Nel vuoto lasciato dall’assenza, un incontro inatteso riaccende la speranza.

QUEL CHE RESTA È AMORE

Racconto di

Paolo Quattrini

Dopo la morte della moglie, Piero vive in una Milano grigia e immobile, sospeso tra il peso dei ricordi e l’incapacità di andare avanti. Ma nel silenzio del suo dolore, un incontro inatteso — una giovane donna che conosce lo stesso vuoto — apre una crepa nella sua solitudine. Tra sogni, apparizioni e piccoli gesti, Piero intraprende un cammino fragile ma necessario verso la possibilità di ricominciare. Quel che resta è amore è una storia intima di perdita, memoria e umanità, dove l’amore continua, anche quando tutto sembra perduto


♣♣♣

Giorno 1 – Lunedì

Ore 7.00

Drin drin

Drin drin

La sveglia ruppe il silenzio.

Piero allungò il braccio fuori dalle coperte e la spense a tentoni. Sbadigliò, stirandosi sotto le lenzuola per sciogliere la notte dalle ossa.

Milano era ancora immersa nel buio invernale. Le prime luci dell’alba si insinuavano tra i palazzi, tracciando ombre lunghe sulle strade bagnate. Il freddo umido tamburellava sui vetri, rendendo più dura l’idea di lasciare il letto.

Come ogni mattina, il primo pensiero fu per Anna.

Era ancora lì. Sempre.

Nella luce fioca dell’alba, chiuse gli occhi. Rivide il suo sorriso, il gesto con cui si sistemava una ciocca dietro l’orecchio mentre gli porgeva una tazza di caffè.

«Ne ho fatto anche per te.»

La vedeva ancora lì, accanto alla cucina, con il pigiama di cotone e la tazza coi girasoli tra le mani.

«Come fai ad alzarti sempre prima di me?»

Lei rideva. «Qualcuno il caffè lo deve pur fare, no?»

«E se un giorno lo facessi io?»

«Quel giorno smetterò di amarti.»

Era il loro gioco. Ogni mattina, le stesse battute. Lo stesso caffè.

Ora, solo silenzio.

Piero riaprì gli occhi. La penombra copriva la stanza. Il letto accanto, freddo.

Una volta c’era la voce di Anna. Ora, solo la sveglia.

Si alzò. Anche oggi.

Andò in bagno a sistemarsi: barba col rasoio elettrico, pettine veloce per tirare indietro i capelli, una spruzzata di eau de toilette.

Davanti allo specchio, esitò. Ce l’avrebbe fatta anche oggi?

Si vestì: jeans, camicia, golf. Cappotto ed uscì.

Fuori l’aria tagliava il viso e il fiato si dissolveva in nuvole leggere.

Milano si svegliava piano: tram in lontananza, motorini che borbottavano, passi rapidi di chi correva al lavoro.

Un gruppo di bambini attraversava sulle strisce, accompagnati da un nonno vigile con la pettorina gialla fosforescente e la paletta alzata come una bandiera di pace. Gli zaini rimbalzavano mentre ridevano tra loro.

Piero li guardò. Ancora non sapevano che crescendo i pesi sarebbero diventati ben altri.

Attraversò la strada e svoltò a sinistra, verso il solito bar.

Il Bar Sport era lì dal 1922. L’aveva aperto il bisnonno Nicola. Aveva resistito a tutto: bombardamenti, passaggi di testimone, perfino alla pandemia. Ora c’era Francesco dietro al bancone, custode di una tradizione.

Dentro, colazioni servite al volo, tavolini sparsi e una sala con un vecchio tavolo da biliardo con le buche, logorato da partite infinite.

Appena entrò, lo salutarono in coro: «Ciao Piero!»

Lui rispose con un cenno.

Francesco non dovette pensarci troppo. «Il solito?»

Lui annuì. Il cappuccino e la brioche arrivarono poco dopo.

«Oggi con tanta schiuma.» Disse Francesco, sorridendo.

Piero prese la tazza, ringraziò a bassa voce e andò a sedersi nel suo angolo. Sempre quello. Sempre da solo.

Sorseggiava il cappuccino e osservava il bar che prendeva vita.

A un tavolo vicino, tre amici discutevano di calcio. Uno agitava la Gazzetta e celebrava la vittoria dell’Inter, gli altri scuotevano la testa: «Sempre la solita fortuna. Lo scudetto è nostro, vedrai.»

Più in là, due anziani giocavano a biliardo, alternando colpi precisi a frecciate sulla politica. Al bancone, un uomo col naso rosso beveva il solito bianchino e chiacchierava con Francesco.

In un angolo, da solo, sedeva un vecchio che non ricordava di aver mai visto. Capelli bianchi come argento, forse un tempo d’oro. Occhi azzurri, slavati dall’età. Il viso scavato. Ma lo sguardo… lo sguardo era vivo. Troppo vivo.

Piero sentì un leggero disagio. L’uomo lo fissava. Non con invadenza. Né con curiosità. Con qualcosa di più profondo. Come se sapesse.

Abbassò lo sguardo, un brivido lungo la schiena. Finì in fretta il cappuccino, si alzò e andò a pagare.

Tirò fuori il vecchio portafoglio di pelle di coccodrillo. Un regalo della zia, tanti anni fa. Lo faceva lei, con mani esperte e lente. Ricordava ancora l’odore di pelle e colla nel suo laboratorio.

Ora quei portafogli non si vedevano più. Era un oggetto d’altri tempi. Come lui.

Si incamminò verso il lavoro con passo lento.

Da una vita era operaio in una sartoria industriale: camicie su misura, fatte come una volta.

Un tempo tutto veniva cucito a mano, punto dopo punto. Poi erano arrivati i macchinari ad aiutare, il ritmo era aumentato, ma la precisione restava sacra.

La sede era in periferia, in un ex quartiere industriale diventato un miscuglio di capannoni, uffici e palazzine moderne. Il freddo, però, era rimasto quello di sempre: umido, duro, che ti entrava nelle ossa.

Alle 8:00 in punto varcò l’ingresso, passò il badge e andò al suo posto. Le colleghe, quasi tutte donne, lo salutarono con un cenno. Lui rispose allo stesso modo, come ogni giorno.

Chiara gli venne incontro. Lei e Anna erano amiche da sempre. Si erano conosciute lì, da giovani. Ridevano insieme. A volte le sentiva parlare al telefono per ore.

«Ciao, Piero.»

Si fermò. Nessuno lo fermava mai.

«Ciao, Chiara.»

Lei esitò, poi gli sorrise con dolcezza. «Come stai?»

Aprì la bocca. Nulla. Un nodo alla gola.

Come si sta, quando non si sa più da dove ricominciare?

Fece un mezzo gesto con la mano. «Si va avanti.»

Chiara annuì, ma nei suoi occhi c’era dubbio. «Se hai voglia di parlare… noi ci siamo.»

Piero annuì a sua volta, silenzioso.

Come si racconta un dolore che nemmeno ha un nome?

Lei non insistette. Gli toccò il braccio, piano, e se ne andò.

Solo seduto al suo banco, si rese conto che per la prima volta, dopo tanto tempo, qualcuno gli aveva chiesto come stava. E che lui, come sempre, non aveva saputo rispondere.

Alle 10:00 suonò la campanella della pausa.

Dieci minuti secchi. Giusto il tempo per un caffè e un salto in bagno.

Si avvicinò alla macchinetta e prese un espresso.

Un gruppo di colleghe parlava fitto della fiction della sera prima: amore tormentato, protagonista bello e dannato, soliti colpi di scena.

Piero, come al solito, ascoltava senza dire nulla.

Una delle donne si voltò a guardarlo. Solo per un attimo. Negli occhi, un misto di tenerezza e pietà.

Sapevano.

Sapevano che il dolore non l’aveva lasciato.

Un tempo anche Anna era lì con loro. Rideva, commentava. Partecipava.

Chissà se adesso le ascoltava ancora, da qualche parte.

Terminata la pausa caffè si rimise al lavoro sino alle 12.00, ora della pausa pranzo.

Uscì e andò verso l’osteria di sempre.

Un locale vecchio stampo, con tavoli in legno scuro e tovaglie a quadretti rossi e bianchi, un po’ stropicciate.

Nell’aria, odore di sugo e pane caldo.

Alcuni clienti abituali erano già seduti, vino alla mano, parole basse tra un boccone e l’altro. Il tintinnio dei bicchieri si mescolava al brusio.

Appena varcò la porta, Alfredo lo vide e annuì.

«Solito tavolo, eh?» disse, indicando quello accanto alla finestra.

Piero si sedette e Alfredo arrivò con taccuino e penna già pronti.

«Oggi: maccheroni al pomodoro o lasagne. Poi, pollo col purè o trota con insalata.»

«Maccheroni e pollo.»

Alfredo alzò un sopracciglio. «È una vita che vieni qui e mai che provi il pesce. Lo sai che la trota è buona?»

Piero scrollò le spalle, guardando fuori dalla finestra.

Alfredo fece lo stesso e prese nota. «Maccheroni e pollo. Ti porto anche un bicchiere di Lambrusco?»

Piero annuì.

Alfredo si allontanò, lasciandolo ai suoi pensieri.

Dalla finestra guardava la gente passare.

Un uomo in giacca e cravatta parlava con una ragazza, gesticolava come se stesse vendendo qualcosa. Forse lo faceva davvero.

Poco più in là, un ragazzo camminava fissando lo smartphone. Le dita correvano veloci sullo schermo. Non alzava mai gli occhi. Immerso in un mondo che esisteva solo lì dentro.

Piero scosse la testa, sospirando. Una volta, per strada, ci si guardava. Ci si salutava, magari solo con un cenno. Ora ognuno nella sua bolla, vicini eppure lontani.

Riportò l’attenzione alla sala.

Le posate tintinnavano, le voci basse si mescolavano. Ognuno con le sue storie, i suoi ricordi, e un futuro che solo il tempo avrebbe deciso.

Mangiò senza entusiasmo.

Da tempo ormai il cibo non era più piacere, ma abitudine. Un ingranaggio in più nella routine. Solo il Lambrusco gli dava ancora un minimo sollievo: un sorso, il pizzicore lieve sulle labbra, il frizzante che gli scendeva in gola.

