È tornata la primavera
PRIMAVERA DI BELLEZZA
È tornata la primavera. Quando vivevamo secondo i ritmi della natura, si diceva “a San Benedetto la rondine è sul tetto “. Adesso abbiamo il cambio climatico e i santi sono passati di moda, specie Benedetto, fondatore del monachesimo, artefice della rinascita dell’Europa dopo il crollo dell’Impero Romano d’occidente. Fatto sta che sento il tepore della bella stagione in arrivo. Il sole comincia a scaldare, l’aria è tersa. Da casa scorgo i forti che difendevano Genova quando la repubblica era una ricca potenza marinara, non la decadente vecchia signora dal trucco volgare di oggi. Da Castelletto lo sguardo spazia nel cielo sereno alle nevi delle maestose Alpi Marittime e laggiù al mare in bonaccia, verso la riviera e le sue palme. Se giro lo sguardo, vedo il monte di Portofino. Sorrido e penso ai miei genitori, al loro detto orgoglioso: dalla Lanterna a Portofino, tutte le perle in un giardino.
Primavera di bellezza dovunque, nel Bel Paese che Dio ci ha offerto. E pazienza se l’espressione è un verso dell’inno fascista Giovinezza. Proviamo debolmente a giustificarci ricordando che Primavera di bellezza è anche il titolo di un romanzo autobiografico dello scrittore Beppe Fenoglio, l’autore del Partigiano Johnny e de La Malora. Chissà che splendore di colori tenui, che panorama di colline lontane e castelli di mattoni rossastri, a inizio primavera, nella terra dura dal paesaggio dolce delle Langhe sue e di Cesare Pavese. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. È il brano iconico de La Luna e i falò, l’opera estrema del tormentato scrittore di Santo Stefano Belbo, il romanzo della ricerca delle radici, di quanto conti, nonostante tutto, nonostante ogni asprezza e dramma, la terra che abbiamo calpestato fin da bambini. Amo la mia terra perché è mia. Pavese lo sperimentò proprio a Genova. Così fa dire ad Anguilla, l’Io narrante, al momento della partenza: c’era il porto, questo sì, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano?
Invece a me piacciono il porto, l’odore acre che aleggia tra i moli, i mercati colorati della frutta e della verdura, i volti delle ragazze. All’inizio della primavera sono bellissime con i corpi non più nascosti dagli abiti pesanti. Dove eravate, in tutto questo tempo, mi capita di pensare, e ogni anno è sempre la prima volta. La bellezza della natura e quella costruita dagli uomini del passato sono esaltate dalla stagione. Ognuno la può sperimentare, assaggiare, perfino annusare in ogni angolo di questa terra italiana che cerchiamo in ogni modo di guastare. Terra guasta, o desolata, come nel poema di Thomas S. Eliot? No, il grande poeta religioso aveva torto: l’aprile di cui avvertiamo i primi sentori non è “il più crudele dei mesi”, non “genera lillà da terra morta confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera.” No, nel verde della macchia mediterranea e nell’azzurro pervinca del mare- e soprattutto nel nostro cuore che si riapre- non è vero che “l’inverno ci mantenne al caldo, ottuse con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una vita misera.”
Aprire il cuore, ecco l’espressione, l’unica che riesco a trovare. Respirare a pieni polmoni, scommettere su un po’ di ottimismo, scrutare la speranza, riempie la vita. Forse durerà un attimo, ma vale oro per il vecchio pessimista. Altrimenti, “siamo gli uomini vuoti, Siamo gli uomini impagliati che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia. “Sempre Eliot, che stamane mi sembra un brontolone tossicchiante avvolto nell’abito nero del lutto.
I colori delle fioriture, l’aria tiepida fanno miracoli. Nel fondo, fugati i dubbi quotidiani, resto un credente: Dio non ci abbandona, se non lo scacciamo dal nostro orizzonte. La bellezza è cibo dello spirito: il creatore ce l’ha regalata. Per questo si dice gratis et amore dei. Bisogna saperla scorgere, scostando la gramigna. È nei colori, nel cielo, nelle strade, nei giochi dei bambini in un parco verde. Piccoli esseri umani già tanto definiti e diversi, maschietti e femminucce. Come possono farci credere l’incredibile, che i sessi non siano due, ma venti o trentatré, e non sia vero che “maschio e femmina li creò”. Basta, non voglio tormentarmi e spezzare l’incantesimo.
Cibo dello spirito, dicevo. Allora lo spirito esiste, perbacco. L’uomo non è solo ciò che mangia, come pensava Feuerbach e non è neppure una semplice massa biochimica di cellule. No, non dobbiamo lasciarci manipolare, infiltrare, occupare dall’artificiale, dalla macchina. L’intelligenza artificiale, l’algoritmo universale potrà mai avere – e non fingere- emozioni, potrà mai respirare gli odori della natura che rinasce, riconoscerli, inebriarsene? Una scatola “pensante” progetterà mai, avrà l’ardire di immaginare la cupola di San Pietro, il Taj Mahal, la Scuola di Atene di Raffaello o Las Meninas di Velàzquez? Conoscerà tutte le parole di tutte le lingue del mondo, ma saprà mai scrivere l’Odissea, o il prodigioso trattato di teologia mariana in un endecasillabo di Dante “vergine madre figlia del tuo figlio”? Avrà l’immaginazione dei fisici quantistici, enuncerà mai un teorema matematico, comporrà una fuga di Bach? Potrà mai emozionarsi davanti a un’opera d’arte, all’armonia di una vigna o di un viale, potrà mai sentire un tuffo al cuore dinanzi a qualcosa che piace?
