C’era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevano tutti bene

 

PER TENERE BUONO IL LUPO CI VOGLIONO LE CHIACCHIERE


In margine alla versione romagnola della favola di Zio Lupo, che lui stesso definisce «una delle versioni che possono dirsi più ricche» (le altre essendo poco più che brevi schizzi narrativi), Italo Calvino fa questa annotazione: «Zio Lupo, Barbe Lof, Barba Zucon, Nonno Cocon: è la più semplice fiaba per bambini della tradizione popolare, diffusa nell’Italia settentrionale e centrale, col suo rudimentale contrasto di ghiottoneria e schifo stercorario, e con la sua progressione paurosa. Da questo tipo semplicissimo si arriverà alla perfetta grazia di Cappuccetto rosso».

E già, a chi non viene in mente Cappuccetto rosso, se gli ingredienti sono gli stessi: i dolcetti, la bambina e il Lupo?
Manca all’appello, nella versione italiana, soltanto la Nonna. La sua, però, è un’assenza così densa di significato, che per colmarla certe volte è il Lupo stesso a subentrarle nel grado di parentela: eccolo allora, non più zio, ma nonno Cocon.

 

 

 

 

 

 

 

 

Voi, che dite? conviene affidarci al capriccio del narratore che si è divertito, di volta in volta, a dare o a togliere al Lupo questo o quel «legame di parentela» con la bambina, o non è più spassoso (nel qual caso a divertirci saremmo noi) se questo «legame» lo dessimo invece per scontato, e se invece di un vincolo di parentela in senso proprio provassimo a ricordarci che, nei miti nordici, il destino del mondo umano dipende dal laccio con cui è stato in illo tempore «legato» il Lupo?
Non è, ancora, lo stesso laccio, lo stesso vincolo, lo stesso patto che, per golosità, la nostra bambina infrange con le conseguenze che sappiamo?

E allora su, proviamo a dare noi un senso a questi, apparentemente così assurdi, vincoli di «parentela».
Il primo quadro che ne viene fuori, sarebbe questo:

Nonna, mamma e nipote: da una generazione all’altra, la Donna non fa che tramandarsi il suo «peccato di gola»: dalla mela di Eva a venire in qua, questo «peccato» ha preso, a quanto sembra, un’accezione sempre più «figurata», ma solo perché mano a mano il «codice» è ruotato in senso sempre più «sessuale» e sempre meno «culinario».

Perciò, se questa genealogia dice qualcosa, dice solo che la Nonna è la Golosa Antica, la Famelica (già che ci sei, tieni a mente anche la vecchia Muri Ranga Whenua).
Ora, che questa Nonna si ritrovi come nipote un Maui o una Cappuccetto rosso, per lei non fa differenza: se ne sta a casa e aspetta che lui o lei le porti da mangiare. Ma lui o lei che sia, il nipote o la nipote si farà attendere più del necessario: a bella posta, come nel caso di Maui, o per un brutto incontro, come accade a Cappuccetto rosso. Morale della favola: la Nonna deve patire un «ritardo», un «rinvio», un «differimento», e per una come lei, abituata a mangiare crudo, e dunque a servirsi subito, la cosa sarà penosa, la manderà in bestia.

Ma, d’altra parte, lei è (ancora) una Bestia: può essere golosa quanto vuoi, ma mangia (ancora) crudo. E visto che ora non si mangia più crudo, sta’ a vedere che non sa più che farsene della vecchia mascella da «cannibale». Se Maui la usa come «arma magica», la sola «magia» di cui, di fatto, è capace è quella di distinguere i sapori (dell’anguilla): il dolce dal salato.
È dal sangue lavato via da quella mascella (allorché Maui la «battezza» alla nuova dieta) che spunta fuori il «rosso» sulla guancia del pesce kokopu (e c’è da scommettere: sul cappuccio della nipotina).

In quanto a sua figlia, la Mamma golosa della Nipotina golosa, lei ha smesso di mangiare «crudo», lei «cuoce» (pane e/o frittelle), lei usa il «fuoco», anche se il «fuoco» non è di sua proprietà, ma appartiene al fratello – Zio Lupo.
Lei «cucina» per tutti i parenti, prossimi e lontani, lei «volgarizza» l’uso del fuoco, lo diffonde – ma c’è qualcosa, una ragione forte che le impedisce di farlo in prima persona: lei non può allontanarsi dai fornelli, tant’è che manda la figlia nel bosco, la manda cioè a correre il rischio di incontrare il Lupo, quando non la manda, come nella nostra favola, espressamente a casa di «zio» Lupo.
E già, perché suo fratello, il Lupo, e sua madre, la Lupa, «abitano» lo stesso cannibalismo crudo. Il Lupo, sebbene sappia accendere il fuoco, non lo usa a scopi alimentari. È a sua sorella che viene l’idea. È lei che, pur di avere il fuoco e soddisfare la propria golosità, non esita a offrirsi come oggetto della golosità altrui, di quell’altra golosità che la priva d’essere Donna e la riduce a essere puro oggetto di scambio sessuale. Solo femmina.