Finito il pranzo, si alzò con calma, pagò ed uscì.

Due passi, tanto per digerire. E per rimandare, anche solo di qualche minuto, il ritorno al lavoro.

Alle 13:00 rientrò. In orario, come sempre.

Un gesto automatico. Da quarant’anni.

Era come se fosse la sartoria a scandire la sua vita, non l’orologio.

Cinque giorni di malattia in tutta la carriera, e solo per un’influenza tosta. Nemmeno il covid l’aveva fermato.

Ora aveva 58 anni. Ne mancavano solo due alla pensione.

Una vita scandita da timbri, turni, rumori metallici.

E dopo?

Niente più orari, nessun collega, nessun filo da raddrizzare.

Nessuno che aspettasse qualcosa da lui.

E allora, perché alzarsi la mattina?

Con Anna si erano promessi di girare il mondo, una volta liberi.

Ma quei progetti erano rimasti parole. Sogni sfumati.

Sospirò. Perché pensarci ora?

Due anni. C’era ancora tempo per capire cosa fare.

Il pomeriggio non finiva mai.

Poi finalmente le 17:00.

La campana segnò la fine della giornata.

Fuori era già buio. Milano si era accesa. Il fiato gli usciva in nuvolette. Le mani affondate nelle tasche del cappotto.

Appena rientrato, si tolse i vestiti e indossò la solita tuta.

Sprofondò in poltrona e accese il televisore. Fece zapping. Chiacchiere inutili, pettegolezzi, notizie tutte uguali. Aspettava le 18:00, quando su Rete Quattro trasmettevano Il Tenente Colombo. Il suo preferito.

Quando la puntata finì, si alzò con un sospiro e mise su la cena: raviolini in brodo, un po’ di prosciutto, qualche cracker.

Non aveva fame, ma mangiò lo stesso. Per abitudine.

Il passato affiorava tra un cucchiaio e l’altro, tra un morso e il successivo.

Gli era persino passato per la testa di parlare con uno psicologo. Forse avrebbe aiutato. Ma come si fa a raccontare un dolore che ti segue ovunque, e che non sai nemmeno da dove cominciare?

Dopo cena, riordinò quel tanto che bastava: una passata veloce, i piatti nel lavandino.

Anna, un tempo, faceva brillare tutto. Lui si limitava a tenere a bada il disordine.

Alle 21:30 si mise il pigiama e si coricò.

Sul comodino, il thriller che stava leggendo.

I gialli erano sempre stati la sua passione. Anche di Anna.

A volte si sfidavano a indovinare il colpevole, leggendo ad alta voce.

Ora non c’era più nessuno con cui scambiare ipotesi.

Alle 22:30 gli occhi cominciarono a chiudersi.

Spense la luce.

Si lasciò andare al buio, sperando che almeno nei sogni lei fosse ancora lì, ad aspettarlo.

L’unico posto dove il tempo non li aveva separati.

♣♣♣

Giorno 2 – Martedì

Piero si sveglia con la solita pesantezza nel petto.

Si rasa, si veste, esce.

Appena apre la porta, si blocca sul pianerottolo. Qualcosa non torna.

Silenzio totale. Neanche il fruscio delle foglie. Solo vento freddo tra le case.

Stringe il bavero del cappotto e si guarda intorno. Nessun segno di vita.

Finestre chiuse. Saracinesche abbassate.

Neppure il giornalaio all’angolo, che a quell’ora è sempre lì.

Si avvia verso il bar con un’inquietudine sottile che gli si avvolge allo stomaco.

Quando apre la porta, l’estraneità diventa reale.

Il Bar Sport è vuoto.

Nessuna voce. Niente tazzine. Nessuna Gazzetta sul bancone.

Il biliardo, coperto d’ombra, sembra più vecchio del solito. Come se il tempo si fosse fermato.

Dietro il bancone non c’è Francesco.

C’è una ragazza giovane, mai vista. Sorride, cortese.

Piero si avvicina piano.

«Francesco non c’è? Dove sono tutti?»

Lei alza appena un sopracciglio. «Tutti chi? Chi sta cercando?»

Un brivido.

«Vengo qui ogni giorno. Francesco è il proprietario. Mi serve cappuccino e brioche. Ci sono i miei amici. Mi salutano… parlano con me.»

Lei inclina la testa, quasi divertita. «Francesco? Non conosco nessun Francesco. Si accomodi, le porto cappuccio e brioche.»

Piero si siede al solito tavolo.

Il cappuccino resta lì, intatto.

Si guarda intorno, come se da un momento all’altro tutto potesse tornare normale.

E allora lo vede.

Il vecchio dai capelli d’argento. Seduto dov’era ieri.

Lo fissa, immobile. Come se lo stesse aspettando.

Piero esita. Si passa una mano sulla fronte. Poi si alza e si avvicina.

«Buongiorno, ci conosciamo?»

Il vecchio inclina la testa, sorride. Enigmatico.

«No. Ma abbiamo conoscenze in comune.»

Un gelo improvviso.

«Ah sì? Chi?»

L’uomo tace un istante. Poi si sporge appena in avanti, le mani sul tavolo.

«Se glielo dicessi, non mi crederebbe.»

Piero aggrotta le sopracciglia. «Provi.»

Il vecchio sorride ancora. Gli occhi, però, restano indecifrabili.

«Conosco il peso dei ricordi.» Fa una pausa. «E so cosa vuol dire perdere qualcuno.»

Piero trattiene il fiato.

Quel vecchio sta guardando dentro di lui.

«Chi è lei?»

L’uomo guarda l’orologio da tasca, lo richiude con un clic secco e si alza.

«Mi scusi. Si è fatto tardi.»

Piero allunga una mano. «Aspetti—»

Ma il vecchio è già fuori. Uscito con passo tranquillo, senza voltarsi.

Piero rimane fermo. Il cuore che martella.

Vorrebbe inseguirlo. Ma non si muove. Perché, in fondo, una parte di lui già sa.

Finita la colazione, paga ed esce.

Ha un peso sul petto che non riesce a scrollarsi.

Davanti alla sartoria si ferma.

Da fuori sembra tutto normale: cancello aperto, insegna sbiadita, odore di tessuti nell’aria.

Ma appena entra, il gelo.

Non c’è nessuno.

Il brusio di ogni mattina è sparito. Nessuna voce. Nessuna presenza.

Dove diavolo sono tutti?

Si avvia alla postazione. La sedia c’è. Il banco è pulito.

Niente biglietti. Niente spiegazioni.

Tutto uguale. Tranne l’assenza.

Si sfrega il viso, come a svegliarsi da un sogno che non smette.

Poi si siede e inizia a lavorare.

Non perché ci creda. Ma perché ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa.

Ogni gesto, però, sembra vuoto. Meccanico. Come se non fosse lui a farlo.

La mattina scivola via in un silenzio irreale.

All’ora di pranzo, esce e si dirige verso la trattoria.

Cammina per strada cercando volti familiari, voci.

Niente.

Nessuno.

Quando entra nel locale, il cuore gli crolla.

Tutto è al suo posto: tavoli apparecchiati, tovaglie a quadretti perfette.

Ma il locale è vuoto.

Niente risate. Niente bicchieri. Nessun Alfredo.

Solo un giovane cameriere, con un’espressione educata.

«Buongiorno, signore. Si accomodi.»

Piero fa un passo avanti. «Dov’è Alfredo?»

Il ragazzo inarca un sopracciglio. «Alfredo?»

«Il proprietario. È qui da sempre.»

Il cameriere scrolla le spalle. «Mi dispiace, signore. Mai sentito.»

Piero sente la realtà sfuggirgli sotto i piedi.

Si siede.

Ordina. Mangia. Non sente sapori.

Poi esce.

Con una sola domanda che gli martella in testa: Che diavolo sta succedendo?

Nel pomeriggio torna in sartoria.

Magari ora c’è qualcuno.

Ma no. Ancora nessuno.

Le ore scorrono lente, scandite solo dal ticchettio dell’orologio.

Finalmente arriva l’ora di uscire.

Cammina verso casa con passi pesanti.

Passa davanti al Bar Sport. Guarda dentro.

Ancora vuoto.

Un gelo alla nuca.

Infila le mani in tasca e riprende a camminare.

C’è qualcosa che non torna. Ma forse, non vuole nemmeno saperlo.

Arriva a casa. Gira la chiave nella toppa. Apre.

Un sospiro. Svuotato.

La giornata gli ha lasciato addosso un’inquietudine che non se ne va.

Si toglie il cappotto, va in camera, si cambia.

Poi si lava il viso con acqua fredda, ma serve a poco.

Quando entra in cucina, si blocca sulla soglia. Come paralizzato.

Anna è lì. Seduta al tavolo.

Piero sgrana gli occhi. Le gambe gli cedono. Si aggrappa alla credenza.

Lei lo guarda con il sorriso che conosce a memoria.

Dolce. Calmo.

I capelli biondi, striati d’argento. Gli occhi turchesi.

È lei. Esattamente lei.

Come se il tempo non l’avesse mai toccata.

«Ciao, Piero.»

La voce. La sua voce.

Quella che aveva paura di dimenticare.

Quella che gli è rimasta addosso, anche nei sogni.

Piero cerca di parlare.

Niente. Solo fiato e tremore.

Fa un passo. Poi un altro.

«Anna…» Un sussurro spezzato. «Che sta succedendo? Sto… sto impazzendo?»

Lei scuote piano la testa. Sorride.

«No, Piero. Sei sveglio.»

Lui si porta una mano alla bocca. Le dita tremano.

«Non può essere vero…» mormora. «Tu non ci sei più.»

Lei lo guarda.

«Eppure sono qui.»

Piero chiude gli occhi.

Il cuore gli martella nel petto.

Li riapre.

Lei è ancora lì. Seduta. Le mani intrecciate sul tavolo. Lo aspetta.

Un’ondata lo travolge. Dolore. Gioia. Paura.

Si avvicina piano, temendo che un passo sbagliato la faccia sparire.

«Mi manchi, Anna. Mi manchi da morire.»

La voce gli si spezza.

«Le giornate… non hanno senso senza di te.»

Lei inclina la testa.

«Lo so, amore mio.»

Lui si passa una mano tra i capelli. La guarda.

«Come si va avanti? Senza di te… è tutto vuoto.»

