Una storia d’amore che resiste e di una memoria che si perde.

La trama del romanzo.

   In uno studio medico di Tel Avi è lì che inizia il nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua, Il tunnel(Einaudi) -. Zvi Luria e sua moglie Dina siedono di fronte a un neurologo che ha, fra i riccioli, una minuscola kippah. Sul tavolo c’è una lastra del cervello di Luria. Il responso che, con la tipica, ruvida concretezza israeliana, il neurologo illustra alla coppia è secco: si tratta di un’atrofia del lobo frontale. «Ci sono stati precedenti nella famiglia?», domanda il dottore. La risposta è: «No» Poi, dall’altra parte del tavolo viene un’altra domanda diretta: «Può degenerare questa atrofia del lobo frontale?». La risposta, altrettanto diretta è: «Sì, può degenerare e portare alla demenza. Per cercare di combatterla bisogna esercitare la mente e fare molto l’amore». Marito e moglie salutano, si alzano e vanno a casa: un bell’appartamento ai pani alti di un edificio, con una terrazza dalla quale si vedono i grattaceli della città moderna e, di notte, le stelle.

   Zvi Luria, settantaduenne, ha lavorato in qualità di ingegnere nell’azienda di Stato «Percorsi di Israele», progettando strade, gallerie, ponti in tutto il territorio. Esemplare per buon senso, professionalità, rigore nel lavoro, pazienza e generosità nei rapporti con una famiglia amatissima. Zvi e Dina sono sposati, e si amano, da più di quarant’anni; lei ha 64 anni, pediatra, premurosa e decisa. Hanno due figli, entrambi sposati: una figlia femmina che vive a Tel Aviv e un figlio maschio che vive nel Nord di Israele, occupandosi di materiale elettronico.

   Zvi ha cominciato a perdere le informazioni essenziali, che “vagano nella sua mente come un pesciolino nero” incapaci di trovare un’uscita, il cellulare nel deserto del Negev (“annusato da una volpe nostalgica con i denti aguzzi”), il controllo di un SUV, la strada di casa e, improvvisamente smarrito/impaurito, quella di un’esistenza sino a quel momento appagante.

   Dunque, sono tornati a casa, poggiano le chiavi e, come accade sempre in quei momenti così strani, quando ti hanno dato una notizia molto forte e sei di nuovo nel luogo in cui, ignaro, fino ad ora hai vissuto, si aggirano nell’appartamento, scambiandosi qualche parola a caso, azzardando qualche ipotesi, qualche commento, ma sostanzialmente fingendo che la vita debba proseguire, stia già proseguendo, normalmente come prima. Il neurologo, ricorda Zvi, ha raccomandato di fare spesso l’amore. «Magari dopo», risponde dolcemente Dina.

   Lei è una donna pratica, non soltanto una grande sposa. E subito pensa a un fatto concreto che possa tenere sveglia il più possibile la mente del suo sposo. Di ritorno dal festeggiamento del nuovo amministratore delegato della società «Percorsi di Israele», Zvi le racconta di come abbia appreso la notizia di un importante progetto viario: una strada segreta, ad uso dell’esercito, nel deserto del Negev. Il problema di questa strada, che dovrebbe arrivare al confine palestinese, è rappresentato da uno storico cratere, il cratere Ramon, in realtà una collinetta, in cima alla quale sorgono delle rovine nabatee. I nabatei, benché ormai quasi estinti, furono uno dei popoli più antichi ad abitare quelle terre antiche, brulle, aride, inospitali, nelle quali già allora si marcava il territorio. Per costruire la strada segreta, bisognerebbe spianare la collinetta del cratere Ramon « un luogo selvaggio, nel quale a tratti compaiono, sbucati dal nulla, maestosi cervi « oppure bucarla con un tunnel. L’ingegnere a capo del progetto è il giovane Assael Maimoni, figlio di un vecchio amico di Zvi. «Tu», dice Dina al marito «hai forato montagne, aperto valichi, costruito strade dappertutto. Perché non ti fai assumere da Assael, in qualità di consigliere non pagato, e lavori?» Luria ci pensa un po’ e accetta.

