”Grande narratore dell’assenza e della perdita in tutte le loro accezioni, Philippe Forest stavolta ci racconta una catena di strane scomparse. Storia thriller? No: pura metafisica. Esistenziale.
Non è un romanzo semplice quello che Philippe Forest propone con Piena. Probabilmente, dato il suo passato non poteva che essere altrimenti.
La trama del romanzo.
Segnato da un lutto in un passato indefinito, un uomo decide di tornare nella città dove è nato e dove molti anni prima aveva vissuto. Ed eccoci così a seguire i passi del narratore per le strade di una metropoli che potrebbe essere Parigi: il suo quartiere è stato recentemente demolito – tutto è sventrato, è possibile vedere il suolo originario, toccarlo -, e ricostruito senza anima, spopolato. Uno scenario tangibile, che però sembra disgregarsi, via via che il quartiere si svuota sempre di più, via via che spariscono, come per gli effetti di un’epidemia, i rari esseri che il narratore sfiora: un gatto, un’amante, uno scrittore che si crede un profeta. Attorno a lui i segni si moltiplicano. La casa dove ha scelto di abitare gli sembra una casa infestata, sperduta in una terra incerta. Presto sopraggiungerà un diluvio. Qualsiasi cosa si perda, si ha la strana sensazione di aver perso tutto con l’essere o l’oggetto che abbiamo perduto. E ogni nuova trasgressione a quel vuoto non fa che reiterare quell’assenza.
La piena nella vita di un uomo arriva improvvisamente, e in questo caso fa seguito ad un lutto importantissimo che segna l’essenza umana per sempre, una piena incontenibile che straborda dai limiti fisici dello scrittore e raggiunge la città d’origine dove Forest si era ritirato a vivere. Il paesaggio entro cui si muovono le voci di questo romanzo – uno scrittore vicino di casa, un’amante musicista e un gatto – è quasi un paesaggio lunare. Sopravvive sulle rovine di ciò che era stato prima e va all’origine delle cose, fa toccare con mano nuda le fondazioni, le preparazioni degli edifici, fino a raggiungere lo sterile. Il viaggio Forest lo compie dentro di sé, ondeggiando con grande maestria tra il dentro e il fuori, in un’atmosfera surreale che rimane in bilico tra la realtà e la follia. Il titolo del romanzo fa da contrappeso a ciò che davvero impregna queste pagine quasi poetiche : l’assenza. Un’assenza talmente grande che esonda e tutto ingloba, che inesorabile avanza eppure non lascia presumere una perdita totale di sé. Raffinato per lingua e prosa, Piena, conduce su fondali mentali di cui prima si ignorava forse l’esistenza, in un’introspezione che scivola tranquilla come un romanzo semplice.
Piena è un romanzo da leggere in maniera attenta, dietro ogni frase, dietro ogni pagina, ci sono elementi che il lettore attento può ricondurre al passato di Philippe Forest, e al demone che si porta dentro per la perdita di sua figlia. Un libro che tutti dovrebbero leggere per comprendere in che modo, una mente geniale come quella di Forest, affronta il problema universale del viaggio umano verso il nulla assoluto.
Come inizia.
1
Fu come un’epidemia. Ma il mondo non ne seppe mai nulla. Del fenomeno di cui parlo, non è rimasta traccia in nessuna cronaca che permetterebbe di ricostruirne il corso. La malattia – ammesso che la si possa chiamare così – dilaga in segreto. In un certo senso è il segreto. Nessuno può dire quando ebbe inizio il contagio. E nessuno può affermare che adesso sia terminato. Non è neppure certo che abbia avuto un inizio e una fine. Sarei incapace di datare con una precisione anche solo relativa i fatti che mi accingo a riferire in queste pagine. Erano giunti segni in gran numero di cui il mondo avrebbe dovuto accorgersi. Ma io stesso l’ho realizzato solo a posteriori e dopo aver capito cosa significavano. Agli occhi degli altri, penso non vogliano dire nulla. E anche quando avrò rivelato tutto quello che so, non mancherà chi continuerà a considerare il mio racconto un’invenzione.
