”L’originalità che ha il Commissario De Luca, personaggio di fantasia ambientato nell’Italia fascista in via di disfacimento nasce dalla penna capace di Carlo Lucarelli
L’originalità che ha il Commissario De Luca, personaggio di fantasia ambientato nell’Italia fascista in via di disfacimento nasce dalla penna capace di Carlo Lucarelli. Personaggio Nella Bologna del 1943 il poliziotto si muove in un ambiente in pieno fermento, con i tedeschi che devono ripiegare, i fascisti che resistono con sempre più crudele accanimento, con i comunisti e partigiani che fanno sentire la loro pressione con attentati e azioni. De Luca, infiammato dalla passione dell’indagine ad ogni costo, si trova a gestire il ritrovamento di un cadavere senza testa e di una testa senza cadavere, con figure di ebrei, gerarchi, mercanti di borsa nera, elementi di una degenerazione morale e civile. Il periodo che va dal 25 luglio all’8 settembre 1943 è un periodo strano, privo di regole, tempo di scontri: È incredibile che qui a Bologna ci siano stati solo un ferito ieri e uno ieri l’altro. A Reggio Emilia, alle Officine Reggiane, l’esercito ha sparato e a ucciso nove manifestanti. A Bari altri nove, con più di quaranta feriti.
De Luca quasi rifiuta il contesto storico e politico per testardamente inseguire la “Verità e Giustizia”, sino a sacrificare l’amore, la carriera, gli ideali.
Da una parte i fascisti, dall’altra i tedeschi. De Luca è “un morto che cammina”. Molti lo esortano a lasciar perdere, a accettare una comoda versione dei fatti, a soprassedere. Gli viene offerta più volte una via di fuga, una porta aperte, ma egli la rifiuta non per coraggio, ma per quell’istinto quasi autolesionistico che pospone a tutto la finalizzazione, la risoluzione e lo scioglimento di tutti i nodi. Questa testardaggine farà scegliere a De Luca di aggregarsi alla polizia politica, pur di portare a termine l’indagine. Come nei romanzi cronologicamente precedenti ma temporalmente successivi questa sua scelta coraggiosa o per meglio dire incosciente ne segnerà il futuro pesantemente sia a livello umano che di carriera. Avvincente e emozionante anche se non come i precedenti. Un ottimo romanzo, scritto con una prosa elegante ed introspettiva. Non comunica mai angoscia disfattista, ma, si cerca sempre di costruire e di giungere a capo dell’enigma.
La trama del romanzo
Quello tra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943 è un periodo strano, allucinato. L’Italia si sveglia una mattina senza più il fascismo e praticamente la mattina dopo con i tedeschi in casa. Proprio nel caos di quei giorni De Luca, in forza alla polizia criminale di Bologna, si trova a indagare su un corpo senza testa. Semplice, perché in fondo si tratta di un omicidio, un lavoro da cane da caccia: chilometri a vuoto, piste da seguire e qualche cazzotto da mettere in conto se ficchi il naso dove non dovresti. Complicato, perché la vicenda assume presto risvolti politici che, date le circostanze, diventano molto pericolosi. Comunque sia il caso, è nella natura di De Luca, va risolto. Sempre. Anche a costo di accettare un compromesso.
Come inizia
Peccato mortale
Severino, amico mio
«Il Resto del Carlino», sabato 24 luglio 1943, XXI, Italia, impero e colonie cent. 30.
RILEVANTI FORZE AVVERSARIE RESPINTE NELLA PIANA DI CATANIA. Nella zona occidentale le forze dell’Asse si spostano su posizioni arretrate – IL RICHIAMO ALLE ARMI DELLE CLASSI DAL 1907 AL 1922.
Cronaca di Bologna: IL CENSIMENTO DEGLI SFOLLATI – NON UNA ZOLLA INCOLTA, estensione degli orti di guerra – NOTIZIE ANNONARIE: il burro in distribuzione, lunedì le patate. I prenotati potranno acquistare g. 80 di pollo o coniglio.
Radio: ore 20:30, Il signor Bruschino (farsa giocosa di G. Foppa).
Se non fosse inciampato sarebbe morto, perché il proiettile spaccò il vetro con lo schianto secco di un colpo di tosse e gli passò tra i capelli sulla nuca, di traverso, lasciandogli sulla pelle una ditata lucida e rossa come una scottatura.
De Luca piombò a terra senza neanche avere il tempo di mettere avanti le mani e affondò la faccia in un fagotto gonfio che piú che un sacco, morbido com’era, sembrava un cuscino.