  Certo, ben altro che una galleria, sembra suggerirci l’autore, deve essere scavata per aprire finalmente la strada ad una convivenza apertamente condivisa, civile, solidale e duratura fra i due popoli. Stavolta, tuttavia, ci paiono altri i nuclei ispiratori dell’intreccio: l’avanzare inesorabile degli anni, la prospettiva incombente della morte (e quale sia preferibile), l’amore coniugale senile « fatto di sguardi, reciproche ansie, delicate attenzioni, dedizione, sessualità che riscopre il candore e l’impaccio della giovinezza « soprattutto, nell’incedere di una strisciante invalidità che lo scrittore ha declinato letterariamente in tutte le sue valenze (come Oz, con eguale maestria, il tradimento in Giuda), la necessità e il desiderio, delicato e struggente, di aprirsi alle ragioni del prossimo per sentirsi vivi e “attaccarsi alla vita”.

   C’è un percorso che ci conduce nello struggente deserto del Negev, dopo la sua capitale Beer Sheva, al cratere Ramon con le rovine nabatee e i maestosi cervi, sull’orlo del quale vivono un padre vedovo e una figlia, Hanadi, bellissima, sensuale, come può esserlo solo una ragazza palestinese, di oggi e antica, entrambi privi di documenti. Lì ci sono i motel, i bar, le pompe di benzina, i camion che attraversano l’attuale strada nel deserto, dalla quale dovrebbe dipanarsi la strada segreta, e c’è l’aria pulita, incontaminata, del deserto. Ci sono i ritorni a Tel Aviv. Ci sono gli smarrimenti progressivi di Zvi, che per non dimenticare il codice antifurto della sua automobile, si è fatto tatuare il numero sull’avambraccio, e ci sono le preoccupazioni di Dina, le telefonate ansiose che fa a suo marito, già avanti nel tunnel. Ci sono le notti di Tel Aviv, trascorse in terrazza, avvoltolati in una coperta, a scrutare la luna e le stelle. C’è il rumore del mare.

Lo stile, come sempre nelle opere di Yehoshua merita particolare attenzione. La sua miracolosa naturalezza viene arricchita da improvvise aperture liriche e il ricorso al solo tempo presente nella narrazione « con punto di vista esterno onnisciente abilmente alternato a quello interno del protagonista, spesso in indiretto libero « da un lato rende efficacemente il progressivo senso di precarietà con cui questi vive e “vede” le vicende, dall’altro volutamente non consente al lettore di essere immediatamente informato sugli esiti “letterari” della sua deriva mentale, i cui particolari vengono rivelati successivamente da altri personaggi. Per realizzarlo Yehoshua usa a piene mani i suoi doni: il dialogo, in cui è maestro, perché a differenza di molti altri scrittori contemporanei, riesce a costruire dialoghi credibili, veri, anche quando non sono affidati a battute di mezza riga; la modernità e le contraddizioni di Israele; la terra e i confini; il passato che non si deve dimenticare (perché cos’altro è quel numero stampato sull’avambraccio, sul quale, pure, l’autore non spende neppure una parola?); il rapporto d’amore fra moglie e merito. Gli amori indistruttibili « così come la nostalgia della giovinezza, molto spesso nascosta negli occhi neri, asiatici, di una ragazzina palestinese « sono centrali in tutti i romanzi di Yehoshua. Il tunnelè la storia d’amore del settantaduenne Zvi e della sessantacinquenne Dina.

Come inizia.

Dal neurologo

   «Allora, ricapitolando», dice il neurologo.

   «Sì, ricapitolando», sussurra la coppia.

   «I disturbi non sono del tutto inventati. Abbiamo veramente rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale».

   «Dove esattamente»? 