Benché non riguardi me più di chiunque altro, racconterò in prima persona la storia che state per leggere e dirò come mi è successa. Si testimonia, io credo, solo a questa condizione. Una verità – per generale, universale che sia – può servire a qualcosa solo se si racconta a chi e come, in quali circostanze e sotto quali forme si è manifestata. Ma tacerò il mio nome. Non è importante. Poche persone lo conoscono. E quello che credono di sapere di me fornirebbe loro argomenti supplementari per mettere in dubbio la mia parola.
Supponendo che questa testimonianza diventi un libro, lo firmerò con uno pseudonimo. Oppure chiederò a uno scrittore se accetta di prestarmi il suo nome. Possibilmente uno scrittore un po’ in vista, posto che ne esistano ancora. Ma quando verrà il momento, temo che non avrò l’imbarazzo della scelta. Mescolerò al racconto della mia vita alcuni tratti presi dalla sua. Oppure il contrario. Di modo che il falso non possa essere distinto dal vero. Agisco con prudenza. Non vogliatemene. Mi nasconderò dietro di lui. Se poi le cose si mettono male, lui potrà sempre fare lo stesso dichiarando che non c’entra nulla con il libro di cui passerà per essere l’autore. Dirà che si trattava solo di un romanzo. Conosco anch’io la viltà degli scrittori. Non mi faccio illusioni in merito.
Il mio caso non conta. Ma bisogna pure che lo evochi per dare credibilità a quello che state per leggere. Non so bene cosa dire di me. “Ho vissuto” dovrebbe bastare. Ci sono cose che ho imparato, nelle quali ho creduto e di cui poco alla volta ho capito che non erano così attendibili come mi avevano insegnato quando ero bambino. La mia situazione personale non ha nulla di straordinario. La considero anzi molto banale. Mi sentirei in colpa se facessi credere che non è così. Mi sono successe delle cose, questo sì, che non sono del tutto estranee alla scoperta di cui sto per parlare.
Ma avrebbero potuto benissimo restare senza conseguenze. E altre ne sarebbero potute accadere che mi avrebbero ugualmente aperto gli occhi. Senza neppure averlo voluto davvero, seguendo spontaneamente il corso che altri tracciano per la nostra vita ma che finiamo sempre per credere di averle impresso noi stessi, mi sono conquistato un posto nel mondo adeguato alla mia mediocrità. Per il ruolo che occupavo tra i miei simili, ho ricevuto la retribuzione che viene solitamente accordata agli uomini e che, senza mai appagarli del tutto, in genere lusinga la loro povera vanità. Aggiungo che ho amato e che sono stato amato. Il che, nonostante tutto, mi ha reso felice. Fornisco queste precisazioni – nient’altro che precisazioni – perché non si attribuisca ciò che ho da dire a una qualche forma di miseria sociale o sentimentale che avrebbe potuto offuscarmi la mente e provocare il mio presunto delirio. Per ora penso che non sia necessario aggiungere altro.
Io non sono in discussione. Ho sempre avuto la testa sulle spalle. Niente, mai, è riuscito a farmi perdere il senso della realtà. Faccio male, mi rendo conto, a insistere su questo punto. Qualcuno potrebbe considerarlo sospetto. Voler convincere gli altri – a tutti i costi – della propria sanità mentale è un chiaro segno che non si è poi così a posto. Eppure io non sono pazzo. Lo so. Se lo fossi, non mi esporrei al rischio di attirare io stesso l’attenzione sul possibile squilibrio della mia mente. Ma lo ripeto: qui non si tratta di me. Anche se rischio di aggravare la mia situazione, confesso che la mia convinzione è di un’altra natura. Se so che io non lo sono, non ho nessun dubbio che il mondo invece, quanto a lui, sia pazzo, che lo sia sempre stato, e lo diventi sempre di più. Mi piace credere però che la sua follia mi abbia risparmiato – non può essere che così, dato che ne sono consapevole. In un ospedale psichiatrico, un individuo nel pieno possesso delle sue facoltà mentali non può che essere considerato come una specie di mostro. Ma credo anche – ed è la ragione per cui scrivo queste righe – che esistano altre persone – è a loro che mi rivolgo – che non sono ancora sprofondate nella demenza di cui parlo o comunque che potrebbero ancora recuperare la ragione. Solo il destino del testo che sto redigendo, l’avvenire che gli sarà riservato, diranno se ho visto giusto oppure no.
