Quale forza è presente in noi e ci guida a partire dai pensieri

PAURA DI SÉ

C’è modo di avvedersi cosa ci domina. Quale forza è presente in noi e ci guida a partire dai pensieri, i creatori di realtà. Per farlo non serve sapere alcunché, né disporre di lauree o di anni di lettino, di un dottore. Serve invece emanciparsi dal conosciuto alfine di arrivare a sentire le lontane vibrazioni. Solo allora diventa possibile relazionarsi ad esse e fare qualcosa per noi stessi


Pupi siciliani

Con io, si intende la struttura metafisica con la quale inconsapevolmente, ma rispettosamente – secondo cultura in corso – identifichiamo noi stessi. Così crediamo davvero di essere il nome che portiamo, la professione che facciamo, le passioni che sentiamo. Crediamo di essere proprietari di noi stessi. All’io devolviamo tutta l’energia di cui disponiamo. Per orgoglio o presunto diritto, per presunte ragioni e importanza personale che ci auto-attribuiamo, per autostima e vanità, ma anche per stare semplicemente a galla e non affogare nel mare degli altri io, ogni unità di energia che ci circola in corpo viene dedicata alla sovrastruttura, ai suoi desideri, ai suoi bisogni. Per essa soffriamo, combattiamo, odiamo, uccidiamo. Essa ci impedisce di constatare la parità di io in cui formicoliamo tutti. Tutti questi tengono la loro persona al guinzaglio delle loro necessità vanesie, ideologiche, moralistiche, consuetudinarie, egoistiche. Tutti gli io usano prepotentemente la loro unità di misura per stimare e giudicare il mondo. Tutti sono inetti a riconoscere non solo la propria parzialità ma anche la reciprocità delle posizioni. Ognuno si crede così sulla vetta più alta.

Identificarsi con l’io significa farsi prevaricare dal giudizio senza battere ciglio, significa impedirsi di ascoltare e la cultura che ne segue. Significa perpetuare la storia di conflitto. Ma anche credere che l’erudizione, la scienza, la tecnologia servano al progresso. Significa impedirci di riconoscere le forze che, come pupi siciliani, ci muovono.

 

 

 

 

 

Sé e sé

Nella riduzione del mondo alla sua descrizione logico-razionale del linguaggio si trovano due sé. Uno con la maiuscola, l’altro con la minuscola. Il primo può essere rappresentato dal Tutto, dall’Uno, dall’origine e dal mistero. Da esso tutto diviene, ad esso tutto ritorna, esso è in tutto, ogni parte, sebbene finita, ne contiene l’infinito. Il non sta in alcuna descrizione logico-razionale, il che ci permette di cogliere che ciò che invece ci sta non è la realtà, non sono le cose, non è conoscenza, non è il mondo, né la verità ma semplicemente la nostra descrizione di qualcosa, che diviene arrogante e pornografica se affermata sotto il dominio dell’io.

Nuovamente, emancipati dal potere di questo, dalle sue strutture, dalle sue idee il Sé può essere vissuto senza bisogno di essere mistici. Si tratterebbe in quel caso di essere ancora qualcuno, cosa che contraddice il Sé in quanto, in esso, non v’è più nessuno e tantomeno nessun io che esperisca alcunché. Tuttavia, l’esperienza del Sé universale è presente nell’eternità degli archetipi universali, nei simboli elementali, nell’inconscio collettivo, nel mondo alogico in cui il dualismo viene meno, come pure il causa-effetto, il prima e il dopo e ogni distinguo analitico, scambiato per oggettivo, per realtà, per mondo e verità.

Autofobia – paura di restare soli con se stessi

Se il Sé tutto contiene e tutto è, per , con la minuscola, si intende ciò che contiene ed è la nostra natura, la nostra vocazione, la nostra tendenza di destino, le nostre caratteristiche, debolezze e forze. Chi ha trovato il proprio sé – e ancora non serve alcuna erudizione anzi, questa può fare ostacolo – ha compiuto se stesso. Il sé ci permette di muoverci secondo natura, il che non significa altro che alzare al massimo il rischio di condurre una vita, ogni suo momento, con la migliore energia, creatività, serenità, armonia, benessere. Ci permette di emanciparci da tutte le dipendenze alle quali l’io di obbliga, di avvertire le pressioni delle ideologie e dei moralismi, di conoscere attraverso il sentire, di essere presenti all’emozione che stiamo seguendo in generale e in ogni particolare momento. E di discrimine di quanto fa per noi, cosa ci manca, cosa ci perturba, dove possiamo esprimerci per trovare soddisfazione, come possiamo allenare la nostra invulnerabilità, come possiamo svincolarci dalle nostre interpretazioni, come possiamo constatare di essere causa della nostra condizione, ovvero come possiamo cessare di attribuire responsabilità e di assumercele tutte. In una parola, come possiamo evolvere ed esperire la conoscenza autentica, quella a cui anche Dante, nella sua nota terzina, allude: “Considerate la vostra semenza: |fatti non foste per viver come bruti, | ma per seguir virtute e canoscenza”. (1)

