Buone notizie dal cinema

QUANDO IL CINEMA TI RIPORTA ALLA VITA


Buone notizie dal cinema. Non ci sono solo i prodotti stucchevoli del rococò woke, i film prigionieri nella trama e nelle immagini dei modelli prefabbricati che sai già come si svolgono prima di entrare in sala, a colpi di gender, femministe, migranti, neri, green, nazifascisti, eterne vittime, eterni colpevoli, il Bene e il Male, il progresso e la reazione. C’è anche altro nell’umanità, nella vita, nel mondo. E ci sono film di qualità che riescono a parlare alla tua mente e al tuo cuore, che arrivano perfino a commuoverti, e comunque ti chiamano dentro le loro trame, e raccontano la realtà senza partito preso.

Ho visto tre film diversissimi tra loro che in modo diverso ti lasciano qualcosa. Non sono film storici sul passato o di fantasia, ma sono sull’oggi. L’uno è di un collaudato regista italiano, figlio d’arte di un grande regista, rimasto nella storia del cinema; l’altro di un giovane, ambizioso regista, anche lui figlio d’arte, che con l’insolenza egocentrica dei ragazzi fa pure il protagonista del suo film; il terzo è di un grande regista tedesco, maestro del cinema europeo, anche se in questo caso in versione orientale. Il primo film è fatto di senilità, morte e rinascita, in un microcosmo separato dal mondo, in attesa collettiva di chiamata all’altro mondo; il secondo è fatto di grida, violenze e spaccio nel cuore marcio della Capitale; il terzo è fatto di luce, silenzi e fogliame pur in una pulsante metropoli di masse, traffico e cemento.

Il primo descrive il tenerissimo rapporto che sorge tra due ragazzi spacciatori e consumatori di droga che devono scontare la loro pena in una Rsa e i vecchi ospiti della medesima; il secondo si agita nel cupio dissolvi di chi vive al massimo, tra ricchezze sfrenate, vite sfasciate e desideri insaziati. Il terzo contempla il mondo, la vita, nei suoi minimi particolari, e vive dimesso e appartato nelle periferie di una metropoli d’oriente, in una decorosa povertà vissuta con gratitudine.

I bagni pubblici trasparenti di Tokyo che diventano opachi solo se occupati

Il primo mostra come l’umanità sia capace di miracoli, può cambiare pur partendo dal peggio o nell’estremo lembo della sua vita, se presta attenzione e ascolto alla vita degli altri e può trovare affetti e premure anche laddove sembra impossibile, e da chi non avresti mai detto. Il secondo descrive gli spasmi di una vita gaudente e insensata, in una Roma degradata, che ha smesso pure di divertirsi, una specie di Grande Bellezza versione juniores, tra citazioni famose di altri filoni e un po’ di narcisismo malato. Il terzo, invece, descrive la bellezza poetica della vita minima in Tokyo, che si accontenta e sorride al corso dei giorni, alla loro ripetizione, ai dettagli, al lavoro ritenuto più umiliante – pulire i cessi pubblici (che a Tokyo sono bellissimi e vari mentre a Roma, la città di Vespasiano, erano immondi e sono spariti).

Sono tre film diversissimi, tre registi imparagonabili tra loro, tre storie che ti lasciano in bocca sapori diversi, teneri, amari e sereni: il primo è pensato nel nome del padre, ti riporta ai cari perduti, alle tenerezze dell’estrema vecchiaia e alle esplosioni improvvise d’euforia sul finire della vita al tempo in cui si era bambini, ragazzi, spensierati e danzanti, giocosi e intemerati con la neve.

Il secondo invece ti lascia turbato, proiettato com’è nel miraggio di vivere niccianamente al di là del bene e del male: ma al di là del bene e del male non c’è nulla anzi c’è solo il Nulla, che è il nemico del bene e la placenta del male. Il terzo, infine, ti lascia il gusto, la bellezza di essere al mondo se fai con scrupolo e passione la tua piccola parte; amare il proprio destino, anche il più umile, vivere serenamente nei giorni che si ripetono uguali, dove perfino la monotonia è una benedizione rassicurante della vita che promette solo se stessa, il suo svolgersi quotidiano, perché “adesso è adesso”.

Sto parlando de Il punto di rugiada di Marco Risi, figlio di Dino, Enea di Pietro Castellitto (con un magnifico Sergio in scena nel ruolo reale di padre) e Perfect days di Wim Wenders. Come vedete, non hanno nulla che li accomuni, e gli amanti di uno di questi film resteranno sconcertati, se non indignati, per l’accostamento agli altri due. Il primo è incentrato sui vecchi di una casa di riposo, il secondo sui ragazzi della Roma bene che bazzica la mala e il terzo sulla solitudine serena di un lavoratore avanti negli anni che vive la linea dei giorni come tanti cerchi perfetti. Non sto facendo paragoni, lo ripeto, né pretendo di scovare affinità tra questi film; sto dicendo che nella loro diversità rappresentano finalmente la realtà, senza griglie o paraocchi ideologici, scavano nella nostra interiorità e nei nostri giorni, e ti lasciano in fondo qualcosa. Parlano della nostra vita con gli occhi della vita. Non faccio classifiche, non esprimo giudizi perché i tre film in questione sono diseguali sotto tutti i punti di vista: si potrebbe dire hegelianamente che il primo rappresenta la tesi, il secondo l’antitesi o l’uscita da sé e il terzo la sintesi o il ritorno ma i tre film ti fanno vedere la realtà, ti fanno pensare nella realtà. Non ti donano altro che lo sguardo sulla realtà in corso d’opera.

I tre film ci riportano al crocevia delle nostre vite, dove confluiscono strade diverse, persone diverse e veicoli diversi. Ma insieme costituiscono la nostra vita, da giovani, da vecchi, da solitari, dentro e fuori dal mondo, o ai suoi margini periferici.

Il racconto della vita è essenziale alla vita stessa, laddove la fiction si fa più vera della realtà, e non c’è vita degli altri che non sia anche un po’ vita nostra, giacché siamo consorti e connessi, assai più di quanto il web possa dire. Tutto questo, in breve, si chiama umanità.

La Verità – 23 gennaio 2024

 

 

 

 

Il punto di rugiada ha un’ambientazione e una data non casuali, e si addentra nel mondo a parte delle case di riposo, “cimiteri degli elefanti” (come le definisce l’ospite più lucido del gruppo) visitati raramente dai famigliari e gestiti come centri ricreativi di lusso (in questo caso: spesso sono anche strutture inadeguate)
Enea. Pietro Castellitto descrive un milieu sociale che mostra di conoscere bene sul quale applica una molteplicità di strategie narrative.
Perfect Days racconta le “giornate perfette” di Hirayama come una quieta affermazione di dignità quotidiana.

 

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Un commento

  1. Pinuccia

    30 Gennaio 2024 a 12:29

    Certo che il signor Veneziani scrive molto bene tanto di cappello “come si dice”

    rispondere

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