettere, scritte da due ragazze che militarono su fronti opposti.
Anna Enrica Filippini-Lera era un’antifascista. Rinchiusa a Regina Coeli, deportata in Germania, liberata dagli americani quando ormai stava morendo di fame. Per prima cosa Anna Enrica scrive al padre, mentendo per tranquillizzarlo: «Babbino caro, non essere in pensiero per me, ho superato la prova del carcere brillantemente, il fisico è buono…». Poi però si fa sincera: «Il morale è altissimo. Presto ritorneremo e potrò riprendere il mio lavoro. Tanto ci sarà da lavorare in Italia, ma non ci sgomenta. Siamo giovani, l’entusiasmo non ci manca. Lavoreremo e ricostruiremo la nostra vita e non ci sarà gioia più grande».
Entusiasmo viene dal greco en theós: avere un dio dentro.
Anna Maria Marucelli era la madrina di guerra di Franco Leo, ufficiale italiano orgogliosamente fascista, rimasto tale anche da prigioniero degli inglesi, nel campo di Yol, in India, da dove scriveva lettere piene di sconforto sull’«onore prostituito» della patria. Anna Maria lo incoraggia così: «Ormai le recriminazioni sono inutili. Oggi bisogna solo pensare a ricostruire, a riparare tutto il malfatto, rifacendoci un nuovo spirito, più onesto verso noi stessi e verso gli altri».
Anna Enrica era fidanzata con un soldato, Paolo Buffa, che aveva combattuto nell’esercito inglese. Dopo il 25 aprile lui si fece dare una jeep, andò in Baviera alla ricerca della sua donna, la trovò alle porte del campo di Aichach, la riportò a casa. E la sposò. Anna Enrica ha vissuto più di cento anni.
Franco Leo rientrò dall’India solo alla fine del 1946. Come prima cosa andò a conoscere Anna Maria, la ragazza che lo confortava con le sue lettere. È una storia che racconta Giovanni De Luna nel suo bel libro La Repubblica inquieta (Feltrinelli). Spesso dalla corrispondenza nasceva un sentimento. Scrivere lettere a un soldato in guerra significava affidare alle Poste e al caso un messaggio in bottiglia, e attendere a lungo poche righe di risposta giunte dall’altro capo del mondo; non era come scrivere via WhatsApp la prima cosa che ci passa per la testa. Anche su WhatsApp nascono gli amori, certo. A volte duraturi, più spesso fragili. Franco e Anna Maria si sposarono nel 1948, ad Assisi, nella basilica di San Francesco, si trasferirono a Milano, ebbero due figli, passarono insieme il resto della loro vita.
Avevano fame anche gli italiani destinati a diventare ricchi, potenti, famosi. A Roma si sparse la voce che alla stazione Tiburtina c’era un carico di farina incustodito; un ragazzo di vent’anni arrivò di corsa, fece a spintoni con gli altri, riuscì a portarne a casa un sacco con cui la madre fece il pane per sfamare la famiglia. Si chiamava Cesare Romiti, ed era destinato a salvare la Fiat, quando a Mirafiori lavoravano ancora 55 mila operai.
Anche Giovanni Baudo, avvocato cattolico, nella Sicilia affamata dalla guerra si procurò dieci chili di farina: fu preso dai fascisti e arrestato. Quando gli americani entrarono a Militello, chiesero se ci fosse qualche antifascista: tutti indicarono l’avvocato Baudo, che era stato in galera, e venne così nominato presidente del comitato d’epurazione. Fu clemente con tutti, in particolare con i compaesani. Il figlio Giuseppe ricorda ancora quando arrivò in casa il profumo del dopoguerra: gallette,gomma americana, caramelle e carne in scatola.
Pippo Baudo non poteva immaginare che sarebbe diventato il rivale e l’erede di un ragazzo un poco più grande, nato a New York e sopravvissuto a San Vittore, dov’era stato prigioniero dei nazisti: Mike Bongiorno. Nell’attesa, Pippo divenne amico di un ragazzino di Foggia, forse la città italiana più provata dai bombardamenti, che aveva cantato le sue prime canzoni in pubblico nei rifugi antiaerei: Renzo Arbore. Qualche anno dopo, Arbore e Baudo andarono insieme a trovare un personaggio amatissimo in quell’Italia povera e religiosa: Padre Pio, che grazie anche agli aiuti di Fiorello La Guardia, sindaco di New York, stava costruendo un grande ospedale, la Casa Sollievo della Sofferenza. «Il mio amico deve fare l’avvocato o l’artista?» chiese Renzo. «Facisse ’cchi vole!» rispose il santo, e li cacciò in malo modo.