Era la casa sbagliata. Si era perso nel buio senza luna di quella notte di fine luglio, attento piú a non finire nel canale che a distinguere le sagome scure dei casolari di quella parte di periferia che era già quasi campagna. L’oscuramento, e ancora di piú il bombardamento di quella mattina, anche se lontano, avevano spento i pochi lampioni e quando De Luca si era trovato davanti quel muro nero e dritto aveva semplicemente seguito il piano di Rassetto, che prevedeva per lui l’ingresso da dietro, mentre gli altri facevano irruzione dal davanti.
La porta non era chiusa, e già avrebbe dovuto capirlo da quello che non era la casa del Borsaro, ma la parte militare delle operazioni non era mai stata il suo forte, era sempre troppo teso. Così andò avanti lo stesso, e siccome oltre la porta c’era una scala la fece a quattro zampe, come un gatto, perché la pila della sua torcia tascabile lo aveva lasciato già da un pezzo, e non si vedeva davvero niente.
Quando era arrivato in cima alla scala, distratto da un ronzio intenso di mosche che ribolliva nel caldo soffocante, non aveva fatto in tempo ad abituarsi al buio che qualcosa, tra i piedi, lo aveva fatto inciampare.
Poi, lo schianto del vetro dell’unica finestrella sotto il tetto spiovente, il bruciore sulla nuca, la stoffa morbida e gonfia che gli riempiva la faccia, neanche si era accorto che gli avessero sparato, convinto da quella roba vischiosa che gli faceva scivolare le mani mentre cercava di rialzarsi di aver spaccato lui un vaso di melassa, cadendo. Perché ne aveva sentito il vetro rotolare sulle assi del pavimento, perché ne aveva il naso pieno del suo odore
dolce e perché era ancora sicuro che quello fosse un magazzino di generi alimentari di contrabbando.
Fuori, intanto, avevano cominciato tutti a urlare, e questa volta lo sentì, lo sparo, e capì che veniva da un’altra parte, e allora tirò fuori la pistola dalla tasca della giacca, a fatica, perché gli scivolava tra le dita gommose.
Tornò alla scala e scese più in fretta, un po’ per l’adrenalina e un po’ perché il primo proiettile aveva infranto la tendina di polvere secca incrostata sul vetro della finestra e ci si vedeva un po’ di più.
Girò attorno alla casa guidato dal rumore delle voci e uscì nel cortile buio dove c’era un ragazzo, una macchia bianca in mutande e canottiera, schiacciato a terra da Massaron, più scuro e massiccio. Si sentiva dal tintinnare delle catenelle che gli stava mettendo le manette.
– Complimenti, commissario! – gli disse Massaron, entusiasta, dopo che l’ebbe riconosciuto mentre si avvicinava nell’oscurità. – Avevate ragione, stavano proprio qui! E dovete vedere che roba!
– Chi ha sparato? – chiese De Luca. – Lui? – e indicò il ragazzo.
– No, io. Due colpi in aria, a scopo intimidatorio.
Bravo coglione, pensò De Luca, e nemmeno lui avrebbe saputo dire se si riferiva alla guardia scelta Massaron o a sé stesso. Allentò il nodo della cravatta, sbottonando il colletto della camicia perché non gli sfregasse contro la bruciatura sulla nuca, e attraversò il cortile orientandosi con lo spicchio di luce che filtrava dalla massa nera dell’altro casolare, quello giusto. C’era Rassetto, sulla porta, teneva scostata la stoffa pesante di una tenda e gli faceva cenno con una mano.
– E bravo De Luca! – Con la l appena raddoppiata da un leggero accento cagliaritano e i baffetti dritti sulle labbra in un sorriso che ancora non si riusciva a vedere ma che c’era sempre a scoprirgli i denti da lupo, felice o arrabbiato che fosse. – Abbiamo beccato il Borsaro! Ma da dove sbuchi? Non dovevi essere di sopra?
– È una storia lunga, – disse De Luca, ed entrò nella casa, inghiottito dalla tenda spessa e dai vetri dipinti di nero delle finestre.
– Mi sa che avevano piú paura dei ficcanaso che delle multe per l’oscuramento, – disse Rassetto.