Parlavo di “epidemia”. La parola mi è venuta da sé. È quella con cui ho voluto che il mio rapporto cominciasse. Ora bisognerà che ne giustifichi l’uso. Indica un male che si diffonde tra gli uomini, va dall’uno all’altro, li contamina secondo modalità che l’intelligenza non è del tutto incapace di comprendere ma che ai suoi occhi conservano tuttavia un carattere sempre un po’ imprevedibile e enigmatico. Il flagello è fatale per qualcuno. Non lo è per tutti. Colpisce certe persone e ne risparmia altre. Né quelli che soccombono né quelli che sopravvivono sanno il perché. Mi rendo conto che sin dall’inizio rinvio il momento di dire quale fu la natura esatta del fenomeno di cui parlo. Il fatto è che si tratta di un fenomeno che non capisco del tutto. Diciamo che annessi e connessi continuano a sfuggirmi. Soprattutto, mi ritraggo di fronte all’enormità della confessione che mi tocca fare. Un giorno, ho realizzato che il mondo intorno a me, e tutti quelli che ci vivevano, stavano sparendo sotto i miei occhi e che nessuno, a parte me, se ne accorgeva.
PRIMA PARTE
2
Accennavo ai segni che avrebbero dovuto allarmare l’opinione pubblica e suggerire l’idea dell’epidemia. Furono numerosi. A modo loro, non è esagerato dire che furono persino spettacolari. Li elencherò e ne renderò conto. Ma paradossalmente la caratteristica peculiare dei segni è di passare inosservati. Sono stati disseminati in giro per il mondo. Una divinità maligna li ha letteralmente sparpagliati tra le apparenze, tanto che si direbbe li abbia voluti dissimulare. Una specie di lungo rebus srotolato alla luce del sole. Ma nulla permette di reperire gli elementi che lo compongono e nessuno sa con certezza in che direzione vadano letti. Una volta che se ne possiede la chiave, formano la frase. E a quel punto ci si stupisce di averci messo così tanto a trovarla. La cosa più semplice sarebbe di sicuro raccontare gli avvenimenti uno dopo l’altro nell’ordine in cui sono avvenuti. Eppure non è mai così che se ne viene a conoscenza. Mentalmente li si è registrati ma senza aver ancora realizzato che facevano tutti parte della stessa serie di fatti. Lo si capisce solo quando la storia dentro alla quale vanno a sistemarsi è già ben avviata ed è ormai troppo tardi per ricostruire in che modo è cominciata. Ecco perché non seguirò nessuna ipotetica cronologia perché so bene a che punto sarebbe ingannevole. Partirò invece da quello che ho avuto sotto gli occhi. Vivevo da poco in un quartiere periferico di una delle più grandi e vecchie città europee. Ero nato, ero cresciuto, avevo a lungo abitato in quella città. Preferisco non precisarne il nome perché è diventata molto simile a qualunque altra. Così ognuno potrà immaginarla come vuole. Ciò che ne dirò potrebbe valere per una qualsiasi. Avevo viaggiato molto, e risieduto un po’ dappertutto sul pianeta. Con l’età, e adesso che la mia esistenza aveva ritrovato un andamento più stabile, sono voluto tornare. “A casa”, dicevo. Ho comprato un piccolo alloggio in uno dei quartieri più miseri della metropoli. I miei mezzi, benché non trascurabili rispetto alla povertà che ormai dilagava ovunque, non mi consentivano più di andare a stare dalle parti dei luoghi della mia infanzia che la speculazione, assurdamente sfrenata da decenni, aveva reso in mia assenza inabbordabili. Credevo di ritrovare casa mia, la mia città, il mio paese e invece fu come un nuovo esilio. Erano in pochi, all’epoca, a voler abitare in un posto simile a quello che avevo scelto io e che, a buon diritto, i più consideravano sinistro e senza attrattive.