Trapattoni invece è il quinto e ultimo figlio di un contadino bergamasco, che aveva trovato lavoro in fabbrica ma allevava ancora il maiale; quando lo uccideva passava la vescica ai suoi ragazzi, Antonio e Giovanni, che la riempivano di stracci e ne ricavavano una palla con cui giocavano tutto il giorno. Il più dotato era Antonio; però fu mandato a lavorare in tipografia. A 14 anni lo raggiunse Giovanni, ma scappò subito, per diventare campione.
Antonio Trapattoni ha fatto il tipografo tutta la vita. Ogni mattina prende il caffè con il fratello miliardario, e non glielo rinfaccia mai.
Nel 1948 Angelo Gaja aveva otto anni. Lo misero al lavoro nella vigna: Gino, il capo della vendemmia, gli insegnò a zappare, concimare, innestare, dare il verderame. Per spronarlo gli gridava: «Svegliati, se il pane avesse due dita di gambe moriresti di fame!». Ora i vini di quel bambino sono considerati i migliori del mondo.
Andrea Camilleri prese la sua ultima sbornia il primo maggio 1947. Il padre era fascista, aveva fatto la marcia su Roma, aveva modi da ardito, e a lui il figlio si sarebbe ispirato per inventare il personaggio del commissario Montalbano. Il giovane Andrea però era comunista. Quel giorno celebrò con i compagni la vittoria del Pci alle amministrative siciliane. La sera gli arrivò la notizia che a Portella della Ginestra i banditi, al soldo dei mafiosi, avevano sparato sui braccianti: undici morti, trenta feriti. Camilleri passò la notte a vomitare. Da allora non ha più toccato un goccio di vino.
Nel 1947 in Sicilia c’era anche un giovane fiorentino, Franco Zeffirelli, venuto come aiuto-regista di Luchino Visconti a girare La terra trema. Nei suoi ricordi, la Sicilia del dopoguerra era «di una povertà medievale»: 21.852 famiglie vivevano in grotte e baracche; acqua corrente e luce elettrica erano cose da ricchi. Visconti però prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e la sera, nell’acqua profumata con un’essenza della Penhaligon’s, Hammam Bouquet; Zeffirelli e l’altro assistente, Francesco Rosi, restavano in piedi accanto alla tinozza, a prendere ordini.
Anche nel Mezzogiorno la Ricostruzione è stata un periodo grandioso, per certi aspetti epico, di riscatto da una miseria secolare. Nel 1948 il divario tra il Sud e il Nord era più ampio di oggi: la Lombardia da sola aveva un quarto del reddito nazionale; la Basilicata lo 0,7 per cento, la Sardegna l’1,7. Un meridionale su quattro era analfabeta, in Calabria quasi uno su tre. Ricordarlo oggi non è motivo di vergogna, ma di orgoglio.
Un giovane inviato, Giorgio Bocca, va a Partinico, terra di banditi, e scopre che non esistono lavatoi, né bagni pubblici, né fogne; l’immondizia è abbandonata per strada in mucchi coperti da mosche; ci sarebbero 40 spazzini, ma sono al servizio dei notabili, non della gente. Dei cinquemila ragazzi, quasi la metà non ha mai visto un insegnante; nel solo quartiere della Madonna 171 persone sono state carcerate o uccise; gli abitanti hanno fatto più anni di prigione, 714, che di scuola. Bocca, mai tenero con il Sud, riconosce che «qui nessuno farebbe il fuorilegge se avesse un’opportunità di lavorare. La controprova viene da una polveriera abbandonata: per mesi la gente ci ha lavorato a togliere l’esplosivo dei proiettili per vendere il rame dei bossoli, finché un giorno un’esplosione ha fatto 23 morti. L’ospedale ha 28 letti ma deve servire anche Balestrate, Borgetto, Trappeto, Giardinello, Montelepre, il paese di Giuliano; non esiste ambulatorio ostetrico, la mortalità infantile è del 9 per cento».