C’erano solo due lampadine appese al soffitto che illuminavano il centro della stanza lasciando i bordi nel buio, ma era abbastanza. Salami lunghi e nodosi come dita impiccati alle travi assieme a piccoli prosciutti che saturavano l’aria con un odore che faceva gorgogliare lo stomaco. Sacchetti di sale e di zucchero. Panetti di lardo. Mortadelle sovrapposte come proiettili da mortaio. Damigiane che dalla paglia unta attorno al vetro robusto si intuivano piene d’olio. Sapone impilato in barre tozze e gialle come lingotti. Doveva anche esserci della benzina, da qualche parte nel buio, perché se ne indovinava l’odore, una screziatura aspra in mezzo a quello dolce, salato e unto della carne, quello pungente del sapone, e anche quello del caffè, che si sentiva forte. C’era un motivo se lo chiamavano il Borsaro, Saccani Egisto, con l’articolo davanti e maiuscolo, anche a voce.
– Qui dentro c’è una fortuna, – disse Corradini, che aveva preso in mano un pezzo di lardo e stringeva le dita nel grasso, per tenerlo. Lo mise sotto il naso di Egisto, che se ne stava in ginocchio con le mani sulla testa, calvo, tozzo e insaccato in una tuta impolverata e unta che faceva sembrare anche lui un prosciutto, caduto da una trave sul pavimento. – Quanto lo fai al chilo? Cento lire? Sarebbero diciassette con la tessera, ma chi se ne frega se la gente muore di fame!
Glielo sfregò sui baffi da tricheco ed Egisto rispose con un fremito delle narici, gli occhi chiusi e quel mezzo sorriso che aveva mantenuto immobile sulle labbra anche quando avevano fatto irruzione gridando fermi tutti! e polizia!
Massaron spinse nella stanza il ragazzo in mutande e canottiera, che così ammanettato perse l’equilibrio e finì in ginocchio davanti a Egisto.
– Negroni Gianfranco, anni 14, senza fissa dimora, – disse Massaron, burocratico.
– Borsaro nero e pederasta, – ringhiò Rassetto. – E magari pure giudeo!
– No, – disse De Luca, che stava ancora nell’ombra e nessuno avrebbe potuto vederlo indicare la catenina con la croce che spuntava dalla tuta di Egisto, ma Rassetto se ne era già accorto da solo. Gliela strappò con un colpo secco, cambiandogli per un attimo il mezzo sorriso in una smorfia di dolore.
– È così che dai l’oro alla Patria? – ringhiò, e poi, visto che il sorriso era già tornato piú strafottente di prima gli sferrò un calcio nella pancia che lo piegò in due. Il ragazzo cominciò a piangere per la paura, silenziosamente.
De Luca fece un passo in avanti, perché sapeva che tipo fosse, il maresciallo Rassetto, e anche se gli aveva lasciato la parte militare dell’operazione, l’indagine sul re del contrabbando di generi alimentari era sua.
Ma appena uscì dal buio per entrare nel primo cono di luce al maresciallo Corradini scappò un urlo soffocato, e anche il Borsaro perse il suo mezzo sorriso. Massaron afferrò il commissario per un braccio, come per sostenerlo.
– Merda, De Luca! – disse Rassetto, – ma sei ferito!
De Luca abbassò lo sguardo e vide la macchia scura che gli inzuppava la camicia e anche le maniche della giacca bianca, sugli avambracci.
– No, no, – disse, – tranquilli… è melassa. Ho sbagliato casa, sono caduto e ho rotto un vaso.
Mostrò i palmi rossastri e rise assieme agli altri, dicendosi che imbecille, da solo, ma Massaron, che si stava sfregando insieme i polpastrelli delle dita tozze, da peso massimo, e rideva più sguaiato di tutti, smise di colpo e tornò ad afferrarlo per il braccio.
– Cristo, commissario! Non è melassa, questa, è sangue!
– Sangue? – mormorò De Luca. – Sangue? Ma io non ho… – si toccò la bruciatura sulla nuca, bagnata solo di sudore, – non… non è il mio.
Aveva addosso gli sguardi di tutti, che avevano tutti la stessa domanda. E lui la anticipò soltanto, facendosela da solo.
– Se questo sangue non è il mio, allora, di chi è?
Due torce elettriche da tasca e tre grosse candele, più una vecchia lucerna militare che sfrigolava nella penombra rovente, ronzante di mosche. Si accanivano tutte sul corpo steso sulle tavole di legno della soffitta e De Luca strinse le labbra in un conato acido pensando che dopo esserne inciampato sui piedi era finito con la faccia dritto sulla pancia del cadavere, affondato in quel cuscino di stoffa e carne gonfia.
Era un uomo, imponente, ben vestito e morto, e non era facile dire di più perché gli mancava la testa.
Doveva essere venuto da lì quel lago di sangue spesso e coagulato che gli circondava il corpo, da quel taglio netto che troncava il collo appena un dito sopra il colletto rigido, con ancora il nodo della cravatta.