In contatto con il proprio sé possiamo muoverci distinguendo il mondo a mezzo dell’energia che ogni cosa fa e che ogni cosa e relazione emana. Il sé è una guida senza interesse che non sia il nostro. Trovato il sé, o come diceva Jung, individuazione, la miglior realizzazione è compiuta e così, il massimo rischio di benessere. Al contrario, si brancola famelici e impauriti dal tiranno invisibile detto io, intorno alla satanica giostra del ciclo dei desideri.

Essere il proprio sé è detto anche io sono. Per intelligere questa formula, si può dire sia l’opposto dell’io ho. Ritenersi ciò che si ha, come su detto, nome, professione eccetera, non corrisponde all’io sono, formula che allude al sé ritrovato.

Paura di sé

Nettuno anela, spinge e richiama a qualcosa che è più alto dell’amore per il singolo essere

Come l’io ci impone l’affermazione e la reazione, così il sé ci permette l’ascolto e la considerazione. Tanto uno è separativo, quanto l’altro è compassionale. L’ascolto è contemplazione ed è anch’esso allenabile. A mezzo dell’ascolto di noi, del prossimo, degli ambienti, del sociale, possiamo via via riconoscere le forze che stanno dominando, fino ad arrivare alle più profonde, dalla lunghezza d’onda più lunga, nettuniane si potrebbero dire. Un riconoscimento che tende ad essere impedito se l’ascolto non è virgineo, ovvero privo dal nostro egoico tornaconto.

A mezzo dell’ascolto diveniamo vibrisse in grado di riconoscere gli interessi delle persone, cosa le muove, le ragioni di ciò che dicono e fanno. Cosa che ugualmente vale nei confronti di noi stessi.

Guardando con il terzo occhio le acque torbide di mondanità si fanno pulite e anche cristalline. Si arriva a vedere il fondale di noi stessi da cui tutto si anima. Si arriva a vedere la paura che non sospettavamo neppure di avere in noi o che credevamo di avere battuta e sconfitta a suon di luoghi comuni quali l’orgoglio, il dovere, l’imitazione, l’invidia, l’avidità, la menzogna. A loro volta tutte rintracciabili sul melmoso fondale di noi stessi.

A vedere chiaramente come e cosa ci induce a fare e a fallire o a pretendere, a sopraffare, a stizzirci, a reagire, a deconcentrarci, ad abbandonare, a perturbarci, a rinunciare, a pentirci, a pretendere. Quanto cioè impedisca la serenità.

Anche solo il vedere la paura che come un essere di profondità vive in fondo a noi stessi, non solo è un sollievo, ma si avverte un impulso alla circolazione dell’energia, che alcuni si provvedono con sostanze eccitanti. Si avverte allora fiducia in sé e un altro mondo si apre davanti a noi, senza che una foglia si sia spostata.

Quella paura è un vertice del triangolo magico che ci ha imbambolati in un incantesimo. L’io scambiato per noi stessi ne occupa un secondo culmine, mentre al terzo angolo troviamo la separazione dall’origine di noi stessi, il senso di onnipotenza che ne consegue, con il quale, senza indugio alcuno, costruiamo tronfi la nostra torre di Babele. Di cui in quest’epoca ne vediamo svettare la più alta e mortifera.

Ma vivere sotto il giogo della falsa conoscenza e dell’apparenza vissuta come unica e sola sostanza, è una recita faticosa, che implica il forte rischio di crollo catastrofico, come il crescendo di molti malesseri esistenziali, patologici e  misconosciuti ci segnalano, e anche di una vita di giornate e di momenti senza cuore, la cui somma si mostra nel piegarci e nell’appassirci. Le spalle si curvano, gli occhi guardano in basso. Espressioni del nichilismo che ci ha agguantato. Nulla ci affascina più, i pensieri ridondano ossessivamente, fantasmi ed egregore li popolano, loro sì in salute, sazi dall’energia che ci succhiano.