In provincia di Matera andava anche peggio: più di un neonato su dieci moriva; molti superstiti erano minati dal rachitismo e dalla tubercolosi. I Sassi non erano un’attrazione per turisti americani colti, ma grotte dove i contadini convivevano con i loro animali. Quando andò a visitarli, De Gasperi pianse, pensando all’immenso lavoro che lo attendeva per fare dell’Italia – e in particolare di quella terra tanto bella e tanto misera in cui lui, nato suddito dell’imperatore asburgico, non era mai stato – un Paese moderno.
Oggi noi italiani ci assomigliamo tra noi più di quel che pensiamo. La tv ci ha insegnato a parlare la stessa lingua. Ormai ci siamo mescolati: a Torino, a Milano, a Roma almeno metà della popolazione ha sangue del Sud nelle vene. In quattro ore si va in treno da Milano a Napoli, e si mugugna per dieci minuti di ritardo.
Settant’anni fa, i treni non avevano orari. Si andava in stazione per mettersi in coda e aspettare il convoglio giusto. Nell’attesa la gente discuteva, si conosceva, si ritrovava. Ci si raccontava l’un l’altro come si era sopravvissuti alla guerra. Accadeva che genitori riabbracciassero figli che credevano morti. Riscoprirsi era più difficile che su Facebook, ma certo molto più emozionante.
I treni andavano a passo d’uomo. Si potevano prendere al volo, come Fantozzi tenta di fare con il tram quando è in ritardo per l’ufficio. Quasi la metà delle stazioni era stata distrutta dai bombardamenti. Sull’Italia erano cadute più di un milione di bombe, centomila erano inesplose: la guerra continuò a ferire e a uccidere per anni.
La maggioranza degli italiani nasceva e moriva nello stesso posto. Il fascismo aveva proibito di cambiare città senza autorizzazione. Il Paese era più lungo, in un certo senso più grande, diffuso, frammentato rispetto a oggi.
Gli italiani invece erano più piccoli; in media di almeno dieci centimetri. Su 12 milioni di famiglie, oltre tre milioni mangiavano carne solo una volta alla settimana; più di quattro milioni non la mangiavano mai.
Era un Paese violento: rapine, furti, omicidi aumentarono di cinque volte rispetto al 1939, ultimo anno di pace; senza considerare le vendette partigiane seguite al 25 aprile. Nacquero riviste – una si chiamava Crimen – specializzate nel raccontare delitti; anche perché sui giornali, al tempo del Duce, la cronaca nera non c’era. Fu un tempo duro, a volte spietato; eppure percorso da un’allegria di naufraghi, da quel misto di sollievo e di euforia che viene dall’essere sopravvissuti alla tempesta.
Molti italiani erano scampati davvero per miracolo. A Colfiorito, in Umbria, Quinto Pietrarelli era stato messo al muro con decine di compaesani: i soldati tedeschi dovevano fucilarli per vendicare un camerata trovato morto nel fiume, avevano già caricato le armi, quando da dietro le case sbucò il cannone di un carro armato. «Amerikani!» urlò un tenente. Gli altri gettarono i fucili e fuggirono. A Sassuolo, in Emilia, una donna che stava per essere giustiziata gridò che a casa la attendeva un neonato: sarebbe morto, se lei non fosse tornata ad allattarlo. Un tedesco la spogliò davanti a tutto il paese, le strizzò il seno, vide che usciva il latte: segno che la donna diceva la verità, e andava mandata libera.
A Milano una giovane ebrea si nascondeva sotto falso nome – «ci fu un tempo in cui io non ero io» – in un palazzo di via Mozart semidistrutto dalle bombe. Vennero i nazisti, lei riuscì a fuggire; la sua vicina, un’altra giovane ebrea che si era appena sposata, fu presa e portata ad Auschwitz; non è mai tornata. La ragazza superstite si chiamava Franca Valeri.
Nelle colline sopra Asti, Paolo Conte bambino ascoltò la telefonata con cui la donna delle pulizie fu avvertita che i suoi cinque figli erano stati fucilati dai nazisti: «Chiese solo se avevano sofferto. Una cosa orribile». Forse per esorcizzarla, anni dopo scriverà la più bella canzone italiana sul dopoguerra:
Bionda non guardar dal finestrino
che c’è un paesaggio che non va
è appena finito il temporale
sei case su dieci sono andate giù.
