”Se desiderate fare la fine di quel signore, con un mazzo di fiori in mano, che bussava alla porta di un appartamento deserto, abitato solo da un pappagallo…
Se desiderate fare la fine di quel signore, con un mazzo di fiori in mano, che bussava alla porta di un appartamento deserto, abitato solo da un pappagallo, potete provare con un partito politico, quello che si avvicina di più, o sembra un po’ meno lontano, dal tuo modo di essere al mondo. Da dentro il pappagallo ti chiederà mille volte ‘Chi è?’ e tu risponderai mille volte ‘Franco’, ‘Renato’, Filippo’, o come cavolo ti chiami, fin quando non crollerai stremato per terra, davanti alla porta che è rimasta inesorabilmente chiusa.
Mi è capitato più di una volta di chiedere a qualcuno che sembrava di saperla lunga, per quale misteriosa ragione quel partito avesse inserito lo scemo del villaggio nella lista dei candidati, e la risposta è stata sempre la stessa: porta voti.
Ora, a parte che non si capisce come uno possa portare dei voti senza essere Achille Lauro (l’armatore n.d.r.) e senza avere scarpe da regalare, e posto, inoltre, che nei seggi si consuma regolarmente il tradimento dei parenti più stretti, il criterio con cui si compilano le liste elettorali può solo formare oggetto delle più acrobatiche congetture.
Escluderei, tenuto conto di quanti si fanno scrivere il discorso dai commessi della Camera e del Senato, che la voce ‘cultura’ sia associata al punteggio più alto, e che l’essere almeno mediamente intelligenti costituisca titolo di preferenza per chi voglia farsi chiamare ‘onorevole’, stando alle tassonomie del Lombroso(1).
Sopravvivono due possibilità, che vanno ciascuna per conto proprio più spesso di quando si manifestano insieme. Una è quella che il partito riconosca come valore supremo la devozione, premiando coloro che dicono sempre di sì, a prescindere, non importa se hanno l’attaccatura dei capelli troppo bassa, come l’uomo di Neanderthal o come Roberto Speranza.
L’altra è quella che si punti tutto su delle facce o su dei nomi, che debbono essere famigliari al grosso pubblico, atteso che la vecchia Sinistra propende più per le facce,
soprattutto, se hanno imperversato sul piccolo schermo, come nel caso dei Sassoli, dei Marrazzo, delle Gruber, mentre la vecchia Destra si affida ai nomi, se sono capaci di suscitare delle emozioni, come quello di Mussolini, disinteressandosi del fatto che la qualità della discendenza non obbedisce a delle regole matematiche e che, nonostante tutte le monte – diverse centinaia – i figli di Tornese e di Varenne, due formidabili trottatori, si sono rivelati delle emerite pippe.
L’idea che i partiti, indipendentemente dalla loro magnitudo – che, talora, è lillipuziana – siano, com’erano tanto tempo fa, una specie di corpo intermedio conficcato tra la massa dei cittadini e le istituzioni deputate ad organizzarla secondo il loro credo politico, è completamente falsa.
I partiti si comportano alla stregua di un’azienda privata la cui unica ragione d’essere è quella di conseguire un profitto. Assumono, sotto forma di suffragi, il credito erogato a loro favore da un certo numero di elettori e lo spendono, in uscita, per crearne uno nei confronti delle lobbies che contano, sotto forma di idoneità a tradurre i loro interessi in misure legislative.
Il partito come espressione di un sentimento politico condiviso è finito sotto le macerie della Prima Repubblica a seguito dell’introduzione delle liste bulgare che hanno di fatto declassato la prassi delle consultazioni elettorali a pura e semplice liturgia, coi suoi chierichetti e i suoi baldacchini, ma tutto ciò corrisponde ad una precisa determinazione dei poteri forti: preservare gli aspetti esteriori della democrazia perché sembri viva, come al museo delle cere, come una mano di cipria sulle guance del caro estinto.
A me francamente fa una certa impressione il fatto che non sia stato colto – non abbastanza – il nesso esistente tra la metamorfosi dei partiti e la fine della democrazia, e che non si riesca a capire come tutto tenga, per dirla alla francese, all’interno di una logica circolare che non concede nulla all’improvvisazione e al caso.
Prima del 1992, il sistema ‘infetto’ dei partiti aveva un rapporto osmotico col territorio, con la ‘gggente’. La richiesta di un aiutino per ottenere un banco al mercato era consuetudine nelle sezioni, dove, tra due partite di briscola, si parlava di politica e si faceva apprendistato in vista di una promozione sul campo. La possibilità di esercitare un controllo sulla base, che controllava i vertici, è stata abrogata, perché non c’è più la base, ma sono rimasti soltanto i vertici, un oltraggio alla geometria euclidea, le cose e le persone che volano in plaghe lontane dalla realtà imitando gli angeli di Chagall e gli asteroidi di Magritte.
