Quando prendersi cura è un atto d’amore e non solo una procedura medica
QUANDO LA CURA FA BENE NON SOLO AL MALATO
di Marcello Veneziani
Partendo dalla traccia d’esame di maturità dedicata alla canzone La Cura di Franco Battiato, Marcello Veneziani riflette su un’esperienza personale: una lectio universitaria sul prendersi cura dell’altro, tenuta davanti a futuri infermieri. Ne nasce una meditazione intensa sull’amore come fondamento della cura, e sul rischio — oggi sempre più frequente — di ridurre l’atto del curare a un protocollo tecnico, dimenticando la persona dietro la patologia. La vera cura, sostiene Veneziani, è quella che si rivolge all’intero essere umano: al suo corpo, sì, ma anche alla sua anima, al suo vissuto, al suo dolore esistenziale. Una visione umanistica e olistica che fa bene non solo al malato, ma anche a chi si prende cura. (Fonte Redazionale)
Nelle tracce per l’esame di maturità, che quest’anno erano piuttosto azzeccate, è apparsa un po’ a sorpresa una canzone famosa di Franco Battiato, la Cura. Una delle più belle in assoluto, uno splendido manifesto d’amore e di attenzione per la persona amata che oltrepassa i limiti e le condizioni terrene: “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”; una sfida epica e metafisica oltre la mortalità, la vecchiaia, la gravità, il buio. La traccia è stata curiosamente affidata ai maturandi del Liceo Artistico.
Per uno dei casi strani della vita, all’indomani di quelle tracce, mi è stato assegnato il compito di una lectio all’Università di Grosseto, sull’amore come prendersi cura dell’altro; lezione rivolta agli studenti di scienze infermieristiche. La mia competenza in materia è naturalmente nulla dal punto di vista professionale, tecnico-scientifico: mi avevano chiesto di parlare del mio saggio sull’amore necessario nella chiave del prendersi cura dell’altro. A ben pensarci, è un errore ritenere che curare sia solo una questione professionale, di abilità tecnico-scientifica. Il limite della cura oggi è proprio questo: la sostituzione dell’umanità con la tecnica. Che poi equivale a sostituire il malato con la malattia, concentrandosi sulla diagnosi, la degenza e la terapia, prescindendo dalla persona, dalla sua vita e dalla sua sensibilità affettiva. Curare in questo modo è un curare a metà, e un curare l’effetto (localizzato), trascurando la causa. Il malessere va invece riportato alla sua radice, contraria non solo al benessere ma avversa all’essere, a tutto l’essere. Nella cura è preziosa una visione olistica e non atomistica del paziente.
Viviamo in una società largamente sotto cura, medicalizzata se non ospedalizzata, in cui tutto – dalla nascita alla morte – passa dal nosocomio. E tutto, dall’alimentazione allo sport, dal modo di vivere al modo di pensare, passa sotto la sorveglianza della cura. Un tempo c’erano cose che andavano fatte perché giuste, perché vere, doverose o da farsi per fede e spirito di sacrificio; oggi l’unico vero assoluto è quello salutista, devi farlo perché ti fa bene: non c’è più l’idea del Bene ma del mio bene. Non c’è un’etica della cura ma solo autoconservarsi, a cui corrisponde un curare per prestazione professionale. Ma la società della cura si caratterizza per il suo contrario, come società dell’incuria, in cui il verbo più diffuso nella pratica di vita è trascurare. Cura vuol dire attenzione, premura, dedizione verso gli altri, a partire dai più vicini: e verso il mondo, a partire da quel che ti circonda. Ovvero, partendo da tua madre e dalla pianta sul balcone di casa.
Un filosofo tacciato di essere troppo astratto, troppo oscuro e anche oscurantista e perfino nazista, Martin Heidegger, si dedicò alla Cura (Sorge) e la ritenne il perno dell’esistenza. Heidegger distingueva la cura, come la vita, tra autentica e inautentica: la cura è autentica se aiuta l’altro a curare se stesso, è inautentica se lo tratta da malato e da oggetto, lo lascia passivo, privo di libertà e di coscienza. La prima forma della cura è dunque per Heidegger un’arte maieutica come quella di Socrate e di sua madre, levatrice: tirar fuori dalla persona che hai davanti l’energia, la voglia, la coscienza di curarsi.