Lei tende una mano.

Lui fa lo stesso.

Ma quando le dita si sfiorano, sente solo aria.

Un brivido.

«Devi farti forza, Piero.»

La sua voce è calda, ma piena di malinconia.

«La vita va avanti anche quando non vogliamo. Non voglio vederti spegnerti così.»

Lui scuote la testa. Occhi lucidi.

«Non è giusto. Perché proprio a te? Perché a noi?»

Anna sorride. Con quella dolcezza che solo lei ha.

«Non c’è un perché, Piero. La vita è attimo. Un giorno ci sei. Il giorno dopo… chissà. Per questo devi viverla. Tutta.»

Si fa seria.

«Promettimi che lo farai.»

Piero sente un nodo allo stomaco.

«Ci proverò.»

Lei annuisce. Si alza.

Si liscia la camicetta, come faceva sempre.

«Resta. Solo un altro po’. Ti prego.»

Anna scuote la testa.

«Vorrei, amore mio. Ma non posso. È ora di andare.»

Piero trattiene il fiato.

«Ti rivedrò?»

Lei sorride.

«Io sono sempre con te.»

E in un battito di ciglia, svanisce.

Piero resta lì, con le braccia a mezz’aria.

Come se potesse ancora toccarla.

Ma sente solo freddo.

Si lascia cadere sulla sedia. Le mani tremano. La fronte è bagnata.

Drin drin

Drin drin

La sveglia lo fece sobbalzare.

Aprì gli occhi.

Il cuore batteva forte.

Si guardò intorno. La stanza era vuota.

Solo il cinguettio degli uccelli.

Si passò una mano sul viso, sospirando.

Era solo un sogno.

Ma così reale da lasciargli dentro un’ombra.

Si alzò. Meccanico.

Un altro giorno. Uguale agli altri.

Letto vuoto. Pareti mute.

Andò in bagno e si sciacquò il viso, ma non bastava.

Perché non era il sogno a far male.

Era il risveglio.

Anna non c’era.

E non ci sarebbe stata più.

Aveva avvertito i suoi occhi su di sé. La voce. Il calore.

Ma ora… ora restava solo il vuoto. Più profondo di ieri.

In cucina guardò la sedia dove lei era seduta.

Niente. Solo legno. Solo luce fredda del mattino.

La felicità, quella gran puttana, gli aveva sorriso solo per un attimo.

Poi lo aveva lasciato lì. Con le mani nel vuoto.

Si sedette, stanco.

Le mani tremavano. Lo spirito sembrava altrove.

Un altro giorno da attraversare.

E, come sempre, irrimediabilmente solo.

 ♣♣♣

Giorno 3 – Mercoledì

Piero cammina lungo il Naviglio.

Le luci tremano sull’acqua nera. L’aria è tiepida, satura di profumi: fiori appena sbocciati, umido di canale, un vago odore di vino e cibo dai locali ancora aperti.

La città sembra sospesa.

Accanto a lui c’è Anna.

Ride, con la testa leggermente inclinata all’indietro, come faceva ogni volta che qualcosa la divertiva sul serio. Quel gesto lo incanta ancora.

I capelli ondeggiano appena, le sfiorano le spalle.

Gli occhi turchesi brillano. Vividi, vivi. Come non li vedeva da tempo.

La guarda e sorride.

«Hai visto come sei bella, stanotte?»

«Stanotte?» ripete lei, finta sorpresa. «È notte? Non me n’ero accorta.»

«Sei più luminosa delle lanterne sull’acqua.»

«Questa la voglio in una lettera.»

«Te l’ho già scritta. L’hai buttata.»

«Mai buttato nulla. Le ho tutte. Anche quella con le macchie di caffè.»

Piero ride. «Quella scritta all’alba, dopo la notte sul lago?»

«Proprio quella. Ero raffreddata, e tu volevi farmi dormire all’aperto sotto una coperta. Sembravi romantico. In realtà eri un incosciente.»

Camminano piano. Come se il tempo non avesse più fretta.

«Ti ricordi quando ci perdemmo a Brera e finimmo a bere vin brulé con quei due sconosciuti?»

Anna sorride e gli stringe il braccio.

«Quella signora mi chiamò “fiore d’inverno”. Chissà cosa voleva dire.»

«Che eri bellissima anche col naso rosso.»

Lei lo guarda. «Tu mi vedevi bellissima sempre. Anche con la coda da casalinga e la felpa sformata.»

«Sì, anche allora.»

Un silenzio pieno li avvolge.

Non pesante. Non vuoto. Solo pace.

«Sei felice?» le chiede, stringendole la mano.

Lei intreccia le dita alle sue, con quella naturalezza che gli scalda il cuore.

«Certo che lo sono.»

Quel sorriso. Quello che conosce a memoria. Quello che gli manca ogni giorno.

Fanno ancora qualche passo. Poi Anna si ferma davanti a un piccolo ponte.

«Sai che questo è il nostro ponte?»

«Il nostro?»

«Sì. La prima volta che ci siamo baciati davvero. Pioveva. E tu cercavi di farmi ridere con quella barzelletta orribile… il postino ubriaco.»

Piero sgrana gli occhi. «Quella? Ancora la ricordi?»

«Certo. Ho riso. Mi hai baciata. Fine del film.»

Piero sorride. Gli occhi si velano.

Poi, qualcosa cambia.

Il Naviglio si fa muto.

Le voci si abbassano. L’aria si fa immobile.

Tutto si immobilizza.

Anna è ancora lì. Ma qualcosa non torna.

La pelle è troppo calda.

Il profumo troppo forte. Quasi irreale.

Piero si ferma.

Lei si volta, confusa.

«Che c’è?»

Lui scuote appena la testa.

«È tutto perfetto. Ma… troppo perfetto.»

Anna gli sfiora la guancia. Una carezza lieve.

Il calore lo attraversa come una scarica.

«Forse perché lo è davvero.»

Piero chiude gli occhi.

Sente ancora il profumo. Il calore. La presenza.

Aprì gli occhi.

Buio.

Il letto era di nuovo freddo.

Il profumo di Anna sparito.

Il sogno si era dissolto.

E il vuoto… tornava come ogni mattina.

Erano passati tre mesi esatti.

Tre mesi da quella frase pronunciata dal medico con voce troppo piatta per un verdetto tanto feroce, come se non significasse nulla:

«Non c’è più nulla da fare.»

Un tumore. Rapido. Spietato.

Da quel giorno, la casa si svuotò a poco a poco.

Prima il suo respiro.

Poi i suoi passi.

Poi la voce — sottile, ironica — che riusciva a portare leggerezza anche nel peggio.

Se n’era andata in fretta.

Più in fretta di quanto lui fosse pronto ad accettare.

E lui restò così.

Con le mani vuote.

Con il cuscino che non aveva più un profumo.

E una quotidianità diventata ostile.

Quella mattina, Milano era grigia e pesante.

L’umidità gli si insinuò sotto i vestiti, fino alle ossa.

Il sogno gli aveva lasciato addosso una felicità strana, quasi infantile.

Camminò con una leggerezza che non provava da tempo, come se un frammento di Anna fosse ancora con lui.

Ma, a ogni passo, quel calore cominciò a svanire.

Il rumore dei clacson, il cielo basso, l’odore di pioggia sospesa nell’aria gli ricordarono che la realtà era un’altra.

E ogni passo lo allontanò da lei.

Sentì il vuoto tornare. Farsi strada dentro di lui.

Arrivò al Bar Sport.

Un pensionato sedeva fuori, intento a fumare una sigaretta con la calma di chi non ha più fretta di nulla.

All’interno, lo accolsero il profumo caldo del caffè e l’aroma dolciastro delle brioche appena sfornate.

Francesco gli fece un cenno da dietro il bancone. «Il solito, Piero?»

Lui annuì, senza dire una parola.

Si avviò verso il tavolo di sempre, e quasi senza accorgersene, si ritrovò a fissare l’angolo più remoto del locale.

Si aspettava di rivedere il vecchio dai capelli d’argento.

Ma il tavolo era occupato da qualcun altro.

Una giovane mamma stava pulendo la bocca al suo bambino, che avrà avuto sei o sette anni.

Il piccolo si dimenava, ancora rapito dal sapore della brioche al cioccolato, che giaceva sul tavolo in attesa di essere finita.

Distolse lo sguardo e un mezzo sorriso gli affiorò sulle labbra. Quasi divertito pensò tra sé: “Vedi? Ti sei lasciato suggestionare per niente.

Si sedette nel suo solito angolo, quando poco dopo una ragazza si avvicinò.

Giovane. Capelli corti, ciocche scure che le cadevano sulla fronte.

Un brillantino discreto al naso, un tatuaggio sottile sul polso.

Occhi scuri, stanchi. Ma vivi.

«Scusi… è libero questo posto? Tutti gli altri tavolini sono occupati. Mi fermo solo per una colazione veloce.»

Piero annuì, lievemente sorpreso.

Lei sorrise. «Grazie. Martina, piacere.»

«Piero.»

Martina si sedette con movimenti rapidi ma gentili. Posò la borsa accanto alla sedia, ordinò un cappuccino e una brioche integrale.

Per qualche istante, mangiarono in silenzio. Lei nel frattempo leggeva un libro consumato.

«Certe mattine servono zucchero e parole» disse piano, come se parlasse a se stessa.

Lui non rispose. Ma non si alzò.

Quando Martina finì, si alzò con lo stesso sorriso.

«Grazie dello spazio. Buona giornata, Piero.»

Lui la guardò uscire.

La porta si richiuse alle sue spalle.

Piero rimase seduto.

Per un attimo, lo sguardo perso nel vuoto.

Poi si accorse che stava sorridendo. Appena.

Un sorriso quasi dimenticato.

Non sapeva perché.

Forse per la frase.

O per il modo in cui quella ragazza aveva occupato il silenzio senza invaderlo.

Scosse la testa, come a scacciare il pensiero.

Ma mentre finiva il cappuccino, si rese conto che quella mattina era stata un po’ meno vuota.

Dopo aver lasciato il bar, quella mattina prese il tram per andare in sartoria.

Il finestrino era appannato, e lui vi tracciò linee invisibili con l’indice.

Alla fermata successiva salì un uomo anziano, che si sedette accanto a lui.

