Storia di una parola che ha attraversato la filosofia e la fede, trasformando il modo in cui pensiamo l’essere umano.

QUANDO I NOMI CAMBIANO MONDO: L’ANIMA DA ARISTOTELE A PAOLO

Redazione Inchiostronero

Cosa succede quando una parola resta la stessa, ma il suo significato cambia radicalmente? Questo saggio esplora il destino della parola anima, seguendone il viaggio dalla Grecia di Aristotele al cristianesimo delle lettere paoline. Per il filosofo greco, psyché è principio vitale, forma del corpo; per Paolo, psyché diventa un campo di tensione tra carne e spirito, connotata moralmente e teologicamente. Ma il cambiamento non è solo semantico: è un ribaltamento dell’intera antropologia, che riscrive il rapporto tra corpo, mente, salvezza e tempo. Attraverso Jung, la Bibbia e la riflessione filosofica, questo testo indaga il potere dei nomi nel modellare l’immaginario umano, mostrando come le parole più antiche siano spesso quelle che ancora plasmano il nostro destino.


L’IMPORTANZA DEI NOMI

“All’inizio era il Verbo.”

Così si apre il Vangelo di Giovanni, e già in questo incipit vibra una delle più grandi intuizioni dell’umanità: le parole non sono semplici strumenti di comunicazione, ma atti creativi, fondamenti ontologici. I nomi non indicano soltanto, generano realtà.

Ogni civiltà ha avuto i suoi nomi sacri, le sue parole chiave. Eros e Thanatos, luce e tenebre, anima e corpo: formule che racchiudono interi sistemi di pensiero, visioni dell’uomo e del destino. Ma questi nomi non sono immobili. Viaggiano, si trasformano, cambiano di significato al mutare dei paradigmi culturali.

Prendiamo la parola “anima”: per Aristotele (psyché ) è il principio vitale, la forma del corpo vivente. Una definizione immanente, legata alla natura e alla logica del mondo fisico. Ma quando Paolo di Tarso impiega lo stesso termine, qualcosa di profondo è già cambiato. L’”anima” diventa parte della tensione tra carne e spirito, assume una funzione morale ed escatologica, viene immersa in un orizzonte ebraico-cristiano che parla di salvezza, redenzione, giudizio. L’Anima platonica nel Cristianesimo: da principio razionale a promessa di salvezza. L’idea di anima ha subito una profonda trasformazione con il passaggio dalla filosofia greca al pensiero cristiano. Mentre per Platone l’anima era l’essenza razionale dell’uomo, separata dal corpo e capace di accedere alla conoscenza delle Idee, nel Cristianesimo essa divenne il fulcro della salvezza e della resurrezione. Questo passaggio avvenne in gran parte grazie a Paolo di Tarso, che operò una fusione tra la tradizione filosofica greca e la teologia ebraica, dando vita a una nuova concezione dell’essere umano.

Questo saggio vuole interrogare proprio questo: cosa succede quando un nome cambia di senso? Cosa portano con sé le parole quando attraversano epoche, culture, sistemi di pensiero? E perché certi nomi – “anima”, “spirito”, “cuore”, “verità” – resistono nel tempo, pur mutando forma?

Lo stesso nome, dunque, ma un altro universo.

Il nome come archetipo (da Jung alla Bibbia)

Illustrazione dal trattato De Sphaera, che raffigura l’archetipo astrologico del Sole con le attività da esso governate per analogia.

“I nomi sono archetipi della realtà: non la descrivono soltanto, la fondano.”

Così potremmo sintetizzare una delle intuizioni più profonde del pensiero simbolico, da Jung fino alle Scritture. In ogni cultura, i nomi delle cose – e ancor più quelli dell’anima, del divino, del bene e del male – non sono semplici etichette convenzionali: sono espressioni di una verità profonda, ancestrale, universale.

Jung parlava di archetipi come strutture innate dell’inconscio collettivo, immagini originarie che emergono spontaneamente nelle culture più diverse. Ma queste immagini diventano potenti solo quando trovano un nome. Dare un nome a un archetipo significa riconoscerlo, renderlo dicibile, agibile, condivisibile.

