La riflessione sulla morte nell’ambito della filosofia non è certo una novità

Evelyn de Morgan, L’angelo della morte,1881

QUEL GIORNO CHE LA MORTE – NON – VERRÀ»

Il tema della morte appartiene al dibattito filosofico fin dai suoi primi albori. Si direbbe tuttavia che i pensatori degli ultimi due secoli ne abbiano riscoperto l’importanza sotto una nuova luce, associando forse quanto mai prima la fine della vita umana al suo dispiegarsi nel tempo. Cosa caratterizza il concetto contemporaneo della morte in filosofia? E come può la morte, termine ultimo di qualsiasi andare, fare pur sempre parte di ogni nostro passo?


E. Munch, L’angelo della morte (1893)

«La cultura della vita interiore è, in ogni epoca, in stretto rapporto di interazione con il significato che essa attribuisce alla morte. Come concepiamo la vita e come concepiamo la morte sono soltanto due aspetti di un atteggiamento di fondo unitario.»

Con queste parole, lucide e incisive, si apre un brevissimo trattato scritto negli anni Dieci del 1900 dal filosofo e sociologo Georg Simmel, dal titolo Metafisica della Morte.(1)

In questo breve scritto, Simmel – in quegli anni vicino a tematiche che poi caratterizzeranno il cosiddetto filone esistenzialista – condensa le sue osservazioni sulla morte come avvenimento caratteristico della vita di qualsiasi essere organico, un vero e proprio spartiacque tra ciò che vive e ciò che semplicemente è.

La riflessione sulla morte nell’ambito della filosofia non è certo una novità, tuttavia quel che stupisce delle pagine di Simmel è l’originalità con cui l’autore approccia il tema, distanziandosi esplicitamente dalla visione tradizionale, che considera la morte un accadimento tra gli altri – con l’unica differenza di essere l’ultimo di una intera vita.

Una visione definita in quest’opera da Simmel «rappresentazione della Parca», per la quale:

«Alla maggior parte degli uomini la morte appare come un’oscura profezia che aleggia sulla loro vita ma che tuttavia soltanto nell’attimo della sua realizzazione avrà qualcosa a che fare con la vita […].»

Le tre Parche di Bernardo Strozzi
Georg Simmel (1858-1918)

Il riferimento è alle figure delle Parche, divinità della mitologia romana corrispondenti alle Moire greche, alle quali spettava presiedere al fato degli uomini, dipanando il filo della vita, dispensando gioie e dolori del destino, e infine stabilendo il momento della morte.

Si tratta dell’immagine tradizionale della morte nel pensiero occidentale, secondo la quale la morte interverrebbe nella vita solo al suo termine, e in nessun altro momento, per fissarne l’inesorabile conclusione.

In contrasto con una simile concezione della fine della vita, Simmel dà alla morte una valenza nuova, diversa, che risuona simile a concezioni ontologiche ed esistenzialiste sorte negli anni a lui immediatamente successivi: la morte, lungi dall’essere l’evento ultimo cui incorriamo, fa parte dell’esistenza, le è connessa fin dall’inizio e nel modo più essenziale; e la vita non sarebbe come la conosciamo se non fosse vita pur sempre mortale.

La morte non è, perciò, un accadimento che avverrà nel futuro e che, in questo istante vissuto, non è presente: essa è piuttosto parte integrante dell’esistenza quotidiana, «pre-influisce su ognuno dei suoi contenuti e dei suoi attimi»(Simmel, Metafisica della Morte).

Scrive Simmel in Metafisica della Morte:

«Ma in ogni singolo istante della vita noi siamo fatti in modo da dover morire e ogni istante sarebbe diverso se questa non fosse la nostra sorte, che influisce in esso. […] noi non moriamo soltanto nel nostro ultimo istante.»

Con grande potenza espressiva Simmel coglie un tratto che caratterizza la riflessione sulla morte nella filosofia contemporanea, in particolare nel pensiero a lui di poco successivo.

Fra i filosofi novecenteschi vicini a questo tema spicca senz’altro il nome di Martin Heidegger, le cui tesi sulla morte espresse nella celebre opera del 1927, Essere e Tempo,(2) non possono ora non far tornare in mente le parole di Simmel nel suo piccolo trattato.

Martin Heidegger (1889-1976)

Nella seconda parte dell’opera appena citata, Heidegger analizza il fenomeno della morte in quanto «possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé», nella quale «incombe a sé stesso nel suo poter-essere più proprio».

Parafrasando la terminologia heideggeriana, l’autore di Essere e Tempo considera la morte come una possibilità che caratterizza la vita in ogni suo momento, che – nella indeterminatezza del suo “quando” – segue la vita quasi fosse un’ombra.

La morte, anche per Heidegger come per Simmel, non è un evento mondano fra altri, un «per ora non ancora, tuttavia in qualsiasi momento», ma la possibilità più propria e incondizionata dell’Esserci – dell’uomo: la possibilità di non essere più.