Il volto era scavato dalle rughe, gli occhiali spessi, color tartaruga, lasciavano intravedere occhi gentili, ma velati di malinconia.

Indossava un cappello e guanti marroni, consumati dal tempo.

Dopo un pò l’uomo parlò.

«Brutta giornata, eh?»

Piero si voltò leggermente. «Già.»

L’anziano si strinse nel cappotto.

«Mi ricorda i giorni in cui mia moglie se n’è andata. Milano sembrava più grande. Più fredda. Più vuota.»

Piero si irrigidì.

L’uomo sorrise, ma il sorriso aveva dentro un velo d’amaro.

«Poi ho capito che il freddo era dentro di me, non fuori.»

Piero non disse nulla.

Il tram si arrestò alla fermata. L’uomo si alzò.

Prima di scendere, gli posò una pacca leggera sulla spalla.

«Non lasciare che il freddo ti consumi, ragazzo.»

Poi scese, con passo incerto, e sparì nella folla.

Piero restò lì. Immobile.

Le mani serrate nei pugni.

La sartoria aveva il solito odore: stoffa, polvere, caffè bruciato dalla macchinetta.

Lavorò meccanicamente, senza quasi accorgersi del tempo che passava.

A metà turno, il capo reparto — il Ragionier Rambaldi — gli si avvicinò.

Un uomo sulla sessantina, mani grosse e schiena curva dal lavoro.

«Piero.»

Lui alzò la testa.

«Posso parlarti un attimo in privato?»

Piero lo seguì.

Rambaldi incrociò le dita, lo guardò in modo paterno.

«Ascolta. E’ da troppo tempo ormai che ti vedo così. Vengo qui da quarant’anni e so riconoscere uno che ha perso la voglia di vivere.»

Piero sentì un nodo stringergli la gola.

«Vuoi qualche giorno libero? Ti farebbe bene.»

«No, grazie. Meglio se mi tengo occupato.»

Rambaldi sospirò. «Sei sicuro? Non ti fare problemi. A volte, prendersi una pausa è l’unico modo per non affondare.»

Fece una pausa. «Comunque, se cambi idea… sai dove trovarmi.»

Piero annuì. E tornò alla sua postazione.

Quando uscì dalla sartoria, il cielo di Milano era sospeso tra il grigio e l’arancione.

L’aria pungente di gennaio gli morse la pelle.

Attraversò la strada e si avviò verso casa, la testa bassa, i pensieri aggrovigliati.

A metà strada, qualcosa lo fece esitare.

Si bloccò a metà passo.

Solo allora lo vide.

Dall’altro lato della strada, sotto un portico scrostato, il vecchio era lì.

Immobile.

La luce del lampione gli accarezzava i capelli d’argento, ma non proiettava ombra alle sue spalle.

Osservava.

Non con curiosità, ma con quella pazienza di chi conosce l’attesa.

Piero sentì un gelo nella schiena.

Ma non c’era minaccia.

Solo silenzio.

Solo presenza.

Come se sapesse già tutto, e stesse solo vegliando.

Piero deglutì, distolse lo sguardo e riprese a camminare in fretta.

Ma sentì quegli occhi addosso fino a quando non scomparve dietro l’angolo.

Arrivato a casa, si svestì e indossò il solito abbigliamento: maglietta, pantalone comodo, felpa.

Si lasciò cadere sul divano, il telecomando in mano, mentre la sigla del Tenente Colombo riempiva il silenzio della stanza.

Ma quella sera, la mente era altrove.

Chi era quell’uomo?

Perché continuava a comparire?

E soprattutto: l’avrebbe rivista stanotte?

Provò a concentrarsi sullo schermo, ma le immagini gli scivolarono davanti senza senso.

Niente riusciva a distrarlo da quel nodo che gli stringeva il petto.

Finito il telefilm, non sentì fame.

Solo stanchezza.

O forse era qualcos’altro.

Si spogliò, indossò il pigiama e si infilò sotto le coperte.

Il buio lo avvolse.

Non lo spaventava. Anzi.

Chiuse gli occhi e restò immobile. Solo il cuore sembrava muoversi.

Se il sonno fosse arrivato in fretta, forse l’avrebbe ritrovata.

Sul comodino, la fotografia — quella che non ricordava nemmeno di aver toccato — era girata.

Anna lo guardava.

Nella sua direzione.

♣♣♣

Giorno 4 – Giovedì

Piero cammina in Piazza Duomo.

Il marmo della cattedrale riflette il tramonto in sfumature dorate, quasi irreali.

I piccioni svolazzano a scatti, un turista lancia molliche, le voci della città arrivano attutite.

È tutto lì. Eppure sembra distante.

Anna è accanto a lui.

Cammina piano, la mano intrecciata alla sua.

Non ride. Non parla.

Gli occhi — turchesi, lucidi — sono altrove.

«A cosa stai pensando?»

Lei chiude gli occhi. Inspira.

«A quanto è bello tutto questo. L’aria fredda che ci punge le guance, le guglie del Duomo contro il cielo grigio, le luci riflesse sulle pozzanghere… La vita Piero.»

Lui la guarda.

«La vita non è bella senza di te.»

Anna scioglie la mano dalla sua. Un gesto lieve, ma definitivo.

«Sei felice?» chiede lei.

Lui la fissa.

E’ la domanda che gli fa sempre lui. Ma stavolta è lei a farla. E la voce gli si blocca in gola.

Lei gli accarezza la guancia.  «Lo sarai di nuovo.»

Un soffio di vento. E Anna si dissolve.

Piero si svegliò con la malinconia ancora addosso.

Anna era di nuovo solo un’ombra.

E il giorno… già iniziava.

Quando entrò al Bar Sport, non cercò neanche di sorridere.

Si sedette al suo tavolo, lo sguardo fisso sul vuoto davanti.

La voce di Martina lo colpì per la sua naturalezza.

«Posso disturbare ancora?»

Sollevò gli occhi.

Martina era lì. Stessa giacca, stesso sorriso calmo.

«Tutti i tavolini pieni di nuovo. Dev’essere destino.»

Piero fece un piccolo gesto con la mano, una specie di invito.

Lei si sedette. Ordinò di nuovo cappuccino e brioche.

«Oggi ha un’aria più pensierosa del solito. Se posso permettermi.»

Lui non rispose subito. Guardava il vapore che usciva dalla tazza.

Poi disse, quasi sussurrando: «Stanotte ho sognato qualcuno che non c’è più.»

Martina abbassò lo sguardo, lentamente.

«Succede anche a me. Mio padre. Da un anno ormai. Ma ogni tanto lo sogno come se fosse ancora a casa. Sul divano, con la sua musica brutta.»

Piero la guardò per la prima volta davvero.

«Fa meno male, così?»

Martina fece spallucce. «A volte sì. A volte peggio. Ma almeno so che non me lo sto dimenticando.»

Bevve un sorso. Poi aggiunse:

«Io scrivo, sa? Anche solo due righe al giorno. A lui. Gli racconto le cose che non ha visto. È una sciocchezza, ma mi aiuta a non chiudermi dentro.»

La ascoltava, senza interromperla. Non trovò parole da dire. Ma neanche il bisogno di andarsene.

Quando Martina si congedò, lasciò sul tavolo un bigliettino piegato in due.

«Una frase di un libro che mi ha fatto bene. Magari serve anche a lei.»

Poi uscì, senza voltarsi.

Prese tra le mani il biglietto, indeciso se leggerlo o meno.

Poi lo mise in tasca, pagò ed uscì.

Quando varcò il portone della sartoria il solito caos lo investì.

Si mise al lavoro senza dire una parola.

Il corpo c’era. La testa no.

Il sogno lo tormentava più del solito.

Anna era diversa. Distante.

Come se stesse cercando di dirgli qualcosa. Qualcosa che lui non capiva.

Tutta la giornata era passata così. Eppure, più si faceva sera, più dentro sentiva crescere qualcosa. Come un richiamo.

Quando uscì, l’aria sapeva di pioggia lontana.

Infilò le mani nel cappotto e si avviò verso la fermata del tram.

Non voleva camminare.

Non voleva rischiare di rivederlo.

Salì e si sedette accanto al finestrino.

Fuori, i palazzi scorrevano lenti.

A metà corsa il tram svoltò a sinistra.

Alzò lo sguardo. Distratto.

Poi si bloccò.

Sul marciapiede, all’angolo, c’era lui.

Lo fissava. Come sempre.

Piero lo seguì con lo sguardo.

Il tram andava avanti. Ma lui restava lì.

Dopo un centinaio di metri, il tram arrestò la sua corsa. Era la sua fermata.

Si alzò di scatto.

Le porte si aprirono.

Scese in fretta. Aveva finito di scappare.

Si avviò a passi decisi verso l’angolo.

Il cuore gli martellava nel petto.

Doveva parlargli.

Doveva sapere.

Quando arrivò, il vecchio era ancora lì.

Il volto era lo stesso.

Ma gli occhi no.

Non solo osservavano.

Aspettavano.

Piero si bloccò.

Un’ondata di freddo lo paralizzò.

Il vento soffiava leggero. Portava con sé l’odore dell’asfalto e della pioggia che stava arrivando.

Il vecchio non parlò. Non si mosse.

Per un lungo istante rimasero così.

Fermi. Uno davanti all’altro. Nel rumore ovattato della città.

Il tempo sembrò sospendersi.

Poi, il vecchio parlò.

«Cosa vedi quando chiudi gli occhi?»

Piero rimase impietrito.

Un lampo squarciò il cielo sopra Milano.

Alzò gli occhi. Solo per un istante.

Quando li riabbassò, il vecchio non c’era più.

Sentì il cuore accelerare.

Deglutì a fatica.

Poi riprese a camminare verso casa.

Quella notte si distese a letto.

Chiuse gli occhi.

Silenzio.

Poi, la voce del vecchio tornò.

«Cosa vedi quando chiudi gli occhi?»

Vedeva lei. Sempre lei.

Ma ogni notte un po’ più distante.

Ogni notte un dettaglio sfocato.

Un gesto che non ricordava più.

E se un giorno, chiudendo gli occhi, non l’avesse più trovata?

Si girò sul fianco.

Non era pronto a scoprirlo.

Ma nemmeno a smettere di cercarla.