– La scheggia di una bomba? – disse Corradini, senza convinzione, e anche De Luca stava scuotendo la testa. A parte che il bombardamento della mattina era arrivato soltanto al limitare di quella zona, e non c’era traccia dell’ingresso di una scheggia nella soffitta, la testa era stata troncata da un colpo secco, con una grossa mannaia o una piccola ascia.
– Un’ascia, – confermò De Luca a sé stesso, svuotando con la punta di un indice un solco netto e profondo che tagliava il pavimento proprio in corrispondenza di quel dito sopra il colletto. La voglia di vomitare era durata soltanto una frazione di secondo, l’orrore e il disgusto sopraffatti da quella curiosità che lo prendeva con l’eccitazione di una febbre improvvisa, sempre, nei casi come quello.
Fece cenno a Corradini di avvicinarsi con la lucerna, poi a Rassetto, che camminava piano, come sul ghiaccio, attento a non scivolare sul sangue rappreso. Massaron, inutile in quelle circostanze, era rimasto di sotto, con il Borsaro e il ragazzino in mutande.
Già sporco da prima e sicuro di non rovinare tracce che non avesse già cancellato cadendoci sopra, De Luca si era inginocchiato accanto al corpo, agitando le mani per scacciare le mosche. Infilò le dita nel taschino del panciotto, grattò dentro le tasche davanti dei calzoni, poi afferrò la cintura e sollevò il bacino dell’uomo per arrivare alle tasche di dietro, prima una e poi l’altra, con un rumore flaccido che fece tossire Corradini, strozzato da un conato più forte. Era l’unico a portare il cappello e De Luca glielo chiese con un cenno della mano, senza neppure guardarlo.
– Sarebbe anche nuovo, – mormorò il maresciallo Corradini, che le dattilografe della questura dicevano bello come un divo del cinema e ci teneva allo stile, mentre De Luca ci metteva dentro quello che aveva trovato, poca roba, e non il portafoglio con i documenti che non trovava.
– Dov’è la giacca? – chiese Rassetto. – Un tipo elegante come questo dovrebbe portare anche una giacca, no?
– Fa caldo, – disse Corradini. – È estate. Ha già il panciotto, magari è uscito senza giacca.
De Luca alzò la mano e spostò quella di Rassetto per orientare la torcia verso i piedi dell’uomo.
– Qualcuno mi guarda le suole, per favore? – chiese, sicuro che ad alzarsi, così in ginocchio da tempo in quella patina scivolosa, avrebbe fatto fatica
.– Consumate, da risuolare e con un buco, piccolo.
– Ma lucidissime sopra, – disse De Luca. – Guardate i laccetti. Di un tono appena più chiaro delle scarpe, molto eleganti.
– E allora? – chiese Rassetto.
– E allora è uno che si toglie i lacci per lucidarle, come faccio io, – disse Corradini.
– Io propendo per la giacca, – disse De Luca, sempre piú che altro a sé stesso. – Uno così, che cura tutti i particolari, non ce lo vedo a portare solo il panciotto. Anche se, – prese tra i polpastrelli un angolo della stoffa, – questo è un vestito di lana, uno da inverno, – e infatti era anche troppo scuro per la stagione, – per cui o era un tipo freddoloso o possedeva solo questo.
L’uomo teneva un braccio lungo il fianco, immerso nel sangue, e l’altro sulla pancia. De Luca prese quello e lo sollevò per guardare il polsino della camicia, pulito, sì, ma liso dai troppi lavaggi. Aveva dovuto forzare il rigor mortis, di cui si era già accorto quando aveva tirato su il corpo per frugare nelle tasche di dietro dei calzoni, e mentre spingeva per rimettere a posto il braccio notò qualcosa.
– Fammi luce qui.
Corradini avvicinò la lucerna, infilandola tra le mosche che si tuffavano furiose contro il vetro. De Luca girò la mano dell’uomo per guardarne le dita, che erano scure, sui polpastrelli e sotto le unghie.
– Cos’è quella roba nera?
– Roba nera, – disse De Luca. Era arrivato il momento di alzarsi. Allargò le braccia, come in croce, e gli altri lo tirarono su di peso come un Cristo deposto. Prese una torcia e fece girare la luce sulle pareti buie della soffitta. Staccò anche la mascherina dell’oscuramento per averne di piú. La logica avrebbe consigliato di aspettare la mattina, con la luce del sole, ma c’era quella smania, che gli friggeva dentro, proprio come una febbre.