Alla 2a generazione abbiamo dunque le «nozze incestuose» del peccato di gola con la sapienza di chi sa accendere il fuoco: la Bella e la Bestia – la Bella data in pegno alla Bestia (ecco perché non può muoversi di casa: è prigioniera del Signore del Fuoco; lo confesso: sto pensando a Venere data in pasto al Fabbro Vulcano).
È da questo «incesto» di due diversamente peccatori, che è nato il fuoco di cucina. È nata la cottura, e dalla cottura la cultura, e dalla cultura la società, e la società si è venuta moltiplicando, e dacché, sta scritto, «gli uomini cominciarono a moltiplicarsi», sparirono anche le ultime tracce della Donna. Da allora non vengono al mondo (al nostro mondo) altro che «figlie degli uomini», figlie – a questo punto si può dire – del Fuoco, e non più delle Acque.

Il paradosso vuole che a detenere il (segreto della tecnica per l’accensione del) fuoco sia il Cannibale. Proprio lui che non ha nessuna intenzione di cuocersi il cibo, dispone del fuoco o, per pura fiabesca metonimia, della «padella» per friggere le frittelle!
Vuoi o non vuoi, è con lui che ogni nostra golosità – ovvero ogni «nipotina» umana – deve fare i conti.
La nostra «umanità», poiché è debitrice al Lupo del fuoco, poiché al Lupo è «legata» mani e piedi, deve continuamente bussare alla sua porta e scendere a patti con lui.

E con ciò arriviamo al punto.
Arriviamo alla nostra, alla terza generazione: arriviamo là dove comincia la favola: a scuola! dove c’è una Maestra (suppongo di Parola) la quale promette alle bimbe le frittelle di carnevale, ma a condizione che sappiano «fare la maglia».
Dico: vi sembra una maestra «seria»? non dovrebbe semmai pretendere che esse sappiano l’alfabeto?
Qui sono i dogon che ci danno una mano e ci aiutano a decifrare la favola – sono loro che dicono che la Seconda Parola è quella «tessuta». Parlarla è saper «fare la maglia».

Sei golosa e hai voglia di frittelle?
Impara a dirlo, impara a lanciare l’appello attraverso una tecnica «sociale», impara a parlare una lingua «volgare».
Ma la nostra bambina no, non vuole sforzarsi per impararla. Vuole le frittelle, e basta. Le vuole a prescindere da ogni sapere! Le vuole perché le vuole, punto e basta! Non ha nessuna voglia di apprendere a «fare la maglia», non sa «parlare» che la lingua di casa, la Prima Parola.

A casa, la Mamma la capisce a volo – a casa le basta la Madrelingua fatta di cenni e di gesti d’intesa. E perciò alla Mamma la bambina può lanciare l’appello: «Voglio le frittelle! Le voglio subito, tanto più che oggi è carnevale» (e da domani, è sottinteso, ci toccherà «mangiare crudo» per quaranta giorni).
All’interno dunque della famiglia, con la mamma, lo zio e la nonna (quando c’è), la bambina s’intende che è una meraviglia. E lì è anche capace di fare quegli scambi (di sapori) «reali» che invece non le riesce di tradurre in omologhi scambi (di saperi) «simbolici». Anzi, è così brava da avventurarsi nel tentativo di un imbroglio. Ha dunque capito che si può «imbrogliare» l’Altro, prima ancora di imparare l’alfabeto!

Picasso – La golosa

Quel che non ha capito ancora è che l’imbroglio bisogna saperlo fare. Quando si tratta di scambiare (sapori) «reali», è difficile che l’Altro si faccia ingannare, perché gli basta assaggiare per distinguere il «dolce» dal «salato».
In cucina non è possibile scambiare «chiacchiere» con «frittelle», o forse sì – ma a una sola condizione: che il «codice» sia capace di un tale funambolismo da avventurarsi in una doppia acrobazia, passando dalle parole ai fatti, dalle chiacchiere con cui si tramanda la ricetta delle frittelle, alla produzione di chiacchiere commestibili, ovvero di una pietanza «reale» che porta memoria nel nome del suo giro inverso, della simmetria che, sia pure invertita, è ancora lì a strizzarci l’occhio «dalla padella» di una fiaba qualsiasi.

Ho fatto un giro di parole, per dire in fondo solo questo: che nessuna bambina «golosa» ingannerà mai suo zio il Lupo, finché resterà analfabeta.
Non le riuscirà di «legarlo» finché non sarà capace di imbrogliarlo a parole: perché solo nelle parole è possibile spacciare per una ghiottoneria quello che Calvino chiama «lo schifo stercorario».
Se pensi di cavartela portando al Lupo della vera «merda», ti sbagli, e di brutto! Ci vuole ben altro, per tenerlo a cuccia. Per informazioni, rivolgersi a Óðinn e a Týr.
Per ingannare il Lupo, altro che chiacchiere. Per ingannarlo, ci vogliono le chiacchiere fatte «ad arte», e se quelle «fritte» dalla Mamma te le sei pappate tu, dopo non le puoi rimpiazzare con delle polpette d’escrementi d’asino. Ci vogliono le chiacchiere della Maestra per praticare l’astuzia degli scambi simbolici.

 

 

 

 

 

 

 

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