Stava per addormentarsi quando d’improvviso una curiosità si insinuò in lui: il bigliettino di Martina.

Si sollevò appena. Allungò una mano verso la sedia su cui aveva posato i vestiti.

Frugò nella tasca interna del cappotto e lo trovò.

Lo aprì piano, al buio. Come se le parole potessero farsi luce da sole.

Chi ha perso qualcuno sa che la vita va avanti, ma cammina con una gamba sola. Scrivere è un modo per imparare a zoppicare meglio.”

Restò così, a guardare il foglio tra le mani.

Non cancellava il vuoto.

Ma lo faceva respirare.

Richiuse il biglietto con cura.

Lo appoggiò sul comodino. Accanto alla foto di Anna.

Poi spense la luce.

♣♣♣

Giorno 5 – Venerdì

Con uno stridio lieve, il sipario si solleva.

La stoffa esita, come se volesse trattenere un segreto.

Sul palco, un fascio di luce dorata taglia il buio.

Le ombre degli attori si allungano sulle quinte. Sfocate. Irreali.

Piero è seduto in platea.

Poltrone di velluto rosso. Stucchi dorati. Luci basse.

Tutto sembra sospeso, come se non appartenesse a nessun tempo.

Anna indossa un abito scuro, elegante. Capelli sciolti. Il viso che conosce a memoria.

Ma lo sguardo… lo sguardo è altrove.

«Anna…»

Lei non risponde subito. Fissa la scena, quasi ipnotizzata.

Poi si gira. I suoi occhi lo attraversano. Dolci, ma distanti.

Nel fondo, qualcosa che lui non riesce a leggere.

«Lo spettacolo sta per finire» dice.

Le parole lo gelano.

Si guarda intorno. Cerca un appiglio.

Ma il teatro comincia a dissolversi.

Il brusio scompare. Le poltrone svaniscono. Le figure si fanno fumo.

Rimane solo lei.

Prova ad afferrarle la mano.

Ma sente solo aria.

«Anna, no…»

La voce non ha eco.

Un tonfo secco.

Il sipario si chiude.

Buio.

Si svegliò di colpo.

La stanza era immobile. Silenziosa.

Ma dentro, il vuoto pesava più che mai.

Quella mattina il bar era più tranquillo del solito.

Quando entrò, vide subito Martina.

Era già lì, seduta al solito tavolo. Un cappuccino davanti, il solito libro accanto.

Per un attimo esitò. Poi si avvicinò.

«Posso?»

Lei alzò lo sguardo, sorpresa solo per un istante. Poi sorrise.

«Certo. Anzi, l’aspettavo e mi stavo preoccupando del suo ritardo.»

Quella frase lo colpì più di quanto volesse ammettere. Sorrise appena e si sedette.

Francesco, dal bancone, portò il solito senza bisogno di chiedere.

Per qualche istante restarono in silenzio. Poi Martina ruppe il ghiaccio:

«Allora… che fa nella vita, oltre a prendere il cappuccino sempre allo stesso tavolo?»

Piero accennò un sorriso.

«Sarto. In una sartoria industriale. Da una vita.»

«Wow. Le mani sanno fare cose che noi con gli smartphone ci sogniamo.»

Lui si strinse nelle spalle. «Ormai fanno tutto le macchine. Ma un tempo sì, era diverso.»

Martina annuì, guardandolo davvero.

«E lei? Studia?»

«Sì. Comunicazione. Alla Cattolica. Ma non voglio finire a scrivere slogan pubblicitari. Mi piace scrivere storie. Quelle vere.»

«E la sua?»

Martina abbassò lo sguardo. «È una storia che ha cambiato forma all’improvviso. Sto ancora cercando di capire come raccontarla.»

Silenzio.

Poi Martina aprì la borsa e ne tirò fuori una bustina di carta.

«L’ho visto ieri e ho pensato a lei. È un taccuino. È vuoto, a parte una frase che ho scritto all’inizio.

Per il resto… può riempirlo con tutto quello che non riesce a dire.»

Piero lo prese e Martina si alzò.

«A domani.»

E se ne andò.

Restò a guardare il taccuino.

Non l’aprì.

Non ancora.

Ma lo mise nella tasca interna del cappotto.

Come si fa con le cose importanti.

Piero la seguì con lo sguardo mentre si allontanava, leggera, senza rumore.

E fu in quel momento che lo sentì.

Un fremito improvviso.

Non per la ragazza che era, ma per quella che avrebbe potuto essere.

Lui e Anna non avevano mai avuto figli.

Ci avevano pensato, certo.

Poi la vita aveva deciso altrimenti.

Per un attimo, l’immaginò seduta sul divano di casa, con una matita tra le dita, a discutere con Anna di quale film guardare.

L’aveva vista così chiaramente da togliergli il respiro.

Martina.

Martina avrebbe potuto essere sua figlia.

Sua e di Anna.

E la dolcezza di quell’idea lo colpì in pieno petto.

Non per ciò che era.

Ma per tutto ciò che non era mai stato.

Quando uscì per incamminarsi al lavoro, il freddo del mattino lo avvolse.

A metà strada un ragazzo lo fermò. «Scusi, sa dirmi dov’è viale Montenero?»

Piero si voltò.

Il giovane aveva qualcosa di familiare.

Non l’aveva mai visto, ma qualcosa nei suoi occhi, nel gesto rapido con cui si passava la mano tra i capelli, gli ricordava qualcuno.

Poi lo capì.

Gli somigliava.

Gli ricordava se stesso, anni prima.

Quando aveva ancora sogni nel cassetto.

Quando il futuro sembrava tutto da scrivere.

«Sì, vai dritto per due isolati, poi gira a destra.»

«Grazie, gentilissimo!»

Il ragazzo sorrise, lo salutò con un cenno e si allontanò.

Piero lo guardò andare via.

Camminava veloce, con quell’energia che lui non sentiva più da tempo.

Chissà cosa sognava.

Chissà cosa lo aspettava.

Chissà quando, esattamente, aveva smesso di essere così anche lui.

Entrò in sartoria e si sedette al banco, come ogni giorno.

Le mani cominciarono a muoversi da sole, senza bisogno di pensare.

A metà mattina, Chiara gli si avvicinò.

«Piero, oggi vieni a pranzo con noi? Dai, è venerdì.»

Lui la guardò appena.

Non aveva voglia di parlare.

Chiara insistette, ma con gentilezza. «Ti farà bene. Stiamo tutti pensando a te.»

«No, grazie. Ho da fare.»

Chiara abbassò gli occhi.

Poi li rialzò.

Nel suo sguardo c’era un velo di tristezza.

«Ti capisco. Ma non puoi chiuderti così per sempre, Piero.»

Lui non rispose e tornò al lavoro.

Come fosse niente.

Ma quelle parole gli rimasero dentro.

Finita la giornata, si avviò verso casa.

L’aria della sera era fredda. Tagliente.

Milano brillava di luci artificiali. I fari scivolavano sull’asfalto bagnato, riflettendosi nelle pozzanghere come frammenti di stelle. Il fiato si scioglieva nell’aria, come fumo di candela.

Camminava piano.

Il corpo leggero.

La testa piena.

Poi girò l’angolo.

Un brivido gli salì lungo la schiena.

Il vecchio era lì.

In piedi sotto un lampione, immobile.

La luce gialla gli scavava il volto.

I capelli argentati brillavano.

Gli occhi — troppo vigili, troppo consapevoli — fissi su di lui.

Il cuore di Piero accelerò.

Ogni volta la stessa sensazione: timore e inevitabilità.

Ma stavolta non fuggì.

Inspirò a fondo e fece un passo avanti.

Il vecchio non si mosse.

Non batté ciglio.

Poi parlò.

Non ad alta voce, più come un suono antico che vibrava nell’aria.

«Chi trattiene un’anima, dimentica la propria.»

Le parole si depositarono dentro Piero come polvere in una stanza chiusa.

Avrebbe voluto rispondere, chiedere chi fosse, da dove venisse, cosa volesse.

Ma la voce gli restò in gola.

Un battito di ciglia e il vecchio non c’era più.

La strada era vuota.

Solo il vento.

Solo le luci della città.

Si passò una mano sul viso, come a scacciare il gelo.

Poi riprese a camminare.

Quella sera, prima di andare a letto, svuotò le tasche con il gesto lento di chi toglie il peso della giornata.

Il taccuino era lì.

Lo aprì. Solo la prima pagina era scritta.

Scrivere non serve a far passare il dolore. Ma a non sparire con lui.”

La calligrafia di Martina era minuta, ma chiara.

La lesse più di una volta.

Non sorrise.

Ma sentì un nodo, da qualche parte dentro, che si allentava appena.

Posò il taccuino sul comodino, accanto al bigliettino di carta piegato.

E alla foto di Anna.

Come a dire: forse, domani.

Giorno 6 – Sabato

Il suono delle onde.

Un respiro lento. Costante.

Come un’eco eterna che va e torna.

Piero è in piedi sulla battigia.

La sabbia umida sotto i piedi nudi. Il cielo, una distesa d’argento e azzurro pallido.

Davanti a lui, il mare. Immobile. Immenso.

Poi la sente.

È lì. A pochi passi da lui.

Anna indossa un vestito bianco, leggero. I capelli mossi dal vento.

Non sorride. Ma i suoi occhi lo fissano. Calmi. Fermi.

Lui si avvicina.

Vorrebbe toccarla. Trattenerla.

Lei scuote la testa, lieve.

«Non puoi restare qui, devi lasciarmi andare.»

Piero sente un gelo dentro. Fa un passo avanti.

«Io… non posso»

Lei tende una mano, ma tra loro resta una distanza sottile, inviolabile.

«Ti sto chiedendo di vivere, Piero.»

Il vento si alza. Il mare si muove.

Anna comincia ad allontanarsi, senza fretta. Come dissolvendosi.

La sua voce arriva un’ultima volta.

«Un giorno staremo di nuovo insieme Piero… ma non ora.»

E svanisce.

Come nebbia al primo sole.

Aprì gli occhi.

Il soffitto era immerso nella penombra.

I primi spiragli di luce filtravano dalle tapparelle.

Si svegliava sempre alla stessa ora. Anche di sabato.

Non serviva la sveglia. Il corpo ricordava. Ricordava sempre.