   «Qui, sulla corteccia».

   «Mi spiace ma non vedo niente».

La donna si china sull’immagine.

   «Sì, in effetti una lesione c’è», ammette, «ma è minuscola».

   «È vero», concorda il neurologo, «è minima, ma potrebbe estendersi».

   «Potrebbe», domanda il marito con voce tremante, «o lei vede una chiara tendenza a estendersi?»

   «Entrambe le cose…».

   «E a quale ritmo?»

   «Nessuna patologia segue delle regole precise, di certo non quelle della corteccia cerebrale. La velocità di un eventuale processo degenerativo dipende anche da lei».

   «Da me? E come?»

   «Dal suo comportamento. In altre parole da come combatterà contro la malattia».

   «Dovrei combattere contro il mio cervello? E come?»

   «Con una giusta disposizione di spirito».

   «Ho sempre pensato che mente e spirito fossero la stessa cosa».

   «No, assolutamente no», proclama il neurologo.

   «Lei quanti anni ha?»

   «Settantatre…»

   «Non ancora compiuti», precisa la moglie. «Mio marito tende sempre a correre, ha fretta di arrivare alla fine…»

   «Ecco», bofonchia il medico, «già questo non va bene».

      Solo in quel momento il paziente nota una minuscola kippah fra i riccioli del neurologo. Probabilmente se l’è tolta quando lo ha esaminato sul lettino, per paura che gli cadesse.

   «I nomi, per esempio, dice che le sfuggono di continuo…»

   «Soprattutto quelli», conferma l’uomo, «i cognomi me li ricordo facilmente, ma i nomi… è come se, quando cerco di ricordarli, si volatilizzassero».

   «Ecco allora qualcosa per cui lottare. Non si accontenti dei cognomi, si ostini a ricordare anche i nomi».

   «Lo faccio. Ma mentre mi spremo le meningi salta su leie me li suggerisce».

   «Questo non va bene», la rimprovera il medico, «così non aiuta suo marito».

   «È vero», la donna riconosce la propria colpa, «ma a volte ci mette talmente tanto tempo a ricordare un nome che dimentica cosa voleva dire».

   «Deve comunque permettergli di sforzare la memoria, è l’unico modo per aiutarlo».

   «Ha ragione, dottore, lo prometto».

   «Lei lavora ancora?» domanda il medico al paziente.

   «No, non più. Sono in pensione da cinque anni…»

   «E che lavoro faceva, se posso chiederglielo?»

   «Ero un dipendente di Percorsi di Israele».

   «Percorsi di Israele? E che cos’è?»

   «Quello che un tempo era conosciuto come il Dipartimento dei lavori pubblici, il gestore della rete stradale. Per quarant’anni ho progettato strade e autostrade».

   «Strade e autostrade…». Il neurologo appare divertito, chissà perché. «E dove? A nord o a sud?»

   Ancora una volta, mentre il paziente è alla ricerca di una risposta pertinente, la moglie si intromette.

   «A nord. Ecco davanti a lei, dottore, l’ingegnere che fra le altre cose ha progettato i due tunnel dell’unica autostrada di Israele».

   Perché proprio i tunnel?, pensa il marito, stupito. Lui non li ha mai considerati fra i suoi progetti più rappresentativi. Ma il neurologo appare interessato. E perché no dopotutto? Il tempo non gli manca. L’ingegnere è il suo ultimo paziente, la segretaria che ha riscosso l’onorario se n’è già andata e il suo appartamento è proprio sopra la clinica.

   «Non ho mai notato che ci fossero dei tunnel in autostrada».

   «Non sono lunghi, appena duecento metri».

  «In ogni caso avrei dovuto accorgermene invece di perdermi in sogni mentre guidavo», si rimprovera il medico. «Anche solo nel caso che altri ingegneri stradali arrivino a farsi curare da me».

   «Ne arriveranno», scherza il paziente, «se non riusciranno a nascondere la loro demenza fra i vari svincoli».