L’uomo, nella sua dimensione essenzialmente progettuale, ha sempre a che fare con l’idea della morte. Tuttavia, in pagine di acuta riflessione, Heidegger analizza il rapporto quotidiano che si ha con questa idea spesso insopportabile, mettendo in luce la tendenza umana a ridurre la consapevolezza della morte a qualcosa che di certo accadrà ma che, per il momento, non riguarda la vita.

Si tratta di una fuga obliante davanti alla possibilità estrema del nostro essere, guidata da forme d’essere inautentiche e, in termini tecnici, «impersonali» e «deiettive», che celano la natura di possibilità incondizionata e insuperabile della morte, eludendo quel carattere di indeterminatezza per il quale la morte è possibile in ogni momento della vita.

Manca, come scrive Heidegger in Essere e Tempo, il «coraggio dell’angoscia davanti alla morte», e così:

«viene velato il carattere più proprio della possibilità della morte: quella di essere possibile a ogni attimo […].»

Schiele, “La morte e la fanciulla” (1915)

Nel concepire la morte come intrinsecamente connessa alla vita, Heidegger assume una posizione di grande vicinanza a quella di Simmel. Tuttavia, sarebbe riduttivo credere che una simile prospettiva sul fenomeno della morte porti con sé conseguenze meramente teoriche.

Già in Simmel, ma sotto forma ancora più articolata in Heidegger, la nuova concezione della morte è strettamente correlata a una nuova visione della vita: si tratta di una vita che sappia assumere su di sé il peso incondizionato della sua finitudine, senza evadere dalla prospettiva della morte come costantemente possibile e connaturata alla vita.

Perciò, per quanto gli obiettivi di Essere e Tempo non siano affatto di tipo etico, il lavoro che Heidegger compie sulla morte sembra preparativo ad un “salto etico”: la morte, offrendo all’uomo la consapevolezza di vivere per un tempo finito, dispiega altresì la possibilità di scegliere un’esistenza autentica, che non sia governata dalla casualità e dall’impersonalità – in un Occidente che forse già un secolo fa appariva alla riflessione filosofica pericolosamente in balia di impulsi spersonalizzanti e livellanti.

Giulia Pullano

 

 

 

 

Approfondimenti del Blog

(1)

 

 

 

Descrizione

“Il procedere del mondo mi appare come il volgersi di una ruota mostruosa, appunto come il presupposto dell’eterno ritorno. Ma tuttavia non con la stessa conseguenza, che realmente, in qualche istante, si ripeta l’identico. La ruota, infatti, ha un raggio infinitamente grande. Solo quando è trascorso un tempo infinito, cioè mai, l’identico può tornare nell’identico luogo. Tuttavia, si tratta di una ruota che gira e che, secondo la sua idea, va verso l’esaurimento della molteplicità qualitativa, senza mai esaurirla in realtà.”

 

(2)

 

 

 

Descrizione

Quando nel 1927 Martin Heidegger pubblicò Essere e tempo, si ebbe subito la sensazione che un nuovo astro fosse sorto nel firmamento della filosofia. Da anni le sue lezioni – di cuiEssere e tempo è il distillato – avevano richiamato intorno a quel giovane «sciamano del pensiero» un folto gruppo di allievi e ascoltatori. Ma con l’apparizione del capolavoro fu chiaro a tutti che Heidegger emanava davvero un’aura magica:era un pensatore capace di fare filosofia in grande stile. Adottando una terminologia nuova, a tratti ostica e cruda, con cui cercava di superare la crisi del linguaggio filosofico tradizionale,Heidegger riprende e radicalizza l’antico problema di Platone e Aristotele: il problema dell’essere. Ma nella sua palpitante interrogazione tale questione è riproposta in modo tutt’altro che erudito o astratto, riflettendosi in essa le inquietudini di un intero secolo: il venir meno del sentimento religioso, il tramonto della metafisica e la crisi delle ideologie, la fine dell’assoluto e il diffondersi del nichilismo, lo stridente contrasto tra una macchina moderna sempre più complessa e un uomo sempre più elementare. Essere e tempo ha così ispirato importanti correnti della filosofia, della teologia, della psichiatria del Novecento. E il continuo susseguirsi di nuove letture – che lo interpretano via via comebibbia dell’esistenzialismo, decostruzione dell’ontologia, parabola gnostica o versione moderna della filosofia pratica – non fa che confermarne l’incontestabile centralità e attualità, alimentando ulteriori interrogativi. Perché quest’opera rimase incompiuta? Qual è il segreto del suo inesauribile fascino? Che significato ha la «svolta» fra il primo e il secondo Heidegger? C’è continuità o rottura fra lo Heidegger «ermeneuta dell’esistenza» e quello che si proclama «pastore dell’essere»? Le risposte vanno cercate in questo libro, al quale sempre si è tornati e sempre si tornerà. La nuova edizione italiana approntata da Franco Volpi – rispettando nella terminologia la storica versione di Pietro Chiodi, ma adeguandola ai criteri richiesti da una ormai consolidata tradizione di studi e di rigore filologico – è corredata di cospicui apparati e riporta per la prima volta le Glosse manoscritte da Heidegger a margine della propria copia personale.

 

 

 

 

 

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