Qual è l’origine mitologica della cura? La racconta uno scrittore romano di duemila anni fa, Igino. Cura, una divinità minore, ai bordi di un fiume modella un essere dal fango e chiede a Giove di alitargli dentro il fiato della vita. Ma poi sorge una vertenza: Giove rivendica a sé l’essere a cui ha dato la vita, la Terra a sua volta reclama a sé l’essere perché il suo corpo è fatto di terra. E il giudice supremo, in questo caso Saturno, più che salomonicamente tripartisce l’uomo-humus: alla sua morte la sua anima tornerà a Giove e il suo corpo tornerà alla Terra. Ma in vita di lui si occuperà lei, Cura. Dunque vivere è aver cura, prendersi cura. Ma non solo degli altri. Un filosofo dei nostri tempi, Pierre Hadot, esortò a compiere esercizi spirituali che avevano come scopo primario la cura di sé. Non si tratta di ribadire il primato egoistico; aver cura di sé è la premessa per aver cura degli altri e del mondo. Chi cura sé stesso cura anche gli altri, e viceversa. E comunque, l’uno non va scisso dall’altro. Molte cose non ho condiviso di don Lorenzo Milani(1) ma la sua insistenza sul motto I care, io mi prendo cura, costituisce sicuramente la cosa più bella che abbia detto e fatto il parroco ribelle della Barbiana. Poi si può tradurre quell’I care in retorica altruista, in assistenzialismo parassitario, in giustificazione di ogni crimine ed errore se compiuto da chi era bisognoso. Ma la radice generosa, non solo evangelica, di quel principio resta esemplare nell’ambito della carità e dell’agape, come la chiamavano i greci.
Tra le definizioni greche dell’amore che presi in esame in quel libro, c’era pure la Storge, ***che somiglia anche alla Sorge, la cura heideggeriana, e che riguarda proprio il prendersi cura, aver tenerezza. Il suo ambito originario e primario è l’amore per i propri famigliari, della madre per suo figlio, del figlio per il suo vecchio padre. A conferma che la matrice della cura e il modello a cui riferirsi resta per così dire a conduzione familiare. Da lì dovrebbero trarre esempio il medico e l’infermiere. Alla richiesta di consigli “di pratica filosofica” nella cura, da parte di alcuni operatori sanitari, mi sono permesso di suggerire tre o quattro piccole cose. La prima, lo dicevo all’inizio, è quella di non avere davanti un malato ma una persona, è lui che va curato, non la malattia. È importante. Questo comporta di non limitarsi a osservare i protocolli sanitari e usare con loro metodi standard e linguaggi prestampati: ma bisogna cercare di entrare nella loro vita, conoscerli e commisurare il trattamento al loro stato e alla loro sensibilità. Chiedetegli, ho detto loro, non solo le cose attinenti la malattia, ma qualcosa della loro vita, della medaglia che portano al collo, dei loro famigliari; per farli sentire a casa, per creare fiducia in voi e sentirsi accuditi e forse un po’ amati. E ai malati incurabili non usate procedure standard, valide per tutti, adattate le parole al loro stato emotivo: siate rassicuranti e placebo con chi non vuole sentirsi terminale; siate più diretti, con verità e dolcezza, a chi esige il vero. A proposito del rapporto col paziente, ho detto qualcosa a proposito dell’abitudine di alcuni infermieri e medici a dare il tu al malato: se c’è quell’attenzione alla sua vita e alla sua sensibilità, allora va bene usare il tu, sapendo che anche lui si sente, come con un amico, di dare il tu a voi. Ma se il tu denota una superiorità e un disprezzo, una noncuranza per la sua vita fuori e prima di finire ricoverato; se lo fa sentire un numero in balia di un altro o di un arcigno mostro anonimo, l’Ospedale, allora nuocete al malato e non lo aiutate ad aiutarsi, cioè a collaborare con voi per la cura.
A volte bisogna prendere lezioni dal passato: prendete ad esempio tanti medici condotti di una volta, con la loro umanità e spesso anche con la loro formazione umanistica, la loro cultura non solo medica; capivano di avere avanti un uomo, ne conoscevano la storia e la famiglia, e loro si, pur disponendo di poveri mezzi medici, rispetto ad ora, si prendevano cura di lui. Andate a lezioni di umanità da loro. Così curerete meglio lui e curerete anche voi stessi; vi motiverà, vi darà più risultati e alla fine farà bene anche a voi. Il bene è contagioso, almeno quanto il male.

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