   «Perché parla di demenza?» scatta il neurologo. «Non siamo ancora a quel punto. Non abbia fretta di attribuirsi qualcosa di cui non sa niente. Non alimenti paure e fantasie inutili, e soprattutto eviti l’inattività e il fatalismo. Andare in pensione non significa essere arrivati alla fine di un percorso. Quindi, come primacosa, si trovi qualcosa da fare, un lavoro part-time, o qualche consulenza privata».

   «Non esiste una cosa simile, dottore. Non si possono progettare e costruire strade da soli. Sono opere pubbliche, e ormai ci sono altri che se ne occupano… giovani…»

   «E allora cosa fa di solito?»

   «Ufficialmente me ne sto a casa, ma in realtà viaggio, faccio passeggiate, vado in giro. Io e mia moglie andiamo spesso a teatro, a concerti, all’opera, a volte a sentire conferenze. E naturalmente aiutiamo i figli, soprattutto con i nipoti. Li andiamo a prendere, li riportiamo, li accompagniamo. E poi sbrigo un po’ di faccende in casa, le commissioni, faccio la spesa al centro commerciale e a volte…»

   «Gli piace andare al mercato», si affretta a precisare la moglie.

   «Al mercato?» si stupisce il neurologo.

   «Perché no?»

   «No, no, fa bene. Se riesce a raccapezzarsi fra le varie bancarelle, fa benissimo».

   «E cucino, sa».

   «Oh-oh, pure…»

   «Sì, insomma, più che altro affetto, mescolo, riciclo avanzi. Ho la responsabilità di preparare il pranzo a mia moglie prima che lei torni dall’ospedale».

   «Ospedale?»

   «Sono pediatra», mormora la donna.

   «Ottimo», esclama il medico stendendosi in poltrona con sollievo, «una collega.

   Nonostante la signora sia più anziana di lui di una ventina d’anni il neurologo la interroga sul suo lavoro, sugli studi, sull’esperienza professionale maturata, quasi non fosse primario di un reparto ma una giovane candidata al suo studio, incaricata di seguire il potenziale decorso della sospetta atrofia nella corteccia cerebrale del coniuge.

   «E che sonniferi prescrive a suo marito?»

   La donna posa una mano amorevole sulla spalla dell’uomo.

   «Nessuno. Di solito dorme bene anche senza. A volte, però, quando fa fatica ad addormentarsi prende… cosa prendi?»

   L’ingegnere non ricorda il nome del farmaco, solo la forma.

   «Quei triangolini…»

   « Intende lo Xanax».

  «Se è solo quello va bene», approva il neurologo, «ma stia attenta a non dargli qualcosa di più forte. L’ipotalamo, che è responsabile del controllo del ciclo sonno-veglia, adesso è particolarmente sensibile, ed è meglio non scombussolarlo con pillole come…» E, afferrata una penna, il medico annota nomi di farmaci proibiti su un foglio.

   La donna studia l’elenco, lo piega, lo infila nella borsetta. Ma il neurologo incalza.

   «Ci sono stati, o ci sono in famiglia, casi con sintomi simili ai suoi?»

   La donna si gira verso il marito con aria interrogativa, ma lui, ancora una volta, lascia che sia lei a rispondere.

   «No, nessuno. Né i suoi genitori, né sua sorella, e neanche suo fratello».

   «E nelle generazioni precedenti?»