Meglio che tu apri la capotte
e con i tuoi occhioni guardi in su
béviti sto cielo azzurro e alto
che sembra di smalto e corre con noi.
Sulla Topolino amaranto
si va che è un incanto
nel Quarantasei…
Non tutti potevano festeggiare lo scampato pericolo. Oltre trecentomila profughi istriani e dalmati fuggivano l’esercito di Tito, che aveva scaraventato nelle foibe migliaia di italiani colpevoli solo di essere tali. Molti vennero accolti a sassate e perseguitati anche in patria. Come ha detto uno di loro, destinato a diventare il nostro più grande pugile, Nino Benvenuti: «Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani».
Per i reduci tornare dopo anni, rivedere volti cari ma non più familiari, poteva essere bello ma anche duro, straniante. Come ha scritto Mario Rigoni Stern, che aveva combattuto in Russia, «chi era stato dalla parte dei fascisti si rintanava in casa e non aveva il coraggio di uscire; quelli che erano stati partigiani passavano cantando per il paese con fazzoletti rossi verdi attorno al collo; e quelli che ritornavano dalla prigionia sedevano in silenzio sull’uscio di casa, a fumar sigarette e a guardare il volo degli uccelli».Centinaia di migliaia, in effetti, rientravano a casa dalla prigionia. Molti dal Sud Africa, dal Kenya, dall’India, dove avevano passato anni nelle mani degli inglesi. Ancora di più erano stati nei campi tedeschi, dove in centomila erano morti di fame e di stenti. Tra loro c’era Giovanni Guareschi, uomo di destra che aveva rifiutato di andare a Salò a combattere per Hitler e Mussolini, lasciando scritto nel suo diario: «Non muoio neanche se mi ammazzano». E c’era Alessandro Natta, futuro segretario del partito comunista: dovette attendere mezzo secolo per pubblicare le sue memorie, intitolate L’altra Resistenza. Prigionieri in Germania furono pure i padri di Al Bano Carrisi e di Antonio Di Pietro. E Vasco Rossi si chiama come un amico del padre Giovanni Carlo, che lo salvò tirandolo fuori da una buca durante il bombardamento del campo vicino a Dortmund.
A lungo il loro sacrificio non venne riconosciuto. Non servivano a nessuno: non ai comunisti, perché erano militari e non partigiani di sinistra; non ai democristiani, alleati della nuova Germania; non all’esercito, perché ricordavano il disastro dell’8 settembre. Li chiamarono con una sigla burocratica, Imi, Internati militari italiani, e per troppo tempo ci si è dimenticati di loro.
Qualche anno dopo, nel 1951, un altro esodo arrivò dal Nord-Est, stavolta dal Polesine allagato da una disastrosa piena del Po. I veneti allora non erano tra i più ricchi d’Europa come oggi; erano ancora un popolo di emigranti.
Eppure un Paese così provato seppe rimettersi in moto con una rapidità impressionante. La produzione industriale, che sotto i bombardamenti era crollata del 75 per cento, alla fine del 1948 era tornata la stessa di prima della guerra; e avrebbe continuato a crescere a ritmi eguagliati mezzo secolo dopo solo dalle tigri asiatiche.
I cinesi eravamo noi.
In pochi anni si ricostruirono le case e le città distrutte. Si fece in fretta, nel disordine, a volte male. Non c’era l’attenzione di oggi all’ambiente: sorsero ciminiere in città, raffinerie accanto ai porti, acciaierie in riva al mare. Ma quel giuramento venne rispettato: gli italiani non avrebbero mai più avuto fame.
A ogni buon conto, non buttavano via niente; si mangiava tutto con il pane, anche i dolci, per riempirsi a dovere: la pagnotta del giorno prima diventava zuppa o pangrattato; e se proprio nella dispensa era rimasto un pezzetto tanto secco da essere inutilizzabile, prima di gettarlo lo si baciava, come a chiedere perdono per un sacrilegio.