Come ogni sabato, era il giorno in cui andava a trovarla.

Il cielo sopra Milano era grigio. Gonfio di pioggia.

Camminò piano lungo il marciapiede con un mazzo di fiori tra le mani.

Non era mai stato un tipo da fiori.

Ma ogni volta, davanti alla sua lapide, sentiva il bisogno di portarle qualcosa.

Il chiosco del fiorista si trovava accanto al Monumentale.

Una bancarella modesta, ma ordinata.

Vasi in ferro battuto. Cassette di legno piene di colori.

Il fiorista, un uomo sulla cinquantina, lo osservò mentre sceglieva.

Aveva mani lente, gesti precisi.

«Rosa o bianco?» chiese, indicando i gigli.

«Bianchi.» Piero non esitò. Erano i preferiti di Anna.

L’uomo annunciò il prezzo. Poi lo guardò meglio.

«Era sua moglie, vero?»

Piero annuì.

Solo quello.

L’uomo gli porse i fiori.

Quando allungò i soldi, lui fece un gesto con la mano.

Li rifiutò. «Oggi sono offerti dalla casa.»

Piero lo fissò, sorpreso.

Il fiorista si strinse nelle spalle. «Ci vediamo sabato prossimo.»

Piero non disse nulla e si avviò verso il cimitero.

Il vialetto di ghiaia scricchiolò sotto i suoi passi.

L’aria sapeva di terra bagnata. E di foglie marce.

Quando raggiunse la lapide, si fermò.

Anna Pirola. Moglie amata.

Due parole.

Un’intera esistenza.

Rimase immobile, il mazzo stretto tra le dita.

Poi si accovacciò.

Appoggiò i fiori con cura sulla pietra fredda.

«Ciao, Anna.»

Lo disse piano. Quasi per non disturbarla.

Avrebbe voluto dirle tante cose.

Ma le parole non uscirono.

Gli morirono in gola.

Il vento si alzò. Leggero. Come una carezza.

Chiuse gli occhi.

Per un istante, si illuse di sentirne il profumo.

Un rumore alle spalle lo fece voltare.

Martina era lì.

«Evidentemente il sabato ci porta nello stesso posto» disse con un sorriso lieve.

Piero annuì appena.

«Forse perché certi legami restano. Anche quando le persone non ci sono più.»

Lei si avvicinò piano.

«È una mia abitudine. Mio padre è sepolto dall’altra parte. Vengo sempre a trovarlo il sabato.»

«Anch’io. Ogni sabato, da quando Anna non c’è più.»

Martina lo guardò con dolcezza.

«L’amava molto, vero?»

Piero annuì.

«Già…»

Fece una breve pausa.

«Lei era casa. Quella che anche nei giorni sbagliati mi faceva sentire nel posto giusto. E, più di tutto, mi faceva stare bene.»

«Che tipo era?»

Lui sorrise, ma senza leggerezza.

«Testarda. Curiosa. Rideva con gli occhi. Parlava con le piante e odiava i film a lieto fine. Avevamo un equilibrio nostro. E poi, da un giorno all’altro, è saltato tutto.»

Fece una pausa. Gli tornò alla mente un frammento che non aveva più raccontato a nessuno.

«Ci siamo conosciuti alla Fiera del Libro. Lei era in fila per una dedica, io inciampai in uno stand e le feci cadere tutti i volumi. Si mise a ridere come se fosse la cosa più divertente del mondo. Mi scusai malissimo. Lei disse: ‘Hai appena sabotato la mia cultura, spero tu sia almeno simpatico.’ E da quel momento ci siamo presi per mano, e non ci siamo più persi. »

Un accenno di sorriso gli attraversò il volto, ma si spense subito. Come una fiamma che non trova ossigeno.

Martina abbassò lo sguardo.

«Mia madre non viene mai. Dice che le fa venire troppa tristezza. Preferisce ricordarlo a modo suo.»

Piero fece un cenno.

Lo capiva. Non tutti riescono a guardare la perdita negli occhi. Alcuni la portano dentro e basta.

Rimasero in silenzio. Poi Martina chiese:

«Ha portato il taccuino?»

«Sì. Ma è ancora vuoto. Come il resto.»

Martina lo guardò con attenzione.

«Sente quel vuoto anche lei?»

Piero abbassò lo sguardo.

«È come se da quando Anna non c’è più… mancasse l’aria. Respiro, certo. Cammino. Ma dentro… è tutto fermo. Non trovo più un motivo.»

Martina ascoltava. Non fuggiva da quel dolore.

«Mi sveglio e non c’è. Vado a dormire e non c’è. Ogni cosa che faccio, la faccio sapendo che non posso raccontargliela. E questo… questo uccide tutto.»

Il vento soffiava tra i rami.

Martina fece un passo più vicino.

«So cosa vuol dire. Con mio padre è stato diverso… ma simile. Avevo paura che il dolore mi svuotasse. Poi un giorno ho capito che, se mi lasciavo affondare, il vuoto vinceva. E lui… non avrebbe voluto questo da me.»

Un attimo di silenzio, poi Martina disse:

«Venga, facciamo due passi. Milano si lascia guardare meglio quando si cammina.»

Piero annuì, senza parlare.

Uscirono dal cimitero insieme, in silenzio.

La città era lì, oltre il cancello, indifferente e viva.

Camminarono piano. Fianco a fianco.

«A volte mi sento colpevole» disse lui. «Perché sono ancora vivo, ma non sto vivendo.»

Martina annuì piano.

«Non è colpa. È lutto. Ma anche nel lutto, qualcosa può crescere. Non subito. Ma se lo lasci respirare, qualcosa torna. Non com’era. Ma abbastanza per restare in piedi.»

Arrivarono a un incrocio.

Martina si fermò.

«Lei non è solo, Piero. Anche se sembra così. È ancora qui. E finché è qui, può ancora scegliere. Anche solo di restare.»

Poi sorrise, lieve.

«A domani.»

E se ne andò.

La guardò allontanarsi.

Camminava con passo leggero, come chi porta il peso del mondo con grazia.

E per un istante, sentì che il vuoto, quel giorno, era un po’ meno freddo.

Restò lì ancora un momento, poi si voltò e si incamminò.

L’aria era limpida e la città iniziava a muoversi sul serio.

Nel tragitto verso casa si ritrovò nel solito vicolo.

E il vecchio era lì.

In piedi nell’ombra, come se appartenesse più alla strada che al tempo.

Non un passo, non un gesto. Solo presenza.

Quante volte l’aveva visto?

O forse c’era sempre stato, nascosto in qualche angolo che il cuore non voleva guardare.

Non disse nulla. Neanche Piero.

Il vento soffiava piano, trascinando foglie come pensieri stanchi.

Poi, come se l’aria stessa avesse trovato voce, il vecchio parlò.

«Il dolore ti ha portato fin qui. L’amore ti porterà oltre.»

Nient’altro.

Nessun consiglio, nessuna risposta.

Solo quella frase, depositata come un seme.

Il vecchio non scomparve.

Non svanì.

Semplicemente si voltò e se ne andò, con passo lento e preciso.

Come chi sa che non verrà cercato di nuovo.

Tirò su il bavero del cappotto e riprese a camminare.

Quella sera, prima di dormire, aprì il taccuino.

Sulla prima pagina vuota scrisse due parole:

Mi manchi.”

Poi chiuse il quaderno e lo posò sul comodino.

Il dolore non era sparito.

Ma per la prima volta, lo aveva lasciato uscire.

Giorno 7 – Domenica

Un prato senza fine. Verde ovunque.

Nessun albero. Nessun sentiero.

Il vento muove l’erba. Ma non fa rumore.

Nessun suono. Nessuna vita.

Solo erba e cielo.

Piero è in piedi. Da solo.

Poi la vede.

Anna è dall’altra parte del prato.

Lontana. Più di sempre.

Veste un abito chiaro, semplice come il silenzio che la circonda.

Non sorride. Non ha dolcezza negli occhi.

Lo guarda con serietà. Con decisione.

«Non puoi restare qui per sempre.»

Un gelo gli scende dentro.

Quelle parole lo colpiscono più di ogni altra.

«Io… io non voglio lasciarti.»

«Ma io ho già lasciato te.»

Piero fa un altro passo.

Il cuore gli batte forte.

«Non è vero. Tu sei qui. Sempre.»

«No, Piero. Sono qui perché tu mi trattieni. Ma non è questo che voglio per te. Devi lasciarmi andare.»

Il vento si alza. All’improvviso.

L’erba si muove. Come un mare verde.

Poi d’improvviso l’erba svanisce.

Il cielo si fa bianco. Vuoto.

E Anna scompare. Con tutto il resto.

Si svegliò svuotato.

Anna non sarebbe tornata.

Non nei sogni.

Non in nessun modo.

Si avvicinò alla finestra. Scostò la tenda con le dita.

Fuori, Milano si risvegliava.

Indifferente.

Auto, tram, gente che camminava in fretta.

“Per loro era solo una domenica qualunque.”

Per lui, un altro giorno senza senso.

Chiudere gli occhi e smettere di esistere.

Il pensiero arrivò piano.

Un sussurro. Quasi innocuo.

“E se…?

Non lo completò. Ma lo sentì.

Chiaro. Dentro.

Pensò alla pace.

A non dover più sentire quel dolore.

Pensò alla possibilità di rivederla.

“Se mi lascio andare, se la seguo… forse la troverò. Forse potremo stare insieme. Per sempre.”

L’idea si insinuò dentro.

Come un veleno dolce.

Silenzioso. Pericoloso.

Bastava un gesto.

Ma poi, qualcosa si mosse. Dentro di lui.

Un’eco.

Un frammento del sogno.

Chiuse gli occhi. Serrò i pugni.

Anna non gli aveva chiesto di seguirla. Gli aveva chiesto di vivere.

E allora, cos’era più forte?

Il desiderio di raggiungerla? O il rispetto per ciò che lei voleva?

Riaprì gli occhi.

L’aria gli mancava.

L’idea era ancora lì. Ma qualcosa l’aveva incrinata.

Come un filo sottile. Teso, ma ancora integro.

Un filo che lo teneva legato alla vita.

Si vestì senza fretta.

Prese il cappotto e uscì, nel freddo della domenica.