Penso a piccole cose, la gioia infantile del bimbo che ritrova la madre, l’attimo fuggente di un bel corpo intravisto, l’emozione di un bacio, la melodia di un canto, perfino l’urlo liberatorio – infantile anch’esso- del tifoso alla rete della squadra del cuore. Cuore: si finisce sempre per citare quel muscolo, quella massa di cellule materiali, quando si descrive qualcosa che amiamo: l’amico del cuore, i luoghi del cuore, i problemi di cuore, intesi come sentimenti. Di chi si comporta male, diciamo che è senza cuore; di un gesto che non vogliamo compiere per ragioni morali affermiamo: non l’ho fatto perché non me lo diceva il cuore.
Pensieri sparsi, lampi, lacerti, riemersi dal cuore e dal cervello, cellule con scintilla divina, riemersi perché torna la primavera e il lillà detestato dal poeta acquista fascino, con il suo colore sfumato e il profumo che trasmette leggerezza. Lo stesso fascino del canto degli uccelli che avevamo dimenticato, che ci aveva infastidito, immersi come eravamo nella feroce concretezza del vivere. Di colpo, riaffiora alla mente una breve lirica che sempre mi ha emozionato senza una ragione. La scrisse Eugenio Montale, un concittadino. “Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti, che roti la tua cresta sopra l’aereo stollo del pollaio e come un finto gallo giri al vento. “Ah, sì, ora lo so: “nunzio primaverile, upupa, come per te il tempo s’arresta, non muore più il febbraio, come tutto di fuori si protende al muover del tuo capo, allegro folletto, e tu lo ignori. “Primavera di bellezza, ecco perché serbo nel cuore l’upupa dal nome notturno, inquietante, che i poeti hanno calunniato scambiandola per un simbolo di oscurità.
In più c’è la sorprendente notazione finale: l’allegro folletto “ignora”. È la stessa prodigiosa inconsapevolezza dei momenti più belli, degli attimi in cui tutto sembra fermarsi, lo scampolo- o l’anticipo- di eternità che proviamo in circostanze speciali. È l’inconsapevolezza felice della natura e dell’animale che ignora la morte, concentrato sul presente. Lo sapeva Jorge Luis Borges, certo che solo gli umani muoiano davvero, perché consapevoli della finitudine. Il prodigio di questo tempo iniziale di primavera sta nel suo essere sospeso, nell’infinito che finge o prefigura, nel fatto che l’animale sapiente torna all’innocenza e per questo diventa felice. È lo squarcio portentoso di un altro gigante della poesia, Rainer Maria Rilke nell’Ottava elegia: “e vi fosse coscienza come la nostra nell’animale sicuro che ci viene incontro in direzione diversa, ci forzerebbe al suo andare. Ma il suo essere per lui è infinito, senza forma e senza sguardo al suo stato, puro, come il suo sguardo all’aperto. E dove noi vediamo futuro l’animale vede tutto e sé in tutto, e per sempre sanato.”
Non tutto è sanato, per l’essere intelligentissimo dalla stazione eretta e con il pollice opponibile. Pure, quest’aria primaverile tormentosa e natia (U. Saba) ci invita a tornare alle origini, alla semplicità umile, allo stupore del bimbo. Ritrovare le radici è anche spegnere lo smartphone e sentirsi più leggeri, liberi dalla falsa connessione, e invece legati alla natura e a se stessi. È desiderare il ritorno alla comunicazione diretta perché questo è il tempo del silenzio assordante e del baccano che non dice, dell’uomo solitario, guardingo, avaro di tasca e di cuore. La primavera fa risorgere il desiderio di comunità: a che valgono le emozioni, i sentimenti, la bellezza, se non sono condivisi, se li viviamo da soli, nella bolla dell’ostilità reciproca che ci hanno imposto?
Togliamoci la maschera, è primavera e dobbiamo respirare, mostrare il volto e il sorriso. Per gli antropologi sorridere –mostrare i denti in maniera amichevole- fu il gesto originario degli uomini che esprimevano pace, offrivano amicizia ai loro simili. Fanno pena le anime sofferenti che continuano a girare con la mascherina epidemica. Paura, credulità, l’ostilità latente per l’Altro, la distanza che rassicura. Non mostrano il volto, non manifestano sentimenti, non sentono l’odore della vita, la rinascita della primavera. Oggi, almeno oggi, la vita è bella e lo vogliamo gridare al mondo corrucciato, al potere che ci vuole tristi, docili, soli e intimoriti. La primavera è gioia senza ragione, giovinezza al di là dell’anagrafe. Giovinezza che, come la primavera “si fugge tuttavia”, cantava Lorenzo, principe e mecenate, il Magnifico. Ma quanto è bello averla assaporata, quanto è bello avere avuto nel cuore felicità, eternità, bellezza, tutte insieme, e ricordarsene. Alfa e omega, l’Aleph di Borges o l’incanto di un attimo. Il vero, il buono, il giusto, il bello, tenuti stretti per un momento e scolpiti per sempre in un luogo invisibile e immenso chiamato anima. Tutto merito del sole primaverile che si sbriciola negli occhi e si tuffa nei fossati.
Roberto PECCHIOLI