– Dai, – disse. – Già che ci siamo diamo un’occhiata. Cerchiamo un’ascia e una giacca. E una testa.
Non trovarono niente, né ascia, né giacca, né testa.
Solo qualche sacco di iuta vecchia, un secchio vuoto, di metallo, e un bottiglione di vetro, quello che a De Luca aveva fatto pensare di aver urtato un vaso di melassa. E poi una sedia, in angolo, e un materasso.
Ma niente giacca, né ascia. E niente testa.
Quando tornarono nell’altra casa, il Borsaro aveva smesso di sorridere, e non solo perché Massaron aveva staccato un salame da una trave e ne stava tagliando un pezzo con un coltello a serramanico. Glielo si leggeva negli occhi che avrebbe voluto chiedere cosa c’era nel casolare oltre il cortile. Fissava serio tutto quel rosso bruno e pesante che tingeva il vestito del commissario, ora soprattutto le ginocchia e le gambe. Da qualche parte, nel buio, venivano i singhiozzi del ragazzo, profondi e regolari come un respiro nel sonno.
De Luca prese una sedia di legno e la mise davanti a Egisto, che stava ancora a terra, seduto sui talloni. Si appoggiò allo schienale, restando in piedi, resistendo alla voglia di grattarsi la nuca che gli bruciava sotto il sudore. Rifiutò con un gesto la fetta di salame che Massaron gli porgeva, non perché non la volesse e non avesse fame, ma c’era quella curiosità fremente, che gli chiudeva la gola.
– Noi siamo della Criminale, – disse. – Non dovremmo dare la caccia ai borsari, ma a un certo punto è nata una specie di gara tra noi, i colleghi dell’Annonaria della questura e quelli della Milizia. Sai perché non riuscivano a trovarti, gli altri?
Il Borsaro non disse niente, strinse appena gli occhi con un’espressione che poteva voler dire sì o no, o tutte e due.
– La Milizia perché passi un po’ di roba al centurione che comanda la Squadra Annonaria…
– Fulgido e concreto esempio dell’espressione «avere gli occhi foderati di prosciutto», – disse Corradini. – O anche, «di mortadella», se il camerata centurione Baldelli la preferisce –. Corradini batté i tacchi, accennando un mezzo saluto romano, col braccio piegato sul fianco, e Rassetto strinse le labbra sui denti da lupo.
– Aspetta che ributtiamo in mare gli Alleati e facciamo come i tedeschi, – ringhiò. – Piazza pulita dei traditori come questo qui, – e indicò il Borsaro, – e quella merda di Baldelli.
De Luca si strinse nelle spalle. – La Squadra Annonaria della questura, invece, bravi ragazzi per carità, ma seguivano la roba da mangiare. Sbagliato, perché tu sposti tutta la baracca appena puoi e sei bravissimo a trovare posti dimenticati da Dio come questo.
– Le Case Morri, – disse Corradini. – Abbandonate fin da prima della guerra.
De Luca intercettò lo sguardo accigliato del Borsaro e scosse la testa.
– No, non è stato il principe Morri a denunciarti, figurati. Probabilmente neanche sa che esisti… oddio, il tuo salame lo conosce, perché i colleghi dell’Annonaria mi hanno detto che c’è stato il matrimonio di sua nipote e giravano salami, prosciutti e mortadelle come questi qua, – De Luca fece un gesto circolare con un dito, a mezz’aria, – ma quando uno è principe se ne frega del tesseramento, no?
Corradini batté di nuovo i tacchi, col mezzo braccio alzato.
– Smettila, – mormorò Rassetto. – Faremo i conti anche con i principi.
Parlare di salame gli aveva fatto venire ancora piú fame, così De Luca ne prese una fetta sfilandola da sotto la lama del coltello di Massaron, e quando provò a spellarlo gli si spezzò tra le dita, perché era ancora fresco. Dolcissimo sulla lingua, nonostante il granello di pepe che schiacciò tra i denti. Lo stomaco gorgogliò forte, ma c’era quella smania costante, che gli chiudeva la gola.
De Luca prese lo schienale della sedia e lo rigirò, montandoci a cavallo.
– Lo sai come ho fatto a trovarti? – disse De Luca e il Borsaro socchiuse di nuovo gli occhi ma in un modo che questa volta si capiva che era un no. De Luca indicò il segno rosso sul collo di Egisto, che si portò le dita dove prima c’era la catenina col crocifisso, perché forse aveva capito.