Camminò senza meta.

Milano brulicava di vita.

Ma lui non ci badava.

Strade. Vetrine. Voci.

Tutto gli scivolava accanto.

Come acqua.

Ogni passo pesava più del precedente.

E più camminava, più un pensiero si faceva largo.

“Basta. Basta dolore. Basta svegliarsi ogni mattina con questo peso.”

Eppure, una parte di lui esitava ancora.

Perché?

Cosa lo tratteneva?

Si fermò davanti a una vetrina.

Farmacia Centrale.

La croce verde lampeggiava.

Un battito lento. Verde. Nero. Verde. Nero.

Come un cuore incerto.

Un pensiero lo attraversò. Secco. Immediato.

I sonniferi.

Li vendevano ancora.

Per dormire. Per calmare l’ansia.

Se ne avesse presi abbastanza…

Il cuore cominciò a battergli più forte.

Ma era un battito vuoto. Come un passo nel vuoto.

Fece per avanzare.

Poi si bloccò.

Un passo in più, e non si poteva più tornare indietro.

Rimase fermo.

Un attimo.

Poi il pensiero arrivò, inaspettato.

Martina.

Aveva perso anche lei.

Lo stesso vuoto, lo stesso dolore.

Eppure era lì, ogni giorno.

A camminare, a studiare, a scrivere.

A restare.

Non perché il dolore fosse sparito.

Ma perché aveva deciso che non sarebbe sparita anche lei.

Piero sentì qualcosa dentro tirarsi indietro.

Un filo sottilissimo. Ma resistente.

Ma il pensiero svanì in fretta.

Il vetro della farmacia era lì, immobile.

La croce verde continuava a pulsare.

Verde. Nero. Verde. Nero.

E la porta si aprì.

Un soffio d’aria tiepida lo accolse.

Poi si richiuse alle sue spalle.

Era dentro.

Si avvicinò al banco.

La farmacista gli rivolse un sorriso.

Una donna minuta, occhiali sottili, un filo di rossetto appena accennato.

«Buongiorno, mi dica.»

Esitò per un attimo, poi parlò.

«Mi servirebbe qualcosa per dormire. Qualcosa di forte.»

Lei inclinò la testa.

«Ha la prescrizione del medico?»

Piero abbassò appena lo sguardo. Scosse la testa.

Lei rimase immobile. Solo un attimo.

Uno sguardo. Più lungo del necessario.

Come se avesse visto qualcosa nei suoi occhi.

Qualcosa che non si poteva ignorare.

Poi prese una scatola dallo scaffale più in basso.

Mani lente. Precise.

«Non potrei. Ma… prenda queste. Una sola alla sera. Ha capito?»

Un attimo di silenzio.

«E se le fa male… torni qui. Non resti solo.»

Piero annuì. Non disse nulla.

Pagò. Uscì.

La porta si richiuse.

La croce verde lampeggiava ancora.

Verde. Nero. Verde. Nero.

Ogni passo, e quel peso nella tasca sembrava ricordargli cosa stava per fare.

Rientrò a casa nel primo pomeriggio.

La stanza lo accolse con il suo solito silenzio.

Ma quel giorno sembrava più freddo.

Si tolse il cappotto. Lo appese con cura.

Si guardò intorno.

La casa era ordinata.

Silenziosa.

Immobile.

Aprì l’armadio.

Prese il suo abito più bello.

Blu scuro. Quello delle occasioni importanti.

Lo scrollò leggermente.

Lo lisciò con le mani.

Poi lo indossò con calma.

Si abbottonò la giacca con lentezza.

Sistemò il colletto davanti allo specchio.

Era ancora in ordine.

Sembrava quasi un altro uomo.

Aprì il cassetto in basso.

Prese una cravatta.

Ne scelse una in particolare: seta sottile, blu profondo, motivi grigi.

Gliel’aveva regalata Anna. Un Natale lontano.

La passò tra le dita. Come se potesse ancora sentirne il profumo.

Poi la indossò. Stringendo il nodo con precisione.

Tirò fuori le scarpe eleganti.

Le osservò. Non le metteva da anni.

Prese un panno.

Le lucidò.

Gesti lenti. Precisi.

Il cuoio brillò sotto la luce fioca.

Le calzò. Chiuse bene i lacci.

Tutto doveva essere perfetto.

Controllò l’ora.

Era quasi sera.

Andò in cucina.

Aprì il frigo.

Prese qualcosa di semplice.

Una fetta di carne.

Un po’ di verdure.

Un bicchiere di vino rosso.

Apparecchiò il tavolo.

Mise anche un tovagliolo, piegato bene.

Sembrava una cena qualunque. Ma non lo era.

Ogni gesto aveva un peso.

Ogni azione era un rito.

Si sedette.

Mangiò piano.

Assaporò ogni boccone come fosse l’ultimo.

Finì.

Lavò i piatti.

Asciugò tutto.

Rimise a posto.

Tornò in camera.

L’abito era addosso a lui. Ma sembrava più pesante.

La cravatta gli stringeva il collo come un ricordo troppo vicino.

Si sedette sul bordo del letto.

Il tessuto frusciò appena.

Prese il flacone.

Lo rigirò tra le dita.

Lo posò accanto alla lampada.

Lo fissò. Come in attesa di qualcosa.

Ma nulla si mosse.

Allungò la mano.

Svitò il tappo.

Un clic secco. Come uno sparo.

Versò le pillole nel palmo.

Le guardò.

Piccole. Bianche.

Senza odore. Senza voce.

Ma dentro, urlavano.

Si alzò.

Poi vide il comodino.

Il taccuino.

Il biglietto piegato.

Per un istante si fermò.

Li aveva appoggiati lì come chi lascia tracce senza pensarci troppo.

Ma ora… sembravano parlargli.

Aprì il taccuino.

La prima pagina.

Scrivere non serve a far passare il dolore. Ma a non sparire con lui.”

E sotto, la sua grafia: Mi manchi.”

Sentì qualcosa dentro muoversi. Una stretta al petto, un nodo in gola.

Le pillole tremarono nel palmo.

Avrebbe potuto lasciarle cadere.

Per un attimo pensò di farlo.

Ma non lo fece.

Chiuse il taccuino, lentamente.

Lo posò di nuovo sul comodino. Accanto al biglietto. Accanto alla foto.

Poi tornò a guardare le pillole e andò in cucina.

Prese un bicchiere.

Lo riempì d’acqua. Lentamente.

Il rubinetto gocciolò un istante in più. Come un’esitazione.

Tornò in camera.

Il bicchiere in una mano.

Le pillole nell’altra.

Un sorso.

Un solo gesto.

E il dolore sarebbe sparito.

Chiuse gli occhi.

La vedeva ancora.

Il suo sorriso.

La sua voce.

“Se mi addormento adesso… la troverò?

Inspirò a fondo.

Portò le pillole alle labbra, ma un suono improvviso lo fece sobbalzare.

Un colpo secco.

Come se qualcuno avesse bussato alla porta.

Sollevò gli occhi.

E lo vide.

Il vecchio era lì.

In piedi.

Accanto alla finestra.

Non aveva aperto la porta.

Non era entrato.

Era semplicemente apparso.

Indossava lo stesso cappotto lungo.

Ma stavolta c’era qualcosa di diverso.

Gli occhi non erano solo vigili.

Erano profondi. Luminosi.

Una scossa fredda gli attraversò la schiena.

«Tu…» riuscì a dire.

La voce gli uscì strozzata.

Il vecchio non rispose subito.

Lasciò che il silenzio si posasse tra loro.

Poi parlò. Con calma.

«Non è ancora il tuo momento, Piero.»

Le mani gli tremavano.

Come foglie prima del vento.

«Io voglio solo stare con lei.»

«E la raggiungerai. Un giorno. Ma non oggi.»

Piero stringeva ancora le pillole nel pugno.

Ma qualcosa dentro di lui cominciava a cedere.

Il vecchio si avvicinò.

Gli occhi calmi. Profondi come il cielo.

«Pensi che la morte sia la risposta. Che questo dolore possa sparire spegnendo la luce.»

Piero abbassò lo sguardo.

Le mani strette.

Il respiro trattenuto.

«Sei stanco, lo so. Ma guardati attorno.»

Fece un gesto con la mano.

E all’improvviso, la stanza cambiò.

La luce diventò più calda.

Attraverso la finestra, Piero vide la città.

Ma con occhi diversi.

Vide un padre che rideva con il figlio sotto un lampione tremolante.

Il bambino lo rincorreva, fingendo di scappare.

L’uomo lo sollevava in aria, come fosse leggero come una foglia.

Le risate, limpide, rimbalzavano sui muri delle case.

Vide due innamorati che camminavano piano.

Le dita intrecciate.

Non parlavano. Si guardavano.

Ogni tanto sorridevano, come se non servisse altro.

Un passo alla volta. Come se avessero tutto il tempo del mondo.

Vide una donna anziana, seduta su una panchina.

Il cappotto chiuso fino al collo, un sacchetto in grembo.

Con calma, spezzettava una michetta.

La lanciava ai passeri radunati ai suoi piedi.

Ogni briciola, un gesto di cura.

Ogni sorriso, una memoria.

Vide la vita.

Non quella che fa rumore.

Ma quella che resiste nel silenzio.

Quella che passa inosservata, finché non si impara a guardarla davvero.

Sentì gli occhi bruciargli.

«Io non posso…» sussurrò.

Il vecchio sorrise appena.

«Puoi. E lo farai.

Non sei solo, Piero.

Non lo sei mai stato.

C’è chi ti ha amato.

E c’è chi ti guarda, oggi, senza chiederti nulla.

Una ragazza.

Che potrebbe essere tua figlia.

Che scrive su un taccuino per non crollare.

Che ha perso anche lei un pezzo enorme della sua vita.

Ma che ha scelto di restare.

E lo fa ogni giorno, senza fare rumore.

Come puoi fare anche tu.»

Qualcosa si sciolse, dentro di lui.

Uno spiraglio di luce, in mezzo al buio.

Anna era nel suo cuore.

E lì sarebbe rimasta.

Sempre.

Guardò le pillole nel palmo.

Poi si alzò. Andò in bagno.

Le lasciò cadere nel lavandino.

Aprì il rubinetto.