Il quartiere in cui ero andato a stare aveva una lunga storia che ho scoperto un po’ alla volta. Benché raramente si facesse riferimento alla cosa, continuava a essere sotto la minaccia delle grandi piene che lo avevano devastato in passato. Il fiume, uscendo dal suo letto, sommergendo i quais, aveva allagato tutto, inghiottendo gli argini, inondando le gallerie della metropolitana, riempiendo le cantine, crescendo fino al livello dei piani più alti delle case i cui tetti in zinco, che erano ormai l’unica cosa rimasta a galla, sembravano zattere di fortuna fluttuanti sulla superficie di un mare lugubre. Molte fotografie d’epoca hanno immortalato quel diluvio. Prima di ritirarsi – e ci aveva messo parecchie settimane –, il fiume aveva sommerso tutto e c’erano molte probabilità, secondo gli esperti, che il fenomeno prima o poi tornasse a riprodursi.
A lungo una prospettiva del genere era bastata a scoraggiare gli investitori più prudenti. La zona era rimasta in stato di abbandono. Gli unici edifici a venir costruiti erano stati degli hangar più o meno provvisori che erano poi rimasti bene o male in piedi e avevano finito per venire inglobati dalla grande stazione vicina come depositi di merci e macchinari. Naturalmente il prezzo del terreno era così basso che c’erano stati speculatori più audaci e meno scrupolosi che avevano comunque costruito nella zona a rischio d’inondazione, con tanto di consenso da parte dell’amministrazione comunale. Sporadicamente erano spuntate dal terreno delle case. Com’è ovvio, era andata a stare lì tutta una popolazione di poveri che vi si erano poco alla volta stipati. All’inizio si trattava di case di pochi piani destinate agli operai, fino a che le fabbriche dove lavoravano non vennero chiuse una dopo l’altra. Gli alloggi rimasti liberi vennero allora dati in affitto o acquistati da persone della piccola o media borghesia. Successivamente vennero costruite grandi torri il cui modernismo aggressivo scoraggiò a tal punto i potenziali acquirenti per i quali erano state pensate che se ne dovettero svendere gli appartamenti. Approfittando dell’occasione insperata, famiglie di immigrati per lo più provenienti dall’Asia assalirono la zona appropriandosene in pianta stabile. Ma sia le vecchie case che i palazzi più recenti parevano spersi in mezzo a un grande deserto vetusto fatto per lo più di terreni incolti, edifici scrostrati resi inabitabili dall’umidità e di cui spesso restavano in piedi solo facciate ingannevoli con finestre vuote che davano su strade senza vita.
Molto presto ho avuto la sensazione di abitare in una specie di città fantasma. A poco a poco ho capito perché. Certo, se ci si pensa, è sempre in una casa di morti che si abita. Si va a stare nelle abitazioni che loro hanno lasciato e dove, senza scrupoli, dopo averle comprate dagli eredi, si prende provvisoriamente il loro posto. Nel quartiere di cui parlo, l’impressione era ulteriormente rafforzata dalla vicinanza di uno di quei grandi cimiteri grigi che abbondano in periferia. Si estendeva a per dita d’occhio a poche centinaia di metri, appena al di là della tangenziale. Come se lo si fosse voluto abbastanza vicino perché alla folla dei defunti bastasse attraversare la strada per andare a sistemarsi tra le croci e le steli, le pietre tombali, il marmo, la ghiaia e i fiori di plastica. Forse erano i loro profili di spettri che si vedevano passare in processione la notte, illuminati dai fari delle automobili che vorticavano intorno alla città. Il che spiegava il corteo di ombre che certe sere la circonvallazione metteva in scena.
Durante l’ultima guerra, per via della stazione vicina e della bassa densità di abitanti, il quartiere, come molti altri in tutta l’Europa occupata, era servito come luogo di detenzione e zona di transito per le popolazioni destinate a essere deportate in campi da cui, come si sa, furono in pochi a tornare. Le autorità del tempo, per maggior comodità, avevano anche usato i grandi hangar a disposizione per raccogliere, ammassare, smistare, imballare, tutti i beni di valore metodicamente razziati nelle case e nei musei del paese. Tutto questo, sono venuto a saperlo un po’ per caso. Ci misi tempo a rendermi conto che le palizzate davanti alle quali passavo uscendo di casa e che formavano come uno schermo al di là del quale non era rimasto in piedi nulla delimitavano l’esatto perimetro di quello che, il secolo scorso, era stato una vera e propria geenna. I binari della ferrovia correvano non lontano dalle mie finestre. La notte, mi succedeva di venir svegliato dal rumore sordo, dal rimbombo che facevano sulle rotaie, sotto le gallerie, locomotive in partenza per non so dove e di cui in sogno mi figuravo che continuassero a instradare perpetui convogli verso un orrore rimasto intatto.