Non c’è – vale precisarlo -, una crisi dei partiti. Gli si sono atrofizzate le braccia e le gambe. Sono diventati delle entità focomeliche. Succede sempre così quando un arto o un organo si dissocia dalla sua funzione originaria. Hanno tradito le consegne, ma stanno bene, al riparo del televisore, dove si sono asserragliati, tutti, anche quelli dell’Opposizione
farlocca, per evitare il contatto con la marmaglia e per certificare la decadenza della più nota delle massime cartesiane, quel ‘cogito ergo sum’, al posto del quale hanno eretto un ciclopico ‘appareo, ergo sum’, giacché quelli che sono condannati a rimanere da questa parte dello schermo non valgono nulla, carne Simmenthal andata a male, roba marrone.
Dicono che le ideologie si sono estinte, ma non è vero. Fa comodo dirlo perché le dittature che si nascondono sotto le spoglie di una falsa democrazia non hanno bisogno di giustificarsi attraverso una ‘summa’, ma avvertono, imperiosa, la necessità di emettere delle deleghe per dei soggetti nei quali l’inclinazione al servilismo eguagli la loro spiccata attitudine a realizzarsi nell’immediato, gli specialisti del ‘pensiero corto’, quelli che si sputano addosso.
In Italia la divaricazione tra elettori ed eletti, divenuta incolmabile, è sintomatica dello stato – terminale – a cui è giunta l’agonia del sistema parlamentare amministrato dai partiti. Il caso del M5S, che prende i voti dai contestatori della casta per poi servirsene allo scopo di farne parte, dovrebbe essere contemplato in futuro, nei manuali di Storia, tra quelli che hanno decretato la fine di questo regime, ma la cosa sembra essere passata quasi di sfuggita tra le maglie troppo larghe del gossip politico all’italiana, la tragedia che si affloscia tra due cuscini nel salottino di Barbara D’Urso. Certo: prisencolinensinainciusol. Io di qua e tu di là. L’incomunicabilità. ‘Abbiamo fatto di tutto per non capirci’, da un dialogo estratto da ‘Via col vento’. Ma è il tono con cui si commentano questi fatti che aggiunge tragedia a tragedia: come se non fosse successo niente.
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Note:
(1) Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare (Verona, 6 novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909), è stato un medico, antropologo, accademico filosofo e giurista italiano, da taluni studiosi definito come padre della moderna criminologia. Esponente del positivismo, è stato uno dei pionieri degli studi sulla criminalità, e fondatore dell’antropologia criminale. Il suo lavoro è stato fortemente influenzato dalla fisiognomica, dal darwinismo sociale e dalla frenologia. Le sue teorie si basavano sul concetto del criminale per nascita, secondo cui l’origine del comportamento criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale, persona fisicamente differente dall’uomo normale in quanto dotata di anomalie e atavismi, che ne determinavano il comportamento socialmente deviante. Di conseguenza, secondo lui l’inclinazione al crimine era una patologia ereditaria e l’unico approccio utile nei confronti del criminale era quello clinico-terapeutico. Solo nell’ultima parte della sua vita Lombroso prese in considerazione anche i fattori ambientali, educativi e sociali come concorrenti a quelli fisici nella determinazione del comportamento criminale. Lombroso fu radiato, nel 1882, dalla Società italiana di Antropologia ed Etnologia.
Nota Del Relatore
LA GENESI DI “PRISENCOLINENSINAINCIUSOL”
«Il batterista era un tedesco, molto bravo. Gli feci allentare la pelle del tamburello in modo che il colpo sul rullante risultasse di tono più basso e più sconquassante, quasi come se il colpo si rompesse. La stessa cosa feci con la chitarra e con il resto degli strumenti. Finalmente quando tutto funzionava alla perfezione e il colpo del tedesco era perfetto come una vera e propria macchina da combattimento, (perché questa era l’impressione che mi suggeriva il brano) sovrapposi la voce. Come al solito i miei dischi non finiscono mai con un finale preciso, e anche in quel caso lasciai alla batteria il compito di chiudere il pezzo. Fu a quel punto che dissi al bravissimo e simpatico tecnico, Gualtiero Berlinghini, di farmi un anello di quel finale che durasse circa quattro minuti e di mettermelo da parte perché intendevo con quel finale fare un nuovo pezzo. Tutto era pronto. Dissi a Gualtiero di mandarmi in cuffia quell’ anello che si ripeteva per quattro minuti. Cominciai quindi a improvvisare con la voce il suono di un qualcosa che evidentemente avevo dentro fin dalla nascita. Un ritmo che in qualche modo sentivo che dovevo tirar fuori. Fu così che nacque “Prisencolinensinainciusol”.»
(A.C.). Adriano Celentano “SuperBest” “Facebook” 30 giugno 2017