Le vide scivolare via. Dissolversi nell’acqua corrente.

Si voltò.

Il vecchio era ancora lì.

Ma stavolta sorrideva davvero.

Un sorriso di pace. Di certezza.

Piero annuì lentamente.

Non disse nulla.

Un battito di ciglia e il vecchio non c’era più.

Solo l’acqua che scorreva.

Solo il battito del suo cuore.

Testardo. Presente.

Come a ricordargli che il tempo, per lui, non era ancora finito.

♣♣♣

Giorno 8 – Lunedì

Il suono della sveglia riempì la stanza, ma quel giorno non attese il secondo squillo.

Allungò il braccio, la spense con un tocco deciso e si stirò sotto le coperte.

Poi le scostò e si sedette sul bordo del letto.

Fece un respiro profondo.

Il solito vuoto nel petto era ancora lì, ma sembrava più leggero.

Più sopportabile.

Si alzò e andò in bagno.

Rasoio elettrico, pettine, una spruzzata di eau de toilette.

Poi si guardò allo specchio.

Non sembrava poi così male.

Forse un po’ più vecchio.

Forse un po’ più stanco.

Ma vivo.

Tornò in camera.

Aprì il cassetto del comodino e prese il taccuino.

Lo sfogliò fino alla prima pagina libera e scrisse con calma.

Poi lo richiuse con cura.

Scelse una camicia pulita, un maglione che non indossava da tempo.

Poi il cappotto e le scarpe.

E uscì di casa.

L’aria del mattino era tagliente, ma limpida.

Il cielo, terso dopo giorni di nuvole, lasciava filtrare una luce fredda, quasi metallica, che disegnava contorni netti sui palazzi e faceva brillare le pozzanghere come specchi.

Il respiro si condensava in nuvole leggere.

Ogni passo risuonava sul marciapiede con una chiarezza nuova.

Un gruppo di bambini attraversava la strada.

Gli zaini rimbalzavano sulle loro schiene mentre chiacchieravano e ridevano spensierati.

Piero li osservò.

E, per la prima volta, il pensiero non fu amaro.

Un sorriso lieve gli sfiorò il volto.

Erano fortunati. Avevano ancora tutta la vita davanti.

Camminò con passo più deciso verso il Bar Sport.

Quando aprì la porta, vide Martina già seduta al tavolo di sempre, e ne fu felice.

Un sorriso gli affiorò spontaneo.

«Pensavo non venisse» disse lei, quando lo vide avvicinarsi.

«Ci tenevo. Avevo voglia di vederti. A proposito… dammi pure del tu, Martina.»

«Volentieri, Piero. Le formalità non mi sono mai piaciute» rispose, compiaciuta.

Francesco li vide e si avvicinò con aria complice.

«Il solito per tutti e due?»

Piero lo guardò.

«No, per me oggi un marocchino e uno di quei muffin al cioccolato.»

Martina rise piano.

«Stai cambiando le abitudini?»

«Una alla volta. Altrimenti che noia di vita…»

E rise. Come non faceva da tempo.

Dopo qualche attimo, fu lui a rompere il silenzio.

«Ho scritto stamattina.»

Martina lo guardò.

«Cosa hai scritto?»

«Una cosa semplice. Ma vera.»

«Vuoi dirmela?»

Piero sorrise.

«Ho scritto: ‘Quel che resta è amore’»

«Wow. Un ottimo inizio, Piero. Mi fa piacere vederti così.»

«Grazie, Martina. Sai… stanotte ho toccato il fondo. Ma sono riemerso.

E credo sia anche merito tuo.

Oltre a quello di un angel… va beh, lascia stare. Se te lo raccontassi mi crederesti pazzo.»

Fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca.

Martina lo guardò con un misto di sorpresa e interesse.

«Mi interesserebbe, invece. Magari me lo racconterai, quando ti sentirai pronto a fidarti di me.»

«Sì. Magari un altro giorno, Martina.»

Una pausa.

Poi, quasi nello stesso momento, parlarono.

«Senti… ti andrebbe…»

Risero entrambi.

Martina completò la frase:

«…di vederci anche fuori da qui?»

Piero annuì.

«Sì. Mi andrebbe davvero.»

Lei sorrise, stavolta più luminosa.

«Allora troviamoci. Anche solo per una passeggiata. Magari sui Navigli o al parco. Dove non serve parlare troppo.»

«Dove basta esserci» disse lui.

«Esatto.»

Finirono la colazione con calma.

Poi si scambiarono il numero, senza troppe parole.

Un gesto semplice. Come il loro modo di stare insieme.

Si salutarono con uno sguardo pieno.

Quando uscì dal bar, si accorse che, per la prima volta da molto tempo, stava andando da qualche parte.

Camminò verso la sartoria.

Lungo la strada, notò dettagli che prima ignorava.

Il sole che filtrava tra i palazzi.

Il profumo del pane appena sfornato.

Una ragazza che sorrideva al telefono.

Per la prima volta da tempo, Piero vedeva di nuovo la vita intorno a sé.

In sartoria scambiò qualche parola con il portinaio, poi con un collega all’ingresso.

Un semplice «come va?» che non diceva molto, ma significava tutto.

Alla postazione, Chiara lo guardò sorpresa.

«Ciao, Piero.»

La solita risposta automatica gli morì in gola.

Poi sorrise. Un sorriso vero. Anche se timido.

«Ciao, Chiara.»

Lei inclinò la testa, incuriosita.

«Stai meglio?»

Piero esitò. Poi annuì.

«Non lo so. Ma oggi… oggi è un po’ meno difficile.»

Chiara sorrise.

«È un buon inizio, allora.»

Piero fece un cenno.

Quelle parole gli diedero forza.

«Lo è. E se non è chiederti troppo… ti aspettiamo per il pranzo.»

Lei tornò al lavoro. Ma con un’espressione diversa. Di sollievo.

E lui sentì che quel piccolo scambio gli aveva fatto bene.

La giornata scorse in modo diverso.

Ogni gesto, ogni parola, era un passo avanti.

Alla pausa pranzo si unì ai colleghi.

La sala break era semplice: qualche tavolo, sedie spaiate, un frigorifero che vibrava piano nell’angolo e un microonde.

Ognuno aveva portato qualcosa da casa: panini, vaschette da scaldare.

«Attenzione, gente!» gridò Marco. «Piero è sceso dal suo eremo!»

Qualcuno rise.

«Era ora, Piero. Ci sei mancato.»

«Attento, Marco» disse Davide. «Che Piero ha i poteri: ti fa sparire la schiscetta solo con lo sguardo.»

«In effetti non ho portato nulla… potrei iniziare da te.»

«Gliela cedo!» rispose Marco. «A patto che resti anche domani.»

Con un gesto teatrale, Marco gli passò metà del suo panino.

Piero accettò. Ne morse un pezzo. Il pane era un po’ duro, ma gli sembrò buono come non succedeva da tempo.

Chiara gli fece un mezzo sorriso d’intesa.

«È bello rivederti qui, Piero.»

Lui la ringraziò con un cenno. E continuò a mangiare.

Il cibo era semplice, familiare.

Ma più ancora del cibo, lo nutriva la voce degli altri.

Per la prima volta, da tempo, si sentì parte di qualcosa.

Nel pomeriggio, rientrando in sartoria dopo una breve passeggiata, lo vide.

Capelli argento.

Occhi chiari come acqua.

Profondi come un addio.

Era lì, all’angolo della strada.

Lo sguardo di sempre.

Ma stavolta, nessuna attesa.

Solo pace.

Il vecchio lo guardò. Sorrise appena.

Come un padre che sa quando è il momento di lasciare andare.

Poi annuì. Dolcemente.

«Il mio compito qui è finito.»

Fece un passo indietro.

Stava svanendo. Ma aggiunse piano:

«Buona vita, Piero.»

Piero sentì il fiato spezzarsi.

Avrebbe voluto dirgli grazie.

Avrebbe voluto dirgli che ora aveva capito.

Ma quando sbatté le palpebre, il vecchio non c’era più.

Solo la strada.

Le voci.

La città.

Solo la vita, che lo attendeva un passo oltre.

Rimase lì un istante.

Poi lasciò cadere gli occhi là dove il vecchio non c’era più.

Un foulard.

Ripiegato con cura.

Colori tenui: crema, blu, una punta di rosso.

Lo riconobbe subito.

Era di Anna.

Quello che portava quando avevano fretta.

Quando rideva e gli diceva: Faccio prima a legarmi questo che a pettinarmi.”

Fece qualche passo e lo raccolse con cura.

Lo sfiorò con le dita.

Lo portò al viso.

Sapeva ancora di lei. O forse no. Ma bastava.

Lo infilò nella tasca interna del cappotto, vicino al cuore.

Poi alzò gli occhi al cielo.

Pensò a lei.

Il cuore si strinse. Ma in modo diverso.

Non era dolore. Era amore.

Quello che resta.

Quello che non si spegne.

La sentiva lì.

In quell’aria fredda.

In quel cielo chiaro.

In lui.

“Grazie, Anna. Un giorno ti raggiungerò. E saremo di nuovo insieme. Io e te.”

Ma non ora.

Ora c’era Martina.

Una presenza leggera e forte, com’era stata Anna.

Una giovane ragazza che portava sulle spalle il peso della perdita, eppure continuava a camminare.

L’aveva guardata all’inizio con curiosità. Poi con gratitudine.

E ora… con affetto.

Un affetto che assomigliava a quello che avrebbe potuto provare per una figlia.

Martina non aveva più un padre.

Ma forse lui poteva esserlo, per un tratto di strada.

Due assenze che si erano riconosciute.

Due solitudini che avevano trovato un’eco.

Non era una nuova vita.

Era la stessa, ma con qualcuno accanto.

Con un motivo per restare.

Sorrise.

Un sorriso piccolo. Ma vero.

Si riempì i polmoni d’aria fredda.

E ricominciò a camminare.

Dentro il giorno.

Dentro la vita.

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Un commento

  1. Pinuccia

    19 Maggio 2025 a 11:30

    Bellissimo molto toccante ti lascia gli occhi un po’ umidi ma la vita continua anche senza i nostri cari forse un giorno …….potrai rivederli o forse è solo un’illusione ♥️♥️♥️♥️♥️♥️

    rispondere

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