Si è spesso vicini di casa dell’inferno senza saperlo. Anche quando salta agli occhi il contrario, si cerca di convincersi che non esiste. Io abitavo nel luogo più basso della città. E non c’era da stupirsi che per via delle leggi della gravitazione universale, come in una specie di imbuto simile a quello descritto da un antico poeta, quel luogo raccogliesse tutta l’angoscia fisica e morale del mondo che veniva a riversarsi lì. E lì erano scappati, lasciando la loro patria, gli uomini, le donne, i bambini che costituivano la parte più popolosa degli abitanti del quartiere: giunti da paesi esotici e lontani dai quali li avevano scacciati la carestia, la miseria, la repressione e in certi casi, a dire la verità, il massacro capillare di cui a buon diritto potevano essere considerati i superstiti miracolosi. L’avventura sinistra alla quale erano sopravvissuti non era impressa sui loro volti. Ma non era difficile da immaginare. Il fatto che fosse abitato da gente di colore non era certo estraneo alla pessima reputazione di cui soffriva il quartiere. Nella mia via c’era un grande edificio destinato ai lavoratori immigrati. La domenica o in estate, quando i suoi residenti si trovavano improvvisamente liberi dai lavori ingrati e mal pagati che facevano di solito, dalle finestre aperte del fabbricato, dove si scorgevano volti neri a decine, arrivava un grande e piacevole rumore di chiacchiere. Risuonava e riempiva la via. Uomini in costume tradizionale del loro paese si radunavano intorno a un braciere su cui uno di loro faceva cuocere delle spighe di mais, come se fossero nella piazza di un villaggio africano.
Il palazzo adiacente apparteneva all’Esercito della Salvezza. O a qualche altra organizzazione del genere destinata a fare la carità in una società che aveva rinunciato da tempo a garantire la giustizia. Si vedevano a volte entrare o uscire di lì individui che una volta sarebbero stati considerati dei vagabondi, barboni, poveri straccioni, e che spesso mostravano impressi – sul volto, nel corpo, nel modo di camminare – i segni ben leggibili del loro degrado. L’edificio in questione era opera di un famoso architetto che – chissà, per una qualche forma di umorismo nero? – aveva voluto dargli l’aspetto ridente di una sontuosa residenza da villeggiatura mediterranea con facciate sfolgoranti, terrazzi disposti a scacchiera e ornati di giardinetti. Il trascorrere del tempo su una costruzione che non era stata ideata per reggerlo, la mancanza dei mezzi che sarebbero stati indispensabili per la manutenzione, davano alla cosa un tocco derisorio. Siccome passava per essere un’importante opera d’arte e figurava in quanto tale nel circuito di quasi tutti i tour operator, gruppi di turisti stranieri condotti da una guida che parlava la loro lingua venivano regolarmente a fotografare l’edificio senza preoccuparsi in alcun modo di sapere a che cosa servisse in realtà. Non si avventuravano molto oltre perché la grande arteria che correva intorno alla metropoli e passava a pochi passi di lì, aveva una pessima reputazione di cui erano stati legittimamente avvertiti: al calar della notte vi si aggirava tutta la prevedibile fauna di delinquenti, venditori di droga, prostitute e protettori.
La zona! Così si diceva un secolo fa per indicare quella parte della città in cui, al posto delle vecchie fortificazioni destinate a difenderla, si erano moltiplicate le abitazioni di fortuna e dove si rifugiava, ai margini del mondo apparentemente civilizzato, tutto un popolino di derelitti e reietti. Le cose insomma non erano molto cambiate. Quando sono andato a starci la fisionomia del quartiere era ancora più o meno quella. O meglio: cominciava solo allora a cambiare. La speculazione immobiliare aveva assunto proporzioni tali nel paese che era apparso irragionevole non approfittare anche dei pochi settori della città che fino a quel momento erano stati risparmiati. C’era tutta un’ampia riserva di spazio vergine che aspettava solo di essere sfruttata. Per di più, i progressi della tecnica rendevano gli architetti fiduciosi. O magari presuntuosi. Erano sicuri di poter tutelare le loro costruzioni dai possibili effetti di una probabile piena. Forse per prudenza però, recuperando tutto il tracciato dei binari ferroviari che correvano verso est, decisero di sopraelevare l’area in cui costruirono i loro edifici. Di conseguenza, il quartiere prese uno strano aspetto come se si trovasse su due piani sovrapposti collegati da una rete complicata di ponti, rampe, piani inclinati, scale mobili, tra i quali facevano la navetta degli ascensori, almeno fino a quando non si ruppero. Il vecchio quartiere si ritrovò sotto al nuovo che gli era stato sovrapposto. Il contrasto tra i due risultava ancora più sorprendente per il fatto che coesistevano senza comunicare, e i rispettivi abitanti davano l’impressione a volte di formare due popolazioni distinte che si ignoravano a vicenda. Sotto: nonostante i lavori di ripristino che vennero subito avviati, la città vecchia che aveva più o meno conservato la sua aria di un tempo. Sopra: la città nuova di cui viceversa colpiva l’apparenza iperbolicamente futurista.