Anche nella tradizione biblica, il nome ha una potenza ontologica: nella Genesi, Dio crea separando e nominando – “sia la luce”, “sia il firmamento”, “il giorno”, “la notte”. Il nome diventa qui atto di creazione, espressione della volontà divina che ordina il caos. Non a caso, uno dei gesti fondamentali di Adamo è dare il nome agli animali, partecipando così alla costruzione del mondo simbolico.

Quando la Bibbia parla di “luce” e “tenebre”, “vita” e “morte”, “spirito” e “carne”, sta costruendo un’intera visione del cosmo a partire da coppie di nomi. E anche laddove manchino le parole greche come Eros e Thanatos, la dinamica che esse rappresentano – impulso vitale e forza distruttiva – è già presente, incarnata in immagini, gesti e narrazioni.

I nomi, dunque, non seguono il mondo: lo anticipano, lo orientano. Ogni mutamento nei nomi fondamentali è un mutamento di civiltà. E forse nessun nome, più di “anima”, ha attraversato trasformazioni tanto profonde nel passaggio tra la filosofia greca e il pensiero cristiano.

Emil Schildt – Eros e Thanatos

L’anima di Aristotele

Per comprendere la trasformazione della parola “anima”, bisogna partire da Aristotele, che ne offre una delle definizioni più precise e influenti della filosofia antica. Nel trattato De Anima, Aristotele definisce la psyché non come una sostanza separata, ma come la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. L’anima è ciò che rende un corpo vivente capace di agire, sentire, nutrirsi, pensare. Non è un’entità “dentro” al corpo, ma ciò che il corpo è quando è vivo.

Aristotele distingue tre tipi di anima: vegetativa (nutrizione e crescita, comune alle piante), sensitiva (percezione e desiderio, propria degli animali) e razionale (pensiero e riflessione, esclusiva dell’uomo). Questa gerarchia non implica una divisione dualistica: ogni livello superiore include i precedenti. L’anima razionale non è un’aggiunta esterna al corpo, ma la sua più alta attualizzazione.

In questo senso, l’anima aristotelica è intrinsecamente biologica, immanente, funzionale: non è un principio di separazione dal mondo, ma di appartenenza ad esso. È ciò che ci radica nella natura, nel ciclo della vita, nelle leggi della realtà. Non c’è opposizione tra anima e corpo, bensì un’unità sostanziale: l’anima è l’essenza dinamica del vivente.

Nulla, in questa concezione, lascia spazio a una visione morale o escatologica dell’anima. Aristotele non parla di salvezza, di peccato, né di vita dopo la morte. Se c’è qualcosa di immortale, è il nous, l’intelletto separato – ma è un’eccezione enigmatica, quasi una concessione al pensiero platonico, e comunque distante dall’idea cristiana di sopravvivenza personale.

Così, nel pensiero aristotelico, il nome “anima” è il nome della vita stessa: un principio ordinatore, ma non redentore; naturale, non metafisico. Una definizione che verrà profondamente scossa dall’incontro con il pensiero biblico e l’annuncio cristiano.

L’“anima di Paolo di Tarso

Quando Paolo di Tarso scrive le sue lettere ai primi cristiani del mondo greco-romano, si esprime in greco — la lingua della filosofia, ma anche della quotidianità. Così, per parlare della complessità dell’essere umano, Paolo impiega termini come sōma (corpo), sarx (carne), pneuma (spirito), psuché (anima). Ma ciò che colpisce è che, pur usando gli stessi nomi della tradizione ellenica, li immerge in un orizzonte radicalmente diverso.

La psyché, per Paolo, non è più il principio vitale che dà forma al corpo, come in Aristotele. Diventa invece una componente dell’essere umano in tensione: posta tra la “carne” (segno della fragilità, della tentazione, della caducità) e lo “spirito” (soffio divino, principio di salvezza). L’anima paolina è un territorio ambiguo, spesso scisso, che può essere attratto verso l’alto o verso il basso, verso Dio o verso il peccato.

Eppure, nel momento stesso in cui Paolo impiega il termine psuché, non può cancellare del tutto il suo passato greco. Le sue parole sono cariche di storia: anche mentre vengono riplasmate dalla visione escatologica cristiana, si portano dentro l’eco del pensiero greco. La psuché continua, in filigrana, a evocare vita, sensibilità, interiorità — anche se il suo destino si ridefinisce.