– Ho pensato che uno che rifornisce tutta Bologna, come te, e non lo beccano mai a un posto di blocco, forse per raggiungere i negozi e le piazze di spaccio non usa le strade, ma il canale. E infatti, a fregarti è stato quello, – e indicò di nuovo il collo del Borsaro, che questa volta rimase fermo perché ormai sì, aveva capito.
– Ma non potevi dargliela gratis, la farina, al barcaiolo che ti scarrozza per tutta la città con la scusa di portare in giro il letame per gli orti di guerra? Sai quante case lungo il canale avremmo dovuto perquisire se non ce la indicava lui, questa? Dico, dovevi proprio prendergli la catenina della cresima del figlio?
Corradini rise. – È troppo religioso, – disse.
– No, – ringhiò Rassetto, – è troppo avido, – e gli avrebbe dato un altro calcio nella pancia se De Luca non lo avesse fermato.
– E qui siamo arrivati al punto di tutto questo discorso, – disse De Luca, aggiustandosi sulla sedia come un cowboy dei film americani di prima della guerra. – Io lo so perché sorridevi sempre, prima. Perché vabbè che ti abbiamo beccato e ci hai perso un sacco di soldi, ma tutto sommato la borsa nera è solo borsa nera, qualcuno dice che se non ci foste voi come farebbe la gente, e poi con amici come Baldelli, e magari ci scappa qualcosa anche per noi, che ci faccia dimenticare questa gara tra uffici, chissà, tiri fuori anche il principe e in un attimo sei di nuovo in attività. E invece no, perché quello che c’è nell’altra casa, ecco, quello di sicuro spaventa non solo noi della Criminale, ma anche un centurione e pure un principe.
– Cosa c’è nell’altra casa? – Era la prima volta che la sentivano, la voce del Borsaro, ancora piú arrochita dal silenzio.
– C’è un uomo ammazzato e senza testa.
Il Borsaro fece per alzarsi, ma era troppo tempo che stava accucciato e le ginocchia non avevano piú forza. Appoggiò le dita di una mano a terra, per restare dritto.
– Non sono stato io, non lo sapevo, non c’entro niente, – tutto insieme, sputando tra le labbra.
Che non sapesse, non fosse stato e non c’entrasse, De Luca lo aveva capito fin da quando era tornato così sporco di sangue vecchio e il Borsaro aveva smesso di sorridere, piú smarrito e perplesso che spaventato. Adesso però sì che aveva paura.
– Vedremo. Per adesso sei il principale sospettato. La usi tu la casa oltre il cortile?
– No.
– Sai chi la usa?
– No.
– Ci hai mai visto qualcuno o qualcosa?
– No.
De Luca sospirò. Lanciò un’occhiata a Rassetto, che lanciò un’occhiata a Massaron, che sferrò un pugno al Borsaro, sotto uno zigomo. Egisto si piegò sul braccio che aveva a terra, Massaron lo prese per il colletto della tuta e lo tirò su, sempre in ginocchio. Da qualche parte, nel buio, il ragazzo smise di singhiozzare e cominciò a piangere con un belato così sottile che quasi non si sentiva.
De Luca avanzò con la sedia. Il suo collega anziano, il suo mentore quando era entrato in polizia, gli aveva sempre detto che qualche cazzotto, a un criminale, ci sta, tanto se li merita comunque, e il Borsaro un criminale lo era, avido, affamatore, sfruttatore di ragazzini come quello in canottiera e mutande che piangeva nel buio e sicuramente stava con lui per fame, mica per altro. Però avrebbe voluto limitarsi a quello, di cazzotto, massimo un altro, non piú di un paio. Per questo si piegò sulle gambe davanti della sedia, in equilibrio, per parlargli piú da vicino.
– Ricomincio dalla fine. Ci hai mai visto qualcuno o hai notato qualcosa di strano, di là?
– No.
Lo schianto del pugno di Massaron strappò un gemito a Egisto. Era mancino, Massaron, stava tirando col destro, piú debole, senza metterci neanche troppa forza, ma aveva colpito sempre nello stesso punto, sotto lo zigomo, che cominciava a diventare gonfio e giallastro.
De Luca sospirò, tornando ad appoggiarsi sulle quattro gambe della sedia. Lo spostamento d’aria del cazzotto gli era passato tra i capelli.
– Sono sicuro che non ce lo lasci tutto questo ben di Dio senza nessuno che te lo sorveglia con gli occhi bene aperti. E non mi raccontare che hai sistemato qui la tua attività senza controllare cosa ci stava attorno. Te lo chiedo un’altra volta…
Massaron partì ancora prima che De Luca avesse finito la frase, perché il Borsaro aveva cominciato a scuotere la testa per dire di no, e infatti il pugno non lo prese piú sullo zigomo ma sulla bocca. Sputò un dente, tossendo sangue e saliva.