Quando sono arrivato io il quartiere, diventato preda dei costruttori, aveva preso le dimensioni di un immenso cantiere. Ovunque alte staccionate cingevano terreni incolti che attendevano l’inizio dei lavori. Per maggior sicurezza e per evitare atti di vandalismo, a entrambi i lati delle strade erano state tese grandi reti. Qua e là spuntavano come delle torrette di osservazione. Dei guardiani passeggiavano con i loro cani per scoraggiare i malintenzionati. Il furto sistematico dei materiali da costruzione si era trasformato via via in una vera e propria razzia organizzata. Sin dall’alba, schiere di operai si mettevano al lavoro. Grosse macchine sfondavano le carreggiate lasciando le tracce gigantesche del loro passaggio. Erano trincee che aprivano nel terreno grandi buchi di cui da lontano non si vedeva niente ma che ci si immaginava simili a enormi fosse, pozzi verticali. In aria fluttuava una perenne nube di polvere. Palesemente il programma doveva venir realizzato senza indugi. Neppure di notte il rumore delle macchine taceva del tutto. Faceva un ronzio continuo. Era stata lasciata carta bianca agli architetti, pare, perché dessero libero sfogo alla loro immaginazione un po’ delirante. Sembravano bambini che ammucchiassero alla rinfusa dei cubi colorati, cercando di assemblarli in modo da vedere fino a che altezza potevano far arrivare le pile e quali forme assurde e traballanti potevano dar loro sfidando le leggi della loro arte – per non parlare di quelle dell’equilibrio. S’innalzarono così verso il cielo torri che presto dominarono tutto il paesaggio e che formavano all’orizzonte un panorama piuttosto anarchico di palazzi nuovi fiammanti dai profili dinoccolati simili a giganti deformi e grotteschi tutti addossati gli uni sugli altri.
L’AUTORE
Philippe Forest, nato a Parigi nel 1962, è uno scrittore e saggista francese. Dopo la laurea in letteratura comparata all’Università Parigi IV-Sorbona nel 1985, insegna per sette anni in Gran Bretagna presso l’Università di St Andrews, Cambridge e Londra. Nel 1991 ottiene il dottorato in letteratura alla Sorbona e nel 2001 l’abilitazione a professore. Oggi lavora come professore di letteratura presso l’Università di Nantes. In quanto autore di numerosi articoli e saggi sull’arte e la letteratura contribuisce, tra l’altro, alla rivista Art Press. Inoltre, Philippe Forest è stato caporedattore de La Nouvelle Revue française. Ha pubblicato sei romanzi editi da Gallimard, di cui alcuni hanno ricevuto riconoscimenti sia in Francia, sia all’estero. La sua opera è tradotta in una decina di lingue. Mischiando l’autobiografia e il romanzo, il racconto e il saggio, nei suoi libri sviluppa una serie di riflessioni sul desiderio e il lutto.
- Piena
- Philippe Forest
- Traduttore: G. Bosco
- Editore: Fandango Libri
- Anno edizione: 2018
- Pagine: 252 p., Brossura
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Francesca Rita Rombolà
18 Marzo 2019 a 16:22
Meno male che la vera letteratura esiste ancora e serve ancora ad essere metafora dei tempi, della realtà, delle aspettative umane, e veicolante un messaggio per chi riesce ancora a coglierlo.