È come se ogni nome fosse un campo semantico stratificato: Paolo ne trasforma il centro, ma i margini restano permeati da ciò che è venuto prima. L’anima non è più forma del corpo, ma può ancora essere vista come luogo della scelta, del sentire, della responsabilità morale — elementi già presenti in nuce nella filosofia classica.

Questa tensione rende la parola “anima” nel cristianesimo paolino doppia e dinamica: è sia eredità che rottura, sia continuità che rivoluzione. La trasformazione non avviene per cancellazione, ma per riscrittura. L’anima diventa parte di una narrazione di salvezza, ma si trascina dietro l’intero corpus culturale che l’ha generata. E proprio in questa ambivalenza si gioca la potenza di un nome che cambia mondo.

Per comprendere davvero lo scarto che Paolo imprime alla parola “anima”, occorre vederlo in atto, in una scena reale, concreta, simbolica: il suo discorso all’Areopago. Questo episodio, narrato negli Atti degli Apostoli, segna l’incontro tra la filosofia greca e l’annuncio cristiano. E rivela, in forma drammatica, come un nome antico possa cambiare di senso, e con esso cambiare il mondo.

Paolo all’Areopago – L’uomo e l’eternità

Il mare agitato del Mediterraneo era un maestro più severo delle Scritture.

Nel viaggio che da Corinto lo portava verso Atene, Paolo capì ciò che non aveva ancora compreso appieno nemmeno dai Salmi: l’uomo è polvere, e può sparire in un istante. La tempesta si levò improvvisa, e il legno della nave gemette come un corpo malato. I marinai, pagani, gridavano ai loro dèi. Lui tacque, e pregò. Non per salvarsi, ma per capire.

Quando giunse ad Atene, non era più solo un predicatore. Era un uomo che aveva guardato negli occhi la morte.

Lo attendevano sull’Areopago, il colle dove si erano uditi i grandi nomi: Pericle, Socrate, Zenone. Ma stavolta parlava uno straniero, senza toga né discepoli, con l’accento della Cilicia e le rughe di chi ha viaggiato più del previsto.

Uomini di Atene,” esordì, “vedo che in ogni cosa siete religiosi. Passeggiando tra i vostri altari, ho trovato un’iscrizione: Al Dio Ignoto. È proprio Lui che io vi annuncio.”

I filosofi si guardarono tra loro. Qualcuno annuiva, attratto dalla novità. Altri sorridevano con commiserazione: un altro ciarlatano orientale.

“Dio non abita in templi fatti da mano d’uomo,” continuò Paolo, “e non ha bisogno di nulla. Ma ha fatto ogni cosa, perché l’uomo Lo cerchi. Egli non è lontano da ciascuno di noi. In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo — come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti.”

Fin lì, i filosofi resistevano. Citava Arato, forse anche Cleanthes. Parole che conoscevano. Ma poi venne la frattura.

“Egli ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia… risuscitando dai morti colui che ha designato.”

Allora ci fu un brusio. Alcuni si alzarono. Altri lo guardarono come si guarda un uomo uscito da un mito troppo antico. La resurrezione dei morti? Dei corpi? Quella carne che marcisce, che si dissolve?

Per gli stoici, l’anima poteva fondersi col fuoco cosmico. Per gli epicurei, nulla sopravviveva alla morte. Ma che la carne tornasse a vivere, era follia. Scandalum.

“Ti ascolteremo un’altra volta su questo,” dissero i più gentili.

Eppure, qualcuno lo seguì. Dionigi, un giudice dell’Areopago. Damaris, una donna colta. E pochi altri. Non molti — ma bastavano.

Paolo scese dal colle con passo calmo. Non aveva convinto l’Agorà, ma aveva piantato un seme nel cuore della filosofia greca: l’idea scandalosa che la morte non fosse l’ultima parola.
Non un mito, non un’idea. Ma un corpo. Il corpo dell’uomo. Il corpo del Cristo.

Il rifiuto dei filosofi, lo stupore dell’uditorio, la forza scandalosa dell’idea di resurrezione: tutto in questa scena ci mostra come la parola “anima” si sposti da principio vitale a soggetto escatologico. Non è più ciò che anima un corpo — ma ciò che sopravvive, che viene giudicato, che può essere redento. In quell’istante, la semantica si è fatta storia. Il nome ha cambiato mondo.