Una fatica superiore a noi che ci toglie l’immaginazione del futuro che vorremmo o che lo riempie di speranze che, inter nos ci diciamo, tanto non si verificheranno. E così accadrà, se pensiamo di dipendere da quanto sta fuori di noi, se non ci accorgiamo di essere i responsabili di come stiamo e di come procediamo. Se non ci avvediamo della gabbia egoica che come una capsula ci avvolge e si sposta con noi.

Lorenzo Merlo

 

Approfondimenti del Blog

Il concetto di Sé, co-costruito a partire dalla nascita in relazione a se stessi e agli altri, rappresenta l’insieme di elementi che un soggetto utilizza per descriversi, basati su tutte le conoscenze che possiede su se stesso. Ad esempio, il concetto di Sé torna molto utile di fronte a richieste quali: descriviti in 5 aggettivi; cosa mi sai dire di te o completa le informazioni del tuo profilo.

Concetto spesso dibattuto tra approcci e punti di vista differenti, tale per cui la definizione accennata prima risulta la più generale e omnicomprensiva. In particolar modo la psicologia, attraverso diversi autori, ha contribuito a tale definizione. Rispetto ai dati Censis precedentemente citati, questi potrebbero essere spiegati attraverso i concetti di Sé ideale e Sé percepito di W. James, uno dei maggiori esponenti della Psicologia Sociale. Egli spiega come il “derivi da una costruzione personale attiva dell’individuo su di se”, che mette insieme nel corso della crescita diverse valenze del Sé, come quello spirituale e sociale, attraverso un accurato lavoro di cesello. Oltre al Sé e alla personalità, come vedremo successivamente, emerge la strutturazione dell’autostima, figlia di un incontro armonioso tra il Sé ideale, ossia l’immagine della persona che ci piacerebbe essere, e il Sé percepito, ovvero il concetto di sé, la conoscenza di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti. Si potrebbe quindi formulare l’ipotesi che coloro i quali non sono soddisfatti della propria immagine fisica soffrano di bassa autostima, tale per cui il Sé percepito non riesce a raggiungere il Sé ideale, inducendo tali soggetti ad una continua corsa, sia inconscia che concreta, tangibile, verso un modello tanto adulato e idolatrato come unica forma possibile dell’essere.

L’identità non è una dote naturale, noi non nasciamo con un’identità sociale: l’identità ce la danno gli altri, l’identità è frutto del riconoscimento. Se una mamma dice al suo bambino “sei bravo” e la maestra gli dice “sei intelligente”, il bambino costruirà un’identità positiva, se la mamma gli dice “sei un cretino” e poi glielo ribadisce la maestra, crescerà con un’identità negativa.

Quando gli antichi greci definirono l’uomo un animale sociale, sapevano benissimo che l’identità singolare di ciascuno di noi e il prodotto del riconoscimento degli altri, gli altri ci danno un’identità e questo non solo da bambini, anche gli adulti che vanno a lavorare e anche se non lo sanno sono funzionari di apparati tecnici, dove collocano la loro identità? La collocano nel ruolo e quando il loro ruolo aumenta nel senso salgono in una posizione sociale più significativa, hanno un incremento della loro identità, quando sono messi da parte hanno un decremento con conseguente svalutazione della loro identità.

L’identità è un dono sociale. Queste cose i greci le avevano capite.

Aristotele dice: se uno entra nella città e pensa di poter fare a meno degli altri o è bestia o è Dio. E a proposito di Dio dice non sappiamo se Dio è felice perché è monacos, è solo. Ecco questo sta a dire che gli uomini hanno bisogno del riconoscimento degli altri.

Bisogna creare allora delle figure di riconoscimento, riconoscimento che non viene tanto dalla sua comprensione nei confronti di suo figlio ma nella creazione di luoghi in cui suo figlio può essere riconosciuto. Ha mai pensato qual è la virtù di suo figlio, la sua vocazione, ciò per cui è nato, ciò a cui tende, il suo demone, che cosa vuol fare? E perché non lo mettiamo in un contesto in cui questa sua virtù può essere riconosciuta? Vuol fare teatro? Vuol fare il calciatore? Vuole fare che cosa? Perché non lo mettiamo lì dove può avere riconoscimenti non tanto nel che cosa si risponde a un bullo, quanto piuttosto creare le condizioni del riconoscimento della propria virtù.

 

 

 

Note

Dante Alighieri, Divina commedia, Inferno, canto XXVI

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