Dal buio il ragazzino smise di piangere per un momento, ma ricominciò subito. De Luca cercò la macchia biancastra della canottiera che fremeva nell’oscurità e fermò Corradini, che aveva seguito il suo sguardo e stava per andare a prendere il ragazzo. Non c’era bisogno di spaventarlo oltre e laggiù, probabilmente, si sentiva piú protetto.
– Scommetto che sei tu quello che resta qui quando il tuo amico va in giro a vendere. È vero?
– Franchino! Non dire niente!
De Luca non si voltò neanche a guardare, sentì solo lo schianto del pugno.
– Basta, – disse a Massaron, e al ragazzo, piano, – hai visto qualcosa? Per favore, dimmelo.
Franchino annuì, ma non lo vide nessuno.
– Per favore, – ancora più piano.
Un sospiro profondo, rotto da un singhiozzo, come i bambini, poi il ragazzo cominciò a parlare, in fretta e in bolognese stretto, con i denti che gli battevano. De Luca non riusciva a capire quasi nulla.
– Ha detto che questa mattina si è preso paura per il bombardamento, – tradusse Corradini, che era l’unico di Bologna, – credeva che le bombe arrivassero fin qui ed è scappato. È arrivato fino alla chiusa, voleva passare dall’al tra parte del canale, ma poi è tornato indietro perché ha visto… cos’è che hai visto?
Il ragazzo lo ripeté, con un filo di voce, poi, siccome Corradini insisteva, senza capire, cos’hai detto che hai visto?, allora venne fuori dal buio, gli occhi, la bocca, anche le narici allargate dal terrore, e lo urlò così forte e così spaventato che vennero i brividi a tutti.
– Al Crest d’i càn! A io’ vest’ al Crest d’i càn!
– Il Cristo dei cani, – disse Corradini.
– Il Cristo dei cani? – ripeté De Luca, e anche Rassetto, – il Cristo dei cani? E che cazzo è?
– Il Borsaro lo mandiamo a San Giovanni in Monte e il ragazzino dalle suore. Che lo trattino bene, però, se no finisce che non parla proprio piú.
Aveva smesso subito, di parlare, nonostante l’insistenza di De Luca e gli sguardi interrogativi di tutti, pure del Borsaro, che si vedeva avrebbe voluto fargliene anche lui di domande. Ma ormai si era capito che da quelle labbra strette e tremanti cosa fosse il Cristo dei cani, per quella notte, non sarebbe uscito.
– Che facciamo qui? – chiese Rassetto. Aveva portato nel cortile la 1100 a benzina del Borsaro trovata nella stalla del casolare e giocava con la chiave facendosela scorrere tra le dita. Di fianco alla Balilla a gassogeno della polizia giudiziaria, col bombolone della caldaia saldato sul portapacchi posteriore, sembrava un’Aprilia fuoriserie. – Tutta questa roba nelle macchine non ci sta, ci vuole almeno un furgoncino. Chiamiamo l’Annonaria?
De Luca scosse la testa. Solo a pensare agli agenti dell’Annonaria, al medico legale, al dirigente della Giudiziaria, al giudice e chissà, anche al questore, tutti in giro sul suo luogo del delitto, con quel buio, gli metteva i brividi.
– Massaron e Corradini restano di piantone. Noi andiamo in questura con gli arrestati e vi mandiamo qualche guardia a rilevarvi.
Corradini lanciò un’occhiata a Massaron, che stava fissando i prosciutti. Aveva anche fatto un passo avanti, di slancio, subito fermato dallo sguardo del collega.
– Non c’è bisogno. Dormiamo qui noi e ci vediamo domani. Davvero, tranquilli.
Rassetto sorrise sui denti da lupo.
– Non vi mangiate tutto, – e a De Luca, – sicuro che il capo sia d’accordo?
De Luca guardò l’orologio e annuí, deciso.
– Appena in questura chiamo il dottore, che già sarà furioso che lo svegliamo a quest’ora, figurati se lo buttiamo giù dal letto. Andiamo, – disse, e poi lo ripeté, andiamo, perché all’improvviso quella febbre che gli ribolliva dentro, sorda e costante come acqua sul fuoco, era diventata un fastidio insopportabile.
Sentiva la bruciatura lucida sulla nuca, il peso appiccicoso del sangue sul vestito, l’odore unto della roba da mangiare, pure il sudore afoso di quella notte d’estate. Aveva bisogno di muoversi, uscire, andarsene, mettere in fila, con calma, tutta quella roba che gli ribolliva nella testa.