Mutazioni semantiche e svolte culturali

Ogni parola, per quanto antica, continua a vivere solo se riesce a mutare. E la parola “anima” è tra le più trasformate — e contese — nella storia del pensiero. Dopo Aristotele e Paolo, il Medioevo cristiano ha sistematizzato l’anima come sostanza individuale immortale, creata da Dio e destinata al giudizio eterno. Ma già questa formulazione, apparentemente lineare, è il frutto di secoli di assimilazioni, conflitti e sintesi tra la filosofia greca, la tradizione biblica e la dottrina ecclesiastica.

Con l’età moderna, l’anima viene lentamente spogliata della sua centralità. La scienza la sostituisce con concetti come mente, coscienza, psiche; la filosofia la problematizza, la dissolve o la riduce a funzione. Ma proprio in questo scenario di crisi, la parola anima non muore: si trasforma, assume nuove funzioni, talvolta simboliche, talvolta esistenziali.

È in questa cornice che si colloca il pensiero di Vito Mancuso, teologo “eretico” per alcuni, ma erede autentico di una tradizione spirituale che non vuole spegnersi nel dogma. Nel suo libro L’anima e il suo destino,(2) Mancuso mette in discussione molti pilastri della dottrina cattolica: dalla creazione dell’anima da parte di Dio al peccato originale, dalla resurrezione della carne fino alla condanna eterna. Eppure, non lo fa in nome del rifiuto, ma in nome di una ragione che cerca di incontrare la fede su un terreno comune di verità.

L’anima, per Mancuso, non è più una “cosa” immateriale donata da Dio, ma un processo, una conquista, una fioritura che dipende dalla libertà e dalla responsabilità della persona. Così, la parola anima perde il suo carattere di possesso e acquisisce quello di cammino: non ciò che si ha, ma ciò che si diventa.

In questa visione, la semantica dell’anima si apre: non più soltanto teologica o filosofica, ma anche etica e antropologica, capace di parlare all’uomo contemporaneo. Ed è forse in queste svolte – nei loro conflitti, nelle loro contaminazioni – che il nome “anima” continua a dire qualcosa di essenziale, pur cambiando ogni volta pelle.

La scienza dei significati: l’onnipotenza semantica del linguaggio

Dietro ogni trasformazione storica di un nome, come quella dell’anima, si cela un fenomeno più profondo: il fatto che il linguaggio umano è potenzialmente onnipotente. La nostra lingua non si limita a “riflettere” il mondo: lo crea, lo distingue, lo reinventa continuamente.

La semantica è il ramo della linguistica che studia il significato delle parole, delle frasi e dei testi. Ma non si limita a stabilire “cosa voglia dire una parola”: indaga come i significati nascono, come si trasformano, come interagiscono con il contesto e con la cultura.

Nel linguaggio umano, infatti, la forma e il contenuto non sono mai separati: ogni parola è un segno che rinvia a un universo di idee, immagini, emozioni, valori. E questo universo è dinamico, mai fisso. La stessa parola può avere significati diversi in epoche diverse, in contesti diversi, persino per persone diverse.

Da qui nasce il concetto che i linguisti chiamano “onnipotenza semantica” del linguaggio umano: la nostra lingua è capace di significare tutto. È in grado di rappresentare la realtà concreta e i mondi immaginari, l’interno e l’esterno, l’invisibile e il tangibile, Dio e la materia, la vita e il nulla. In teoria, non c’è nulla che non possa essere detto — o perlomeno tentato di dire — in una lingua umana.

E nel cuore di questa onnipotenza: i nomi

I nomi — soprattutto quelli fondamentali come anima, verità, giustizia, spirito — non sono semplici segnaposti. Sono nuclei semantici centrali, che raccolgono e riorganizzano l’intero sistema linguistico e culturale intorno a sé. Quando un nome cambia di significato, cambia il modo in cui comprendiamo il mondo.

  • per Aristotele significa forma del corpo vivente;
  • per Paolo, diventa il teatro dello scontro tra carne e spirito;
  • per Mancuso, un percorso di costruzione interiore.
    Stessa parola, significati profondamente diversi. E con il mutare del significato, muta anche la visione dell’essere umano.