   Ora l’ingegnere non ha scelta…

  «I nonni da parte di mio padre non li ho conosciuti», spiega con un po’ di amarezza, «erano più giovani di me quando sono morti nella seconda guerra mondiale, quindi non so se soffrivano di… cioè… del disturbo che lei mi ha diagnosticato. E nella famiglia di mia madre… sono nati tutti qui, in Israele, e sono stati lucidi fino alla fine, per quanto ne so io, completamente sani di mente. A parte… aspetti, sì… forse… ma solo forse… c’era una lontana parente arrivata dal Nordafrica alla fine degli anni Sessanta che proprio qui, in Israele, è sprofondata nel mutismo. Per rabbia, depressione… oppure… chissà… forse anche per lei si trattava di… cioè… di demenza…»

  Sorprendentemente il neurologo non insorge contro la definizione sfuggita ancora una volta al paziente, e torna a studiare l’immagine della risonanza prima di farla scivolare con cautela in una grande busta, scrivere a lettere cubitali il nomeZvi Luriae aggiungere il numero di carta d’identità dell’uomo per evitare eventuali errori. Ma quando sta per consegnare la busta alla collega l’ingegnere lo anticipa, l’afferra e se la stringe al petto. Per un istante sembra che il medico voglia dire ancora qualcosa, ma nel sentire un fruscio di passi nell’appartamento al piano superiore desiste e si alza per salutare. L’ingegnere scatta in piedi, pronto al congedo, ma la moglie indugia in poltrona, quasi temesse di rimanere sola con la malattia del marito.

  «La cosa più importante è mantenersi attivi», conclude risoluto il medico. «Non si isoli, signor Luria, anche se fa fatica a riconoscere le persone. Non fugga la vita, al contrario. La cerchi, ci sguazzi».

  Mentre parla comincia a spegnere le luci, senza però mostrare fretta di salire in casa. Ancora in camice bianco, accompagna la coppia al portoncino del palazzo, accende i faretti nell’ampio giardino per aiutare i due a trovare il viottolo che conduce alla strada e, prima di salutarli, fa qualche raccomandazione in tono amabile, affettuoso.

  «Siete persone intelligenti, dalla mentalità aperta, e vi posso parlare con franchezza. Quando dico di non fuggire la vita intendo in tutti i sensi, anche nei suoi aspetti più intimi. Fra voi due cioè. In altre parole non rinunciate al sesso, non astenetevi dall’avere rapporti, a dispetto dell’età e delle circostanze. L’attività sessuale è molto importante per il cervello. Per entrambi, non solo per lei, ingegnere, e per ciò che le ho diagnosticato. Mi capisce, dottoressa Luria? E non accontentatevi di non astenervi dai rapporti, cercate persino di averne con maggiore frequenza. È importante, fa bene, credetemi, parlo per esperienza».

 Il medico esita, come se si fosse spinto troppo in là. L’ingegnere annuisce, grato, consenziente, e la moglie sussurra, precipitosa: «Sì, certo, dottore, capisco, cercherò, cioè, cercheremo entrambi».

L’autore.

Abraham Yehoshua.

Abraham Yehoshua è nato a Gerusalemme nel 1936 in una famiglia d’origine sefardita, vive ad Haifa nella cui università insegna Letteratura comparata e Letteratura ebraica.

Ha vissuto a Parigi per quattro anni, dal 1963 al 1967 e lì ha insegnato. A Parigi ha ricoperto anche l’incarico di Segretario Generale dell’Unione Mondiale degli Studenti Ebrei. Inizialmente autore di racconti e opere teatrali, ha conosciuto il successo coi suoi romanzi ed attualmente è lo scrittore israeliano più noto. Cominciò a pubblicare le sue prime opere subito dopo aver concluso il servizio di leva militare. Le sue opere sono state tradotte in ventidue lingue. In Italia è stato scoperto dalla Casa editrice Giuntina per poi essere pubblicato da Einaudi.

Yehoshua è sposato con Rivka, psicanalista specializzata in psicologia clinica, morta nel 2016 . La coppia ha una figlia, due figli e sei nipoti.

Nel 2003 gli viene conferito il Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa per La sposa liberata.

Fonte: Wikipedia.

 

Il tunnelAbraham B. Yehoshua. Traduttore: A. Shomroni

Editore: Einaudi. Collana: Supercoralli. 

Pagine: 344 p., Rilegato

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