Gli era venuta qualche idea, ma aveva bisogno di pensarla per bene, e non solo di sentirla.
– Vi lasciamo la Balilla, – disse Rassetto, – e ci prendiamo la 1100. Guido io.
«Il Resto del Carlino», domenica 25 luglio 1943, XXI, Italia, impero e colonie cent. 30.
LA BATTAGLIA SUL FRONTE SICULO. Aspra lotta delle truppe dell’Asse contro forze corazzate nemiche, Palermo sgomberata, incursioni su Bologna e Salerno. Un pugno di eroi contro il soverchiante nemico – PAGINE DI GLORIA TRA IL DON E IL DONEZ, i bersaglieri di Caretto contro i mongoli all’arma bianca.
Cronaca di Bologna: GRAVI DANNI AL CENTRO CITTADINO PROVOCATI DALL’INCURSIONE DI IERI, le innocenti vittime della furia nemica. Pronta opera di soccorso – I PREZZI DELLA FRUTTA E VERDURA: aglio (bianco e rosso) L. 4, asparagi L. 3,30, insalate di qualsiasi qualità L. 2,80, cocomeri L.1,50.
Radio: ore 17:45, 0rchestra diretta dal maestro Cinico Angelini.
– A cosa stai pensando? – chiese Lorenza. Pensava che non avevano trovato niente neanche il giorno dopo, né la giacca, né l’ascia, né la testa. De Luca era arrivato alle prime luci dell’alba con un vestito pulito color tabacco e un Fiat 618 della Squadra Annonaria con dentro un maresciallo e due guardie ancora morte di sonno, che avevano fatto fatica anche a tirarsi fuori dal furgoncino. Nel cortile del casolare c’era già un vecchio 18BL della Milizia pieno di camicie nere che saltavano giù dal cassone del camion, agili e rapide, quasi fossero a una esercitazione. Sulla porta, Massaron sbarrava l’ingresso a braccia aperte, mentre Corradini discuteva con un ufficiale che gli saltellava davanti, arrabbiatissimo. Così nero nell’uniforme, le braccia che si agitavano aperte, come ali, e pure il naso adunco come un becco, sembrava davvero un corvo. “Siete voi il responsabile di questa banda?» disse a De Luca, e forse sarà stata l’impressione generale, ma anche con la voce sembrava che gracchiasse. Aveva gli alamari sulle maniche della giacca e De Luca contò tre strisce gialle sotto la stella. Un console, un pezzo grosso, quasi. “Sono il console della MVSN Amedeo Martina. Dite ai vostri sgherri di farsi da parte, sequestriamo tutto in nome della Squadra Annonaria della Milizia”. “È arrivata prima la questura», disse De Luca.
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L’autore
Carlo Lucarelli affermato scrittore di letteratura gialla e noir, vive tra Mordano (Bo) e San Marino. Il suo percorso narrativo va dai racconti brevi sparsi nelle varie antologie del Gruppo 13 (di cui fa parte) alla trilogia giallo-storica con il commissario De Luca pubblicata dalla Sellerio (Carta bianca, L’estate torbida e Via delle Oche). Dopo Almost blue (1997), Il giorno del lupo (1998 e 2008), L’isola dell’Angelo caduto (1999, Finalista al Premio Bancarella 2000), Mistero in blu (1999 e 2008), Guernica (2000) e Lupo mannaro (2001), tra i suoi libri pubblicati da Einaudi Stile libero ci sono il romanzo Un giorno dopo l’altro (2000 e 2008) e i racconti di Il lato sinistro del cuore (2003); poi Misteri d’Italia (2002), Nuovi misteri d’Italia (2004), La mattanza (2004) e Piazza Fontana (2007), gli ultimi due con allegati i Dvd del ciclo televisivo “Blu notte“.
- Peccato mortale. Un’indagine del commissario De Luca
- Carlo Lucarelli
- Editore: Einaudi
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Cloud: Sì Scopri di più
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 439,6 KB
- Pagine della versione a stampa: 248 p.
- EAN: 9788858429013. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/peccato-mortale-indagine-del-commissario-ebook-carlo-lucarelli/e/9788858429013?gclid=Cj0KCQjw8fr7BRDSARIsAK0Qqr5k11YEj0yjMyV-WkqlU-9P73oXGf_jlGpNnyw28a__FCY-Ti27o04aAiG5EALw_wcB” btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 9,99[/btn]