Il cibo era un’ossessione. Ancora negli anni Sessanta, le nostre nonne cucinavano tutto il giorno: avevano conosciuto la fame, non volevano che i nipoti dovessero ripetere l’esperienza; se non ripulivi il piatto, le sentivi mormorare: «Ti ci vorrebbe un po’ di guerra…». I padri invece ripetevano che dovevamo studiare, per farci «una posizione», e contribuire alla crescita economica, sociale, culturale della famiglia e anche del Paese. (Non a caso sul citofono di casa si scriveva con orgoglio il titolo di studio: ragioniere, geometra.) Noi cinquantenni abbiamo invece la preoccupazione che i nostri figli siano felici, o comunque che non debbano soffrire; forse anche per questo i ragazzi italiani non sono sempre attrezzati ad affrontare le difficoltà che hanno davanti.
A maggior ragione è utile ritrovare lo spirito del Natale della Ricostruzione. Quella volontà di rinascita che un grande scrittore, Dino Buzzati, restituiva così: «Dopo cinque anni di pausa, domani viene offerta una eccezionale occasione. Dopo cinque lunghi anni lo spirito del vecchio Natale sarà di nuovo tra noi, un po’ dappertutto, questa antica favola che non si consuma mai … Non bisognerà stringere i denti, domani, per essere buoni, perdonare non costerà più fatica, né sorridere ai molti difetti della nostra esistenza; perfino la miseria e il dolore, con minimo nostro sforzo, si circonderanno in qualche modo di luce».
L’autore.
Aldo Cazzullo è nato ad Alba nel 1966. Entra a La Stampa come praticante nel 1988. Nel 1998 si trasferisce a Roma. Nel 2003, dopo quindici anni a La Stampa, passa al Corriere della Sera dove è inviato speciale ed editorialista. Ha raccontato i principali avvenimenti italiani e internazionali degli ultimi 25 anni, in particolare le elezioni di Chirac, Erdogan, Bush, Abu Mazen, Sarkozy, Obama, Hollande, Trump, Macron, oltre ai referendum sull’Europa, da quello francese su Maastricht (1992) alla Brexit. Ha seguito cinque edizioni dei Giochi Olimpici (Atene 2004, Torino 2006, Pechino 2008, Londra 2012, Rio 2016) e cinque Mondiali di calcio, compresa la vittoria degli Azzurri in Germania nel 2006. Ha intervistato Bill Gates, Steven Spielberg, Keith Richards, Jacques Le Goff, Don De Lillo e Daniel Day Lewis, Nigel Farrage e Marine Le Pen, oltre ai protagonisti della vita pubblica italiana.
Ha dedicato oltre venti libri alla storia e all’identità italiana, sia in chiave critica – come Outlet Italia (2007), L’Italia de noantri (2009) – che in difesa della storia e delle potenzialità del nostro Paese. Sia Viva l’Italia! (2010) sia Basta piangere! (2013) sia Possa il mio sangue servire (2015) sia Metti via quel cellulare (2017), scritto con i figli, hanno superato le centomila copie; La guerra dei nostri nonni le duecentomila. Ha vinto il premio Estense nel 2006 per I grandi vecchi e, tra gli altri, i premi Fregene, Hemingway, Cinqueterre, il Premio Nazionale Anpi “Benedetto Fabrizi”, il premio letterario “La Tore Isola d’Elba” per il romanzo La mia anima è ovunque tu sia (70 mila copie, pubblicato in Germania da Beck). Con il libro L’Italia s’è ridesta. Viaggio nel Paese che resiste e rinasce ha vinto il premio Giovanni Spadolini 2013, con Basta piangere! il premio Maria Grazia Cutuli, con La guerra dei nostri nonni il premio Biagio Agnes. Ha vinto inoltre anche il Premio “Buone Notizie 2013”, consegnato a Caserta nel gennaio dello stesso anno. Ha due figli, Francesco e Rossana. Dal 10 gennaio 2017 è titolare della rubrica delle lettere del Corriere della Sera, succedendo a Sergio Romano. Il 19 settembre 2018 esce nelle librerie il suo ultimo libro, Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione, edito da Mondadori, suo editore storico.
Fonte: Wikipedia.
Aldo Cazzullo, Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione. Editore: Mondadori. Collana: Strade blu. Non Fiction-
Anno edizione: 2018
Pagine: 264 p., Brossura.