”Vipereos mores non violabo – (Non violerò la morale della vipera)
PERCHÈ… “ALLA CAZZO DI CANE”
“Non violerò le usanze dragonesche”. All’insegna del motto dell’antica famiglia dei nobili Visconti comincia il nostro viaggio dentro l’origine di alcuni modi di dire divenuti popolari. A Milano, crocevia di persone e avanguardia di arte e cultura, e in seguito lungo tutto lo Stivale.
Per chi mai passasse in piazza Missori, la cosa che più da all’occhio e in alcuni casi un forte senso d’angoscia, sono i resti dell’abside di San Giovanni in Conca. Una basilica di età paleocristiana, abbattuta nel 1947 per lasciare il passo alla Milano post-bellica dei grandi viali. Quella piazza è forse uno dei luoghi maggiormente alterati dal tempo, modificando con essa drasticamente l’assetto e la percezione della piccola porzione della Milano storica nota come “ Bottonuto ”.
Il palazzo, voluto da Bernabò Visconti nel XIV secolo quale sede politica e residenza della famiglia, fu eretto sul luogo della vecchia canonica della chiesa di San Giovanni in Conca, già cappella palatina della famiglia.
Il nome venne attribuito al palazzo dal popolino milanese per la smodata passione cinofila di Bernabò che vi alloggiava i suoi numerosi mastini e segugi per la caccia. Molti altri cani del Visconti erano inoltre forzosamente distribuiti presso i sudditi milanesi e precise leggi comminavano pene molto severe per chiunque osasse danneggiare in qualsiasi maniera i cani del tiranno.
Alla presa di potere del nipote Gian Galeazzo Visconti il palazzo fu lasciato in preda al popolo che lo saccheggiò e lo danneggiò. Dopo questo avvenimento, il palazzo risulta sempre in possesso della famiglia Visconti, fino a quando ciò che rimaneva del palazzo fu definitivamente distrutto da un incendio nel XIX secolo: ricostruito dalla famiglia Carli, commercianti di seta, il palazzo fu acquistato dal Comune di Milano nel 1946 e demolito per far spazio all’attuale Hotel dei Cavalieri. (Wikipedia)
Il Signore della città, uno dei più controversi della storia meneghina, era ossessionato dai cani a tal punto che si dice ne possedesse circa cinquemila e che vagassero liberamente per la città rialloggiando di sovente nella loro dimora; quando ciò non era possibile, dato il cospicuo numero, i cani (facilmente riconoscibili da un collare rosso con il Biscione visconteo) entravano nelle case dei milanesi e lì iniziava un supplizio che avrebbe accompagnato il cittadino per moltissimi anni. Infatti, per volere del Bernabò, se mai uno dei suoi cani avesse scelto una casa ed una famiglia, la stessa sarebbe stata costretta a pulirli, sfamarli e curarli.
Alla faccia di chi dice che l’uomo è il padrone del cane!
Semmai il cane si fosse affezionato al nuovo proprietario (suddito, per meglio dire) e la voce si fosse sparsa, il malcapitato cittadino sarebbe stato ciclicamente chiamato alla dimora in piazza Missori affinché Bernabò stesso potesse verificare lo stato di salute e igienico del quadrupede. Guai se il cane fosse stato trovato malnutrito o malato! Le pene che il Signore avrebbe inflitto ai cittadini poco diligenti sarebbero state da girone dantesco…
Da questa storia, avvolta tra mito e leggenda, derivava l’espressione milanese “alla Cà di càn” (andata in disuso agli inizi del ‘900) per indicare il senso di angoscia del recarsi in un determinato luogo.
Milano però, crocevia di persone e culture nonché trampolino di lancio storico di diverse avanguardie culturali, non lasciò questa locuzione tra le sue spesse mura. Infatti, il termine si rivelò così diretto e “armonico” da integrarsi alla perfezione con i vari dialetti e accezioni di cui ricca da nord a sud è l’Italia, storpiandolo con il più turpe “cazzo di cane” al fine di identificare una azione fatta male o priva di criterio.
Oggi della Cà di càn non rimane più nulla, distrutta e più volte ricostruita fino alla scomparsa definitiva, come detto all’inizio, nei mesi subito successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Nonostante l’incedere della modernità con tutto il suo fardello di oscenità e stupri scolpiti sulla cartapesta, è come se la storia riecheggi lontana proprio attraverso quelle esclamazioni profferite dalle genti d’oggi. Innocentemente ignare del passato delle loro stesse espressioni quotidiane.
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