La semantica come responsabilità culturale

Capire la semantica, allora, significa capire che il linguaggio non riflette soltanto la realtà: la plasma.
Ogni parola che usiamo è un atto di scelta. E ogni trasformazione semantica è anche un cambiamento etico, esistenziale, antropologico. Da qui la responsabilità — che hai ben messo a fuoco nel tuo saggio — di nominare il mondo con consapevolezza.

È in questa luce che la parola “anima” va riletta. Non è solo il nome di qualcosa, ma la scena di una lunga storia di senso: un termine che ha portato con sé visioni del corpo, della mente, del destino, dell’eterno. E che continua, ancora oggi, a interrogare chi siamo e cosa vogliamo diventare

Conclusione: la responsabilità di nominare il mondo

Se il linguaggio ha l’onnipotenza di significare tutto, allora ogni parola è un atto di creazione. I nomi, in particolare, non sono mai neutrali: sono concentrazioni di memoria, architetture invisibili che reggono la nostra comprensione del reale.
Quando una civiltà nomina qualcosa – anima, verità, giustizia, diosta dicendo come vuole abitare il mondo. Sta disegnando le sue coordinate morali, le sue attese metafisiche, la sua idea di umanità.

Questo valeva per Aristotele, per Paolo, per i teologi del Medioevo. Ma vale anche per noi. Viviamo in un’epoca che parla molto di corpo, di mente, di identità, ma raramente osa usare ancora la parola anima. Troppo compromessa? Troppo carica di passato? O forse ancora troppo potente per lasciarla risuonare senza tremare?

Forse oggi, più che mai, abbiamo bisogno di nomi che non si limitino a dire, ma che sappiano guidare. Nomi che siano capaci di reggere la complessità del nostro tempo senza fuggire nel dogma o nella vaghezza. “Anima” è uno di questi: una parola antica, ma non esaurita. Una parola da custodire e da reinventare.

Perché in fondo, come ci insegna la semantica, non c’è verità che non passi per una parola. E non c’è parola importante che non implichi, sempre, la responsabilità di dire il mondo con consapevolezza.

GENEALOGIA DELLA PAROLA ANIMA

Pensiero di chiusura

Non c’è parola antica che non possa essere riscritta. Ma ogni parola riscritta porta con sé il passato intero: usarla è un atto di memoria, e di scelta.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

Citazioni chiave

  1. Aristotele, De Anima (II, 1):
    “L’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza.”
  2. San Paolo, Lettera ai Romani (8,5-6):
    “Quelli infatti che vivono secondo la carne tendono alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo spirito, alle cose dello spirito.”
  3. Vito Mancuso, L’anima e il suo destino (2007):
    “L’anima non è un oggetto, ma un processo di realizzazione: l’uomo non possiede un’anima, ma è chiamato a costruirla.”
  4. C.G. Jung, Archetipi e inconscio collettivo:
    “I nomi archetipici sono forme che emergono ovunque nell’esperienza umana, indipendentemente dal tempo e dal luogo.”

Bibliografia essenziale

  • Aristotele, De Anima, a cura di G. Reale, Bompiani.
  • San Paolo, Lettere, varie edizioni (CEI, Garzanti, ecc.).
  • Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore, 2007.
  • Carl Gustav Jung, Archetipi e inconscio collettivo, Bollati Boringhieri.
  • Romano Guardini, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana.
  • James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi.

 

Approfondimenti del Blog

«SE PLATONE FOSSE STATO UN LAVORATORE: RIFLESSIONI SUL VALORE DELLA FILOSOFIA»

(1)

 

 

 

 

(2)

 

 

 

Descrizione

“Il libro incontrerà opposizioni e critiche, ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenerne conto”, scrive nella prefazione al volume il cardinale Martini. Gli argomenti sono i più classici, l’esistenza e l’immortalità dell’anima, il suo destino di salvezza o perdizione. Del tutto nuova è invece la trattazione, in cui scienza e filosofia assumono il ruolo di interlocutori privilegiati della teologia, configurando una fondazione del concetto di anima immortale di fronte alla coscienza laica. Criticando alcuni dogmi consolidati, il libro